La Stampa 20.6.16
Da uno contro tutti a tutti contro uno
di Federico Geremicca
Duecento giornalisti - dei quali moltissimi stranieri - stipati dentro e fuori il suo comitato elettorale.
Osservatori
politici e media, insomma, avevano già deciso qual era - ieri - il
luogo della possibile notizia: la vittoria di Virginia Raggi a Roma. Ed è
così - e appunto per questo - che un voto che non avrebbe dovuto avere
un peso ed un rilievo nazionale, si è trasformato in un evento che fa
fatto in un attimo il giro del mondo.
Virginia Raggi a Roma e
Chiara Appendino a Torino. L’attuale e l’antica capitale conquistate in
un sol colpo, e con due donne: è il trionfo del Movimento Cinque Stelle
al quale, nel fuoco di una crisi che da socio-economica va
trasformandosi ormai in crisi di rappresentanza, riesce quel che giusto
un anno fa era riuscito a Podemos nelle città di Madrid e Barcellona. E
anche lì con due donne, appunto.
È questo il segno dei ballottaggi
andati in scena ieri: due delle più importanti città del Paese passano
di mano, dal Pd - erede di antichi e storici partiti - al Movimento
voluto da un comico, Beppe Grillo, e dalla famiglia Casaleggio. L’altra
faccia di questa medaglia - come è evidente - è la prima, vera sconfitta
del Pd a «trazione renziana»: una sconfitta che soltanto
l’importantissima vittoria ottenuta a Milano con Beppe Sala, ha evitato
si trasformasse in una rovinosa disfatta.
Senza storia - proprio
come volevano le previsioni della vigilia - i risultati di Bologna e di
Napoli, dove sono confermati alla guida della città i sindaci uscenti:
Virginio Merola (Pd) e Luigi De Magistris. Eppure, nonostante la
sconfitta subita, fanno in qualche modo sensazione i consensi raccolti
dalla candidata leghista nel capoluogo emiliano: un risultato vicino al
45%, inimmaginabile a scommetterci ancora qualche settimana fa.
Ecco:
al di là del risultato ottenuto a Roma - dove si è votato in una
situazione straordinaria e forse irripetibile - a far suonare il
campanello d’allarme in casa Pd dovrebbe essere l’esito del voto a
Bologna e soprattutto a Torino: due città certo non male amministrate ma
dove il Partito democratico paga un prezzo assai alto, in termini di
consensi, sull’altare di un disagio e di una insofferenza che sarebbe
sbagliato, appunto, archiviare come «dato locale e amministrativo».
Su
quanto ci sia di nazionale nel voto di ieri, la discussione sarà -
presumibilmente - subito aperta dentro e fuori i partiti. Il Pd paga per
la sua azione al governo del Paese? E ancora più precisamente: è stato
un certo e crescente «rigetto» nei confronti di Matteo Renzi e del suo
«stile politico» - diciamo così - ad azzoppare i candidati democratici?
Le opinioni, come è ovvio, divergeranno. Ma una sensazione comincia a
farsi largo: e cioè, che il tanto cercato «uno contro tutti» (immagine
che può avere in sé perfino un che di esaltante) si sia trasformato,
ormai, in un inatteso «tutti contro uno», che è un’altra storia, con un
altro segno e, presumibilmente, un altro destino...
Infine gli
altri, intendendo non tanto i veri vincitori di questa tornata
elettorale - i candidati del Movimento Cinque Stelle, che quando
arrivano ai ballottaggi appaiono praticamente imbattibili - quanto i
perdenti più perdenti: e cioè i resti dell’antica coalizione di
centrodestra. Berlusconi e alleati erano arrivati al ballottaggio
(limitandoci alle città maggiori) a Milano, Bologna, Napoli e Trieste:
hanno vinto, grazie alla ricandidatura di un ex sindaco assai amato,
soltanto in quest’ultima città, subendo una sconfitta amarissima
soprattutto a Milano.
Se per il Pd, dunque, il quadro si fa
preoccupante (e vedremo, a partire da oggi, che piega prenderà la
discussione interna) per il centrodestra diventa drammatico. Sconfitto,
diviso e con un leader deluso e acciaccato, lo spettro dell’irrilevanza
politica pare ormai in agguato. Servono nuove rotte e nuovi equipaggi. E
servono in fretta: prima, cioè, che al tradizionale bipolarismo
Pd-centrodestra se ne sostituisca uno nuovo di zecca, tutto giocato
sulla sfida tra democratici e cinquestelle.