Repubblica 2.6.16
La pacata euforia di settant’anni fa
di Nadia Urbinati
LA
festa del 2 Giugno non ha mai rappresentato motivo di scontro
ideologico, nonostante le divergenze politiche profonde tra i
protagonisti della nascita della Repubblica. Raccontano le cronache che i
vincitori di quel referendum non volevano ostentare esagerazione nella
vittoria «perché non volevano che questa suonasse offesa agli sconfitti »
scrivono Daria Gabusi e Liviana Rocchi nel loro libro su Le feste della
Repubblica.
Tutti gli italiani e le italiane, questa era la
convinzione unanime, si erano fusi in un patto che era e doveva essere
al di sopra di ogni forma istituzionale e che aveva il suo documento
nell’unità del Paese, suggellato da una guerra anche fratricida. Tutti
consapevoli che quel plebiscito di natalità era un atto di inizio non il
testo della liquidazione del passato.
E per questo, nei resoconti
successivi alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 Giugno
circolava addirittura un ossimoro per raccontare quegli eventi: pacata
euforia; «l’inizio della nuova Italia era non nella baldoria, me nel
silenzio, nella serietà e nella compostezza». Qualcuno si lamenta,
scrisse Ignazio Silone, «per l’assenza di un vate in un momento così
eccezionale della Storia italiana». La democrazia era nata senza vati e
senza capi, senza parole roboanti che parlassero di “momento storico”,
anche se quello era certamente un momento storico. Ma un atto di
liberazione non roboante e pacato era per Silone «un atto di modernità»,
un vero atto di nascita, di festa, di letizia. E per sottolineare
questa modernità di seria e corale responsabilità Piero Calamandrei
parlò di un «miracolo della ragione».
Il “miracolo della ragione”
era manifestato proprio dalla forza dei numeri con cui venne proclamata
la Repubblica. Il 10 giugno ne diedero lettura davanti ai giudici
togati, racconta l’allora ministro degli Interni, Romita: la
comunicazione alla Corte di Cassazione con i togati in piedi era
semplicemente questa, «per la Repubblica 12.672.767 voti; per la
Monarchia 10.688.905». Niente altro. Commenta Romita: «Una svolta
veramente storica, la semplicità direi quasi la pudica modestia, era la
più peculiare caratteristica della cerimonia ». I numeri soltanto, la
ragione democratica per eccellenza, prendevano la scena; da soli
bastavano. Dovevano bastare per dar legittimità di una differenza non
davvero grande, eppure enorme. Il patto che ne scaturì fu un patto di
unione che andava ben oltre i due milioni di voti di distacco. Un patto
che ha reso possibile settant’anni di vita civile. La Costituzione ha
unito il Paese, e lo ha fatto nel rispetto delle differenze, molte e
spesso radicali. Come una grammatica comune, ha consentito al pluralismo
delle idee e dei progetti di essere leva di una dinamica libertà, di
unire i diversi. È a questo del resto che le Costituzioni servono: a
dare regole condivise da tutti perché ciascuno possa liberamente
contribuire con le proprie idee e i propri interessi al governo della
cosa pubblica, con la parola e il voto, con l’elezione dei
rappresentanti e la formazione delle maggioranze.
L’impianto
anti-retorico e di “pacata euforia” della Repubblica che celebrava se
stessa con quel referendum era un inizio felice, un atto sia legale che
pedagogico. Come a voler abituare gli italiani e le italiane a un
succedersi di vittorie e sconfitte, ma sempre sentendo quel fatto
fondamentale un bene di tutti, non di chi aveva vinto.
Per il modo
come l’attuale campagna referendaria si sta svolgendo vi è da temere
che la Costituzione che ne uscirà non abbia la stessa forza legittimante
unitaria. Quale che sia l’esito. Come ha scritto Alfredo Reichlin su
questo giornale qualche giorno fa, vi è da temere che la Costituzione
sia vissuta, dai vincitori come dai vinti, come una norma di parte
contro parte. Se resterà questa Costituzione come pure se passerà la sua
revisione. In entrambi i casi l’esito di un referendum così aspro
potrebbe essere questo — e questo è il più grande rischio che corre il
Paese. Comunque finirà, i vinti non si sentiranno con molta probabilità
parte della stessa impresa e i vincitori.
I padri costituenti
decisero di distruggere le minute delle loro lunghe discussioni alla
fine dei lavori dell’Assemblea costituente — perché sapevano che
nell’atto volontario di oblio delle divisioni stava la condizione per
cominciare e sentire la Carta come un patto di unità. Un gesto saggio.
Come si può dimenticare una lotta a tratti furiosa nel linguaggio,
combattuta per di più non ad armi pari poiché una parte ha già da ora
più esposizione e più attenzione dell’altra? Come cementare un’unità
nella diversità se la diversità è, da ora, vissuta come un problema? Una
lotta così cruenta quando le ideologie non ci sono più a dividere è un
fatto difficile da comprendere e spiegare. E tuttavia il rischio
concreto sarà proprio quello di giungere, dopo settant’anni di unione,
ad una Costituzione che divide ed è divisiva, sentita come bene di
parte, di alcuni contro altri. Di questo dovremmo preoccuparci.