lunedì 20 giugno 2016

La Stampa 20.6.16
Gli elettori rottamano i politici
di Massimo Gramellini

I verdetti di Roma e Torino raccontano una rivoluzione. All’ombra dei volti rassicuranti di due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, nelle urne è andata in scena la rivolta contro l’Ancien Régime, incarnato proprio da quel Renzi che avrebbe dovuto rottamarlo. A guidarla un inedito Terzo Stato, composto dai ceti che la crisi economica ha indebolito e che l’aristocrazia del centrosinistra ha escluso dalla gestione del potere.
Per la prima volta nella storia, la rabbia dei romani e dei torinesi si è manifestata attraverso il rifiuto di chiunque avesse un’esperienza politica o manageriale consolidata. Anzi, era tale il disgusto per i professionisti del ramo che l’acerbità delle due signore Cinquestelle è stata considerata una medaglia al valore. Come quando in un ammutinamento l’equipaggio non affida il comando al secondo ufficiale, considerato troppo colluso col comandante, ma al mozzo che non ha mai tenuto in mano il timone e che proprio l’avere sempre vissuto sottocoperta mette al riparo dal rischio di essersi macchiato di particolari nefandezze.
La rivolta parte dalla pancia e quindi non fa sconti né differenze. Colpisce sia a Roma, dove il sistema locale di governo aveva tollerato e ingrassato Mafia Capitale, sia a Torino, dove funzionava decisamente meglio ma oramai era al potere da troppi decenni e aveva creato un groviglio inestricabile di rapporti amicali e familiari che ha convinto gli esclusi di essere tali non per incapacità ma per sopruso. Fassino però esce di scena a testa alta. Non altrettanto si può dire dei vertici masochisti del Pd romano.
Se al ballottaggio arrivano un renzista e un grillino, a vincere è il grillino: un’indicazione da brividi per i geni che hanno compicciato la nuova legge elettorale. Gli elettori di Berlusconi e Salvini che sono andati a votare lo hanno fatto in netta prevalenza per quello tra i due candidati che si collocava a maggiore distanza dall’establishment europeista e finanziario, oggi identificato col renzismo. Ed è questa la sentenza clamorosa che le urne consegnano al dibattito politico delle prossime settimane. Sorto in opposizione alla Casta, dopo due soli anni di governo il renzismo ha finito per diventarne il simbolo. È fallito il racconto del giovane politico di professione arrivato da Firenze per bonificare il suo partito e poi l’intero sistema, coniugando l’innovazione con la meritocrazia.
La crisi del renzismo ha tante tappe intermedie, ma una data di implosione ben precisa. La gestione del caso Marino, il «marziano a Roma» che in quanto tale era il simbolo plastico di una diversità politica: quanto di più vicino alla «narrazione» renzista si potesse immaginare. L’averlo cacciato in malo modo, quasi irridendolo come un corpo estraneo, ha simultaneamente appiccicato ai suoi epuratori l’etichetta di Casta 2.0. Ha cioè reso il renzismo uguale a ciò che prometteva di cambiare, almeno agli occhi dell’elettore tradizionale di sinistra. Negli anni del bipolarismo estremo quell’elettore veniva spinto a votare il candidato indigesto «turandosi il naso», pur di non fare vincere l’avversario leghista o berlusconiano. Ma Raggi e Appendino hanno facce e storie che non mettono paura a nessuno e contro di loro non poteva scattare il richiamo della foresta, benché almeno D’Alema sostenga di avere votato «secondo le indicazioni del mio partito» (dimenticandosi però di specificare quale sia).
La crisi economica sta bruciando le carte della politica una dopo l’altra. Ci erano rimasti due jolly: il renzismo e il grillismo. Uno forse ce lo siamo giocati. Rimane l’ultimo, che per fortuna in Italia è sempre il penultimo.