La Stampa 20.6.16
La rimonta di Appendino nell’ex roccaforte del Pd
“Abbiamo fatto la storia”
La bocconiana: dobbiamo ricucire una città ferita
di Giuseppe Salvaggiulo
«È
stato un lungo cammino, abbiamo fatto la storia». Un quarto d’ora dopo
la mezzanotte Chiara Appendino è sindaco di Torino e per la prima volta
si emoziona. Le trema la voce: «Cinque anni fa abbiamo gettato i semi
per un nuovo corso. Non siamo che un piccolo frammento nella storia
della città. C’era una richiesta di cambiamento sulla nostra pelle. Ci
siamo presentati così come siamo, come sono».
Chiara come sono tante.
Che ha 32 anni ed è nata il giorno dopo la morte di Enrico Berlinguer.
Borghese senza paillettes, bocconiana e scarmigliata, affilata e dolce,
di collina e di periferia, di lotta e da stanotte di governo. Chiara
come epifania della rivincita della sociologia sulla politologia,
proiettando contro pronostico una giovane donna alla guida dell’unica
città italiana nella lista dei «52 places to go in 2016» del New York
Times.
Ha calcato matita e smalto, ha rimpiazzato i maglioncini beige
con i tailleur blu, ha partorito una bimba in campagna elettorale e s’è
dovuta inchinare alle ospitate in tv, lei che il primo giorno in Comune
respingeva le telecamere. Ma in fondo è la stessa ragazza che quattro
anni fa si presentò alla Stampa per un forum su «Antipolitica o altra
politica?».
Era altra, eccome. «E’ giunto il nostro tempo», ha detto
ieri a rimonta compiuta.
Terzino d’opposizione
Riservata («quasi non amo
uscire da Torino») e cosmopolita (quattro lingue parlate), secchiona e
determinata, fa politica con piglio da terzino, lei che ha giocato a
pallone finché non s’è sposata. E così ha marcato il malcapitato Fassino
per cinque anni dall’ultimo banco della Sala Rossa, mordendogli le
caviglie e meritandosi appellativi come «consigliera insopportabile» e
«Giovanna d’Arco della pubblica moralità», fino all’infausta profezia:
«Mi sono seccato dei suoi giudizi presuntuosi. Mi auguro che un giorno
lei si segga su questa sedia, vediamo se sarà capace di fare tutte le
cose che dice… e comunque lo decideranno gli elettori».
In
quell’istante Fassino ha cominciato a perdere.
«Non mi sento
un’outsider», ha sempre detto Chiara. Madre prof d’inglese, padre
ingegnere e manager della fabbrica guidata da Gianfranco Carbonato, capo
degli industriali piemontesi e compagno di scopone di Chiamparino.
Maturità classica al Gioberti, dove studiarono Gobetti e Terracini,
Almirante e Vattimo. Un semestre in Germania a 18 anni, laurea
bocconiana con lode, tesi di marketing sulla Cina, specializzazione in
pianificazione e controllo di gestione, due anni alla Juventus lavorando
sulla valutazione dei giocatori, matrimonio con Marco conosciuto su un
campo da tennis. Nello stesso anno, il 2010, entra nella sua azienda che
produce oggetti per la casa e nel Movimento 5 Stelle. Primo contatto a
un banchetto nel mercato multietnico di Porta Palazzo. L’anno dopo è in
Consiglio comunale, prima con 600 preferenze in una lista che spende 6
mila euro per la campagna elettorale. Questa è costata 40 mila, con 30
pizze di autofinanziamento.
Trasversale
Chiara bifronte e trasversale,
di popolo e di establishment. Ha visitato 35 aziende e incontrato 40
associazioni. Di mercati rionali ne ha girati 60 in otto mesi,
gravidanza compresa. E sempre tornava a casa carica di fiori, ciliege e
mozzarelle degli ambulanti imbufaliti per il caro tasse. Nel frattempo
la borghesia la studiava, prima con sussiego poi con curiosità. A
gennaio un gruppo di imprenditrici e manager l’aveva interpellata.
Invito ritirato (non era piaciuta l’esibizione della maternità su
facebook) e riproposto un paio di mesi dopo: cena in una villa con venti
donne influenti della città.
Il Pd la sottovalutava. «Non vedo aria di
rivolta sociale e Torino è conservatrice», diceva Chiamparino. Un terzo
degli elettori della Appendino aveva votato Chiamparino due anni fa.
Un’onda anomala che si gonfiava sopra una campagna minimalista, in
attesa del rush finale. Mentre Fassino arruolava cascami del fu
centrodestra, lei ne conquistava l’anima. Nelle periferie impaurite. Tra
i giovani insicuri, i professionisti e gli imprenditori estenuati. «La
città di serie B». Non potendo stringere alleanze per statuto, le ha
contratte pescando assessori - sotto la copertura dei curriculum - a
destra (commercialisti forzaleghisti) e a sinistra (dall’Arcigay
all’urbanista ambientalista).
Fair play
Contro Fassino che la stuzzicava
(«La Raggi è più sensuale») e le rimproverava inesperienza, non ha mai
scagliato l’arma impropria dell’età, «elemento non dirimente». Lo
inceneriva nei faccia a faccia puntando gli occhi azzurri verso la
telecamera e nella notte lo ha ringraziato «per aver servito la città
con dedizione».
Citando Gandhi e Olivetti, «senza mai perdere il
sorriso» ha ostentato autonomia dal grillismo deteriore e dai contratti
capestro della Casaleggio Associati, lei candidata per acclamazione da
un’assemblea di 250 militanti in un circolo periferico alla Falchera.
Roba da vecchio Pci, altro che web. Su debito e partecipate non ha
alzato i toni, sul Tav ha declinato contrarietà bocconiane più che
valsusine (i supporter dei centri sociali non hanno gradito).
Quando un
fassiniano l’ha accusata di essere «democristiana» le faceva un
complimento. Da oggi «la mia sfida è ricucire una città ferita in un
destino che si perde oltre l’orizzonte».