lunedì 20 giugno 2016

Repubblica 20.6.16
La rottamazione grillina che batte il renzismo
La dorsale del disagio che colpisce Renzi
di Stefano Folli

STAMANE la vittoria dei Cinque Stelle a Roma sarà su tutti i siti web e sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. È una vittoria prevista ma clamorosa, anche nelle proporzioni. La capitale d’Italia verrà amministrata da una forza che pretende di essere un movimento e non un partito e che esiste da pochi anni. Beppe Grillo, assente durante la campagna, è piombato nella notte ad abbracciare Virginia Raggi e forse a sovrapporsi a lei. Quello che accadrà è un enigma avvolto in un rebus, ma i Cinque Stelle hanno vinto con un colpo di scena anche a Torino, il che raddoppia la loro responsabilità. Hanno gli occhi del mondo addosso e sono di fronte al passaggio cruciale della loro breve esistenza. Se intendono diventare qualcosa di diverso dal fenomeno protestatario e un po’ folkloristico che sono stati fin qui, salvo poche eccezioni, da oggi non dovranno sbagliare. Sapendo che le scelte possono essere impopolari e richiedono la capacità di riunire una classe dirigente.
SEGUE A PAGINA 37
DI SICURO sono scelte che turbano il raccontino manicheo dei buoni contro i cattivi. Per Matteo Renzi e il suo partito il risultato è molto negativo. È soprattutto un pessimo risultato per il “renzismo” inteso come ambizioso disegno volto a rimodellare l’Italia definendo i contorni di un partito personale costruito sul carisma del leader. Perdere Roma è grave, ma per mille ragioni inevitabile. Perderla con uno scarto percentuale così significativo è spiacevole, dimostra che Giachetti è stato un candidato dignitoso ma debole e fuori contesto. Tuttavia ciò che rende grave la sconfitta e apre un capitolo carico di incognite nel centrosinistra è la parallela caduta al Nord.
Fassino, uno dei fondatori del Pd, era in vantaggio di circa undici punti al primo turno e nonostante questo Torino ha da oggi un sindaco a Cinque Stelle. Torino, non solo Roma. La Capitale sconta un dissesto amministrativo di anni, il capoluogo del Piemonte è un’altra storia. Fassino ha adempiuto ai doveri del suo mandato con esperienza e serietà, come dimostra la realtà di una città ben gestita e sotto questo profilo non paragonabile a Roma. Eppure l’esito del voto è il medesimo al Nord come al Centro: vince l’alternativa “grillina” con le sue ricette vaghe, i mille No e le prospettive di “decrescita felice”. E se mettiamo nel canestro anche Napoli, dove De Magistris è stato confermato senza problemi, abbiamo una dorsale dell’anti-politica, della protesta e del malessere sociale che abbraccia mondi lontani e diversi da Nord a Sud, uniti da un senso di insofferenza e di rivolta contro il vecchio assetto. E infatti De Magistris, che non é “grillino”, ha assorbito e riproposto molti dei temi populisti cari ai Cinque Stelle. I quali sotto il Vesuvio quasi non esistono, mentre il Pd — come è noto — è completamente scomparso dalla contesa.
Quanto a Milano, Sala ha prevalso di misura. Nonostante questo, nessuno può davvero pensare che dal laboratorio milanese sia uscita la ricetta vincente per dimenticare Roma, Torino e Napoli. È un dato che rende meno drammatica la notte del Pd, ma non basta a costruire un’ipotesi rassicurante: troppo poco per riconciliare il centrosinistra con il suo elettorato, tanto meno per individuare le coordinate del famoso “partito di Renzi” su cui il premier ha puntato le sue carte a partire dalle elezioni europee del 2014. Così come non è sufficiente il successo di Merola a Bologna, terreno tradizionalmente favorevole, a garantire sullo stato di salute del Pd. Perché queste elezioni, pur nella diversità dei luoghi e delle situazioni, dimostrano che il Partito Democratico ha bisogno di essere ripensato dalle radici.
Travolto dai Cinque Stelle a Roma e a Torino, inesistente a Napoli, perdente a Trieste, vittorioso alla fine a Milano (e vedremo poi le altre piazze, alcune — come Varese — positive per il Pd). Un bilancio abbastanza misero per alimentare le prospettive renziane, il sogno del partito “di sistema” capace di tenersi l’ala sinistra e al tempo stesso di sfondare, novello Tony Blair, verso il centrodestra. Questo scenario non si è verificato e se Renzi conserverà Milano lo deve alla lealtà di Pisapia, che ha permesso di incollare a Sala buona parte dei voti di sinistra.
Il Pd ha bisogno di una rifondazione ideale e di un modo meno aspro di intendere la leadership. Il che non significa una trattativa di basso livello con la minoranza bersaniana. Ovvio che il premier-segretario deve attendersi qualche atto poco amichevole da parte di quel segmento del partito che è stato trattato con malcelato disprezzo negli ultimi due anni. Ma la rifondazione ideale presuppone un orizzonte assai più ampio. Temi, prospettive, ricerca di un nuovo rapporto con la base sociale e gli elettori; un rinnovamento che non sia solo la resa dei conti con gli avversari interni per promuovere il proprio gruppo di potere... c’è solo da cominciare. Il congresso del Pd potrà essere l’occasione propizia per segnare il cambio di passo, alla ricerca di un più equilibrato assetto interno. Ma nulla sarà possibile senza idee e suggestioni calate nel solco del riformismo europeo, fondate su una visione non solo propagandistica dell’Italia di oggi e del suo disagio, sullo sfondo di una ripresa economica troppo fragile e di ingiustizie percepite come intollerabili.
Il governo non corre rischi. Ma sarebbe grave se l’analisi si limitasse a tale considerazione. Questa volta è indispensabile un bagno nel realismo. A lungo, il premier si è protetto dietro uno scudo: l’assenza di alternative. Un centrodestra berlusconiano troppo debole e diviso fra moderati e “lepenisti” alla Salvini. E un movimento Cinque Stelle chiassoso ma immaturo e poco credibile come forza di governo. In parte è ancora così, ma sempre meno. Le elezioni comunali dimostrano che una forma di alternativa prende forma nelle città. Sarà incapace di esprimere, come si usa dire, una cultura di governo? Vedremo. La storia insegna che le alternative politiche con il tempo si creano sempre, per cui è pericoloso cullarsi nelle illusioni. Da stanotte anche il referendum costituzionale di ottobre diventa un’insidia da non sottovalutare. Non c’è un nesso diretto fra il voto amministrativo e la consultazione sulla riforma, salvo uno: la popolarità di Renzi è in calo insieme alle fortune del suo Pd. Per cui una certa retorica del rinnovamento, con il vezzo di dividere gli italiani fra riformisti e conservatori, rischia di essere irritante e poco utile. Anche rispetto alla strategia referendaria sarà opportuna una riflessione.