La Stampa 20.6.16
Le giovani donne che conquistano le metropoli
di Marcello Sorgi
L’elezione
delle due sindachesse, Virginia Raggi a Roma e Chiara Appendino a
Torino, non è solo la vittoria del Movimento 5 stelle, il miglior
risultato che il gruppo dirigente stellato (fino a qualche tempo fa si
sarebbe detto grillino) si sarebbe augurato e, di conseguenza, il
peggior boccone amaro da ingoiare per Renzi e il Pd. È il fatto che
siano due donne, con alle spalle una sola legislatura all’opposizione in
Consiglio comunale e nessun posto nella giovane nomenklatura che ha
preso il posto di Beppe Grillo, a rendere rivoluzionaria la loro
affermazione. Raggi e Appendino hanno richiamato dall’astensione, dove
si erano abbandonati per sfiducia, frotte di elettori andati alle urne
con il solo obiettivo di abbattere il vecchio potere, in qualsiasi forma
si manifestasse. Sotto le macerie di Mafia capitale, il mantra che
Raggi ha ripetuto ininterrottamente per tutta la sua campagna
elettorale, accusando quasi solo il Pd di esservi coinvolto e
dimenticando furbamente che la parte del leone, a Roma, l’aveva fatta il
centrodestra, e specificamente la giunta dell’ex sindaco Alemanno che
alla fine s’è ritrovato alleato. E dietro l’abito grigio, uniforme
istituzionale, di Piero Fassino, il sindaco della buona amministrazione
di Torino in questi ultimi anni, finito a gambe per aria solo perché la
sua lunga carriera incarna in modo simbolico vent’anni di establishment
di centrosinistra.
Fino a qualche mese fa Virginia e Chiara erano
praticamente sconosciute. Della Raggi si era sentito parlare dopo la
vittoria di Ignazio Marino, nel 2013, quando il primo cittadino poi
defenestrato dal Pd aveva tentato, alla Bersani, di trovare un accordo
con il candidato sindaco 5 stelle battuto, Marcello De Vito, e oltre
alla sua, aveva ricevuto una mezza apertura da parte della silenziosa,
fino a quel momento, consigliera Raggi, che volentieri avrebbe accettato
di entrare nella giunta. Un solforoso blog dell’allora indiscusso
leader Grillo aveva bruciato le ambizioni di entrambi. Poi, per De Vito,
l’eventualità di trovarsi ricandidato quest’anno, come premio della
buona performance di oppositore, era sfumata nelle beghe stellate
romane, tra Roberta Lombardi che giocava a suo favore e Alessandro Di
Battista e Paola Taverna che si opponevano e l’hanno spuntata, aprendo
l’occasione della vita davanti agli occhi di Virginia. Da quel giorno in
poi, va detto, lei, uscita vincitrice alle primarie, non ha sbagliato
un colpo, rimediando con understatement ai suoi studiati (e criticati)
silenzi sul curriculum - la pratica da avvocato nello studio Previti, il
posto in consiglio d’amministrazione datole da un allievo dell’ex
ministro berlusconiano, le consulenze della Asl di Civitavecchia -,
lasciandosi scivolare addosso le critiche e sapendo che il suo vero
compito di candidato era restare in groppa all’onda vincente dei 5
stelle, cosa che ha fatto fino all’ultimo con disinvoltura.
Quanto
a Chiara Appendino, la «Giovanna d’Arco della Sala rossa», come
incautamente l’aveva soprannominata lo stesso Fassino, esausto per la
sfinente contestazione che la giovane bocconiana gli somministrava in
ogni seduta del Consiglio e su qualsiasi delibera, aveva le idee chiare
fin dall’inizio e nessun avversario nel M5s piemontese, tanto che le
sono bastati 250 voti alle primarie per ritrovarsi in gara. Una volta,
contro Chiara, il sindaco in aula sbottò: «Un giorno lei si segga su
questa sedia e vediamo se sarà capace di fare tutto quello che oggi ha
auspicato di saper fare». Poi, forse pensando di aver esagerato, frenò:
«E comunque, lo decideranno gli elettori!». Eccolo servito, il povero
Fassino. E Chiara velenosamente, oltre alla tiritera delle solite
contestazioni al primo cittadino che legittimamente presentava il
resoconto positivo dei suoi anni di buon governo, ha ricordato tante
volte di quando Fassino aveva sfidato Grillo a presentarsi alle
elezioni: «E vediamo quanti voti prende!». A tutti, Appendino ha parlato
come la rappresentante di un’altra Torino, quella che oggi scoprono
tanti cittadini che pensavano di conoscere l’anima profonda della loro
città, e di qui a domani, quando i dati dei flussi elettorali saranno
conosciuti nei dettagli, si stupiranno a vedere che per Chiara hanno
votato molte imprevedibili persone conosciute, vicini di casa, giovani
ma anche anziani, gente di tutti i tipi che da tempo aveva voglia di
cambiare e finalmente c’è riuscita.
Roma e Torino, va da sé,
parlano a Renzi. E dovrebbero farlo riflettere sui suoi errori: la furia
con cui volle abbattere la giunta Marino, cominciando l’assedio
l’estate scorsa e concludendolo con la procedura infausta delle
dimissioni dal notaio dei consiglieri romani del Pd. In fondo, dopo mesi
e mesi di attesa, forse sarebbe bastato aspettare ancora un po’ per
poter celebrare le elezioni per la Capitale in un turno separato da
queste amministrative, evitando che diventassero l’appuntamento-simbolo
di questa tornata. Fassino stesso, come del resto Giachetti, il
candidato renziano sconfitto a Roma, avevano ammonito il
premier-segretario a evitare di far partire la campagna per il
referendum costituzionale in contemporanea con quella per i sindaci.
C’erano già stati, ad aprile, i quindici milioni di elettori - nucleo
forte dell’elettorato che è mancato ieri al Pd - presentatisi alle urne
della consultazione sulle trivelle, malgrado l’invito all’astensione del
governo. Che poi il sindaco di Torino, nella sua corsa solitaria, fosse
riuscito a recuperare buona parte dei professori del No alla Grande
Riforma che ha in Torino la sua capitale, insieme a un pezzo di
centrodestra rimasto fuori dal ballottaggio, era noto. Ed è stata
un’estrema prova di mestiere, che non è bastata, da parte di uno degli
ultimi professionisti della politica che la rivoluzione del 19 giugno ha
mandato in pensione.