Corriere 19.6.16
Per i nuovi sindaci la sfida riguarda le disuguaglianze
di Ricardo Franco Levi
D
a Milano a Roma a Torino un tema si è imposto tra tutti nella lunga
corsa al voto per il rinnovo delle amministrazioni comunali e la scelta
dei nuovi sindaci: quello delle periferie, delle «due città».
Molto,
moltissimo, in questi anni della globalizzazione, delle nuove
tecnologie, della grande finanza e delle altrettanto grandi crisi, si è
studiata e dibattuta la questione della disuguaglianza, nel reddito e
nella ricchezza. Disuguaglianza tra gli Stati, fortunatamente in
diminuzione su scala mondiale, grazie soprattutto alla crescita di Cina e
India. Disuguaglianza, questa, invece, in crescita, all’interno degli
Stati, tra cittadini più ricchi e più poveri, tra regioni più ricche e
più povere (in Italia tra Nord e Sud).
Meno attenzione è stata
dedicata alla disuguaglianza dentro le città. Tra tutte, invece, la più
sentita e la più dolorosa perché la più vicina, che ciascuno tocca con
mano e misura nella vita di tutti i giorni, nella propria e in quella
degli altri che vivono nella medesima città.
Dato che questa è la
scelta che ci apprestiamo a compiere, una domanda, dunque, si impone:
per contrastare, almeno per attenuare questa «disuguaglianza a contatto
di gomito», un sindaco può fare qualcosa? E se sì, cosa?
Certo, un
sindaco qualche strumento — come i sussidi di varia natura a favore dei
più poveri o come la manovra sulle tariffe dei servizi e sulle imposte
locali — a disposizione ce l’ha. Ma è obbligatorio riconoscere e
ricordare che il grosso delle politiche di redistribuzione del reddito e
per ciò che in senso lato chiamiamo lo «Stato sociale» è, per
l’appunto, in capo allo Stato centrale.
Il campo nel quale,
invece, un sindaco può e, per quanto difficile sia, ha la responsabilità
di agire è il contrasto al processo che porta i ricchi e i poveri e,
più in generale, le persone a diverso livello di reddito, a vivere
sempre più lontani tra loro.
Un recente studio finanziato dal
Consiglio Europeo delle Ricerche, «Socio-Economic Segregation in
European Capital Cities», su tredici città europee, tra cui Milano i cui
dati sono, tuttavia, meno recenti e impediscono un confronto del tutto
omogeneo, evidenzia come tra il 2001 e il 2011 non è avvenuto soltanto
che i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri ma, quel
che più conta, la distanza in termini di reddito si è progressivamente
tradotta e radicata in una separazione geografica, con conseguenze
disastrose sulla stabilità sociale, la capacità d’attrazione e la
competitività delle città.
Di questo e non di altro si deve
intendere quando, come in questo acceso periodo preelettorale, si parla
tanto di periferie. Perché se un candidato sindaco si impegna a
intervenire — dai trasporti alla manutenzione delle strade, dai parchi
alle biblioteche, dall’edilizia alla sicurezza, dai campus universitari
ai campi sportivi — per migliorare la qualità delle zone meno centrali
della città, per fare di ogni zona un quartiere con la propria identità e
dove sia piacevole vivere, deve essere chiaro che l’obiettivo primo e
ultimo deve essere quello di conservare e coltivare, in tutte le zone
della città, un tessuto sociale composito, differenziato.
È
difficile, difficilissimo. Ancora di più quando al quadro di per sé già
complicato si aggiunge la questione e la prospettiva di un’immigrazione
inevitabilmente destinata a crescere e altrettanto inevitabilmente
composta da persone a basso reddito che si dovrà in ogni modo evitare di
confinare in quartieri dormitorio.
Solo una città nella quale i
cittadini, sin da bambini, a partire dalle scuole che in nessun modo
devono distinguersi tra scuole dei ricchi o dei poveri, possano
condividere gli elementi fondamentali della vita di ogni giorno, solo
una città così riuscirà ad evitare le brutture, le cattiverie, le
violenze delle periferie di Parigi o di Londra (e persino di Stoccolma).
Per
finire, un’avvertenza, un richiamo a un paradosso. Se in una città si
determinasse l’afflusso di un consistente gruppo di nuove persone ad
alto reddito (cosa che potrebbe, ad esempio, capitare a Milano se, in
conseguenza del possibile Brexit, si spostassero da Londra molti degli
operatori della finanza), si avrebbe sì l’effetto positivo di una spinta
allo sviluppo e alla ricchezza dell’intera città ma si avrebbe, al
medesimo tempo, un aumento della disuguaglianza.