Repubblica 19.6.16
Il conto finale delle Olimpiadi
I soli Giochi in attivo sono stati quelli di Los Angeles del 1984, gestiti con logica privatistica, senza fondi pubblici
di Alessandro De Nicola
L’IMPORTANTE
non è vincere, ma partecipare: chi non conosce il bellissimo motto reso
noto (ma non coniato) dal barone De Coubertin che tutt’oggi ispira i
Giochi olimpici? Meno nota è un’altra considerazione dello stesso barone
che nel 1911 fece riferimento «ai costi spesso esagerati incorsi nelle
più recenti Olimpiadi». Poiché il tema delle Olimpiadi a Roma sta
tenendo banco e non solo per via della campagna elettorale, forse è bene
capire cosa l’organizzazione di un evento di questo genere comporti.
Chiarito subito che non è possibile, come auspicato dalla senatrice
Taverna del M5S, «rimandarlo», sarebbe opportuno cercare di farsi
un’idea dei pro e dei contro di un’eventuale aggiudicazione sulla base
dell’esperienza passata e di chi coinvolgere nel processo decisionale.
La
letteratura relativa all’analisi economica dei Giochi olimpici è
variegata: alcuni rapporti vengono considerati non attendibili perché
effettuati “su commissione”; in altri casi si sono riscontrate
difficoltà a reperire i dati necessari. Uno dei lavori più accurati è
quello della Said Business School dell’Università di Oxford che affronta
un tema particolare ma significativo, lo sforamento dei costi previsti.
Prendendo in analisi le spese direttamente legate all’evento sportivo
(trasporti, costo del lavoro, sicurezza, amministrazione, cerimonie e
così via) e quelli indiretti (villaggio olimpico, media center, ecc) per
le Olimpiadi sia estive che invernali dal 1960 al 2010, viene fuori un
quadro sconfortante: rispetto al budget preparato dal comitato
organizzatore le uscite in media sono schizzate in termini reali del
179%. Le Olimpiadi invernali di Torino sono state un po’ migliori con un
aumento solo dell’82 % sulle stime, ma in peggioramento rispetto alla
media delle Olimpiadi più recenti dal 1998 in poi. D’altronde, i Giochi
di Pechino, che si sono discostati solo del 4% da quanto previsto,
secondo i ricercatori di Oxford nascondono i cosiddetti costi indiretti
accessori, quelli per aeroporti, strade, ferrovie o ristrutturazione di
alberghi che in Cina sono stati enormi (si stimano esborsi complessivi
di addirittura 43-45 miliardi di dollari).
Si dirà che tutti i
progetti di grandi infrastrutture sforano le previsioni: sì, ma non di
così tanto, in genere, tra il 20 e il 45% e la ricerca conclude che
ospitare i Giochi dovrebbe essere considerato con grande cautela
specialmente dalle economie “problematiche che avrebbero difficoltà ad
assorbire costi in aumento e i relativi debiti”. Al lettore giudicare se
l’Italia sia o meno in questa categoria.
Riguardo agli effetti
macroeconomici delle Olimpiadi, guardando a quelle di Londra, le più
recenti e considerate di successo, non c’è alcun accordo tra gli
analisti. Alcuni (Pwc e Moody’s) stimano un beneficio per il Pil di +
0,1% l’anno, altri fanno risalire il buon andamento del terzo trimestre
del 2012 (data dei Giochi) al giorno di vacanza supplementare goduto dai
britannici nel primo trimestre. Le vendite al dettaglio sono calate
perché la gente stava davanti alla tv e le visite a musei, teatri e
luoghi di attrazione sono calate del 30%. Il villaggio olimpico è
costato 1,1 miliardi di sterline ed è stato rivenduto a 825 milioni, lo
stadio olimpico 484 milioni ed è stato affittato per 99 anni a poco più
di 200. Solo per la sicurezza si sono volatilizzate 5,7 miliardi di
sterline.
I soli Giochi in attivo sono stati quelli di Los Angeles
del 1984, gestiti con logica privatistica, senza fondi pubblici,
evitando di costruire cattedrali nel deserto e costringendo il Comitato
Internazionale Olimpico ad abbassare ogni pretesa in quanto mancavano
altre città candidate. Per il resto Barcellona ha lasciato 6,1 miliardi
di euro di debito, Atene 2004 ha praticamente rovinato la Grecia.
Anche
Torino 2006, che pure è stata organizzata bene, ha lasciato opere
inutili (il solo trampolino per il salto con gli sci è costato 34
milioni, è inutilizzato e succhia un milione di manutenzione l’anno),
perdite (coperte dai fondi pubblici) e debiti. D’altronde basta leggere
l’eccellente libro dell’economista Andrew Zimbalist sugli aspetti
economici delle Olimpiadi dall’eloquente titolo Circus Maximus per
convincersi che, con l’eccezione di Los Angeles, l’organizzazione dei
Giochi è stata un cattivo affare.
Se poi volgiamo lo sguardo ad
altri mega-eventi organizzati nel nostro Paese, la memoria va ad Italia
90 (costata ai prezzi di oggi 7 miliardi di euro con gli appalti
assegnati senza gare) e ai Mondiali di nuoto del 2009, le cui storie di
sprechi, corruzione, mancato utilizzo degli impianti sono leggendarie,
rappresentate plasticamente dallo scheletro del palazzetto con le vele a
pinne di squalo di Tor Vergata, costato 250 milioni.
Ciò detto,
si pone il problema di chi dovrebbe deliberare la candidatura di una
città a divenire sede olimpica. In Italia il decisore ultimo è il
governo. Tuttavia, ci sarebbe un modo più semplice di assicurare un
processo accurato ed equo ed esso passa attraverso il referendum. In
realtà, come suggerisce l’Istituto Bruno Leoni, questo dovrebbe
coinvolgere l’intero Paese, perché le eventuali perdite sarebbero
ripianate anche con la casse statali. Purtroppo questa sembra una
soluzione complessa mentre assai più praticabile è la consultazione
cittadina. Pure qui c’è un problema: i romani potrebbero essere ben
felici di votare sì ad un evento che porterebbe a loro i maggiori
benefici e al resto d’Italia il conto da pagare. Ecco quindi che si
potrebbe prospettare una soluzione simile a quella che il governo
canadese negoziò con Montreal e la provincia del Québec: la candidatura
deve prevedere obbligatoriamente un equilibrio tra costi e ricavi
(diretti e indiretti). Se alla fine le previsioni si riveleranno
sbagliate, la differenza la metteranno coloro i quali saranno chiamati a
votare, i cittadini romani (o laziali), che potranno quindi scegliere
tra rischio di nuove tasse e orgoglio cittadino. No taxation without
representation: vale anche il contrario però.