Repubblica 19.6.16
L’Inghilterra e l’Europa, il destino segnato da Brexit
L’uscita sarebbe una sconfitta per tutta l’Unione e una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare l’esistente
di Eugenio Scalfari
NOI
oggi dobbiamo votare per le elezioni amministrative e questo è il tema
dominante della giornata ma è chiara la sua marginalità rispetto a
quanto accadrà tra pochi giorni con il referendum britannico. Sarà
quello un segno del nostro destino.
Ci sono molti motivi per i
quali gli inglesi (ma non gli scozzesi) non si sentono europei. Uno in
particolare lo spiega Bernardo Valli nel suo articolo di ieri su queste
pagine, citando lo storico anglo-francese Robert Tombs: «Quando gli
europei raccontano la storia d’Europa parlano dell’Impero romano, del
Rinascimento e dell’Illuminismo. Raccontano una storia continentale che
trascura la Gran Bretagna ed è questa la ragione per cui molti inglesi
considerano l’Europa come un’entità con la quale bisogna mantenere le
distanze».
In realtà le cose non stanno proprio così;
l’Inghilterra anzi, per molti europei, fa parte integrante del
continente e la sua storia è la nostra, strettamente connessa con quella
italiana, francese, spagnola, tedesca. Del resto l’Inghilterra (quando
ancora la si chiamava soltanto così) è stata il penultimo dei grandi
Imperi occidentali: quello romano, quello spagnolo, quello inglese e
quello americano. Il colonialismo francese fu un’altra cosa e non può
dirsi propriamente un Impero, anche se l’influenza politico-culturale
della Francia è stata dominante per tutto il nostro continente.
SEGUE A PAGINA 27
LA
VERITÀ è che sono soprattutto gli inglesi a sentirsi storicamente,
politicamente, culturalmente una Nazione, anzi una civiltà che ha
determinato la storia europea. Il progetto attuale di un’Unione europea
che, almeno in prospettiva, dovrebbe arrivare ad una vera e propria
Federazione sul modello degli Stati Uniti d’America, non piace affatto
agli inglesi. Questa è la vera radice dello scontro, anche se il Brexit
ridurrebbe il Regno Unito a non esser più unito e a diventare
un’isoletta come cantavano i fascisti degli anni Quaranta del secolo
scorso: «Malvagia Inghilterra / tu perdi la guerra / lasciare Malta e
abbandonare Gibilterra».
Non solo non perse la guerra ma riuscì da
sola a fronteggiare Hitler prima che l’America intervenisse al suo
fianco per difendere Londra e liberare tutta l’Europa dal dominio della
Germania nazista.
Dunque l’Inghilterra o comunque vogliamo
chiamarla appartiene alla nostra storia europea, geograficamente,
politicamente, culturalmente. Il Brexit — se dovesse vincere — sarebbe
una sconfitta per tutta l’Europa e per tutta la civiltà occidentale ed
una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare tutto
l’esistente cancellando il passato e lasciando il futuro sulle ginocchia
del Fato, cioè di nessuno.
***
Ci saranno anzitutto
ripercussioni economiche, e infatti le istituzioni di tutto il mondo
sono mobilitate: il Fondo monetario internazionale, la City e Wall
Street, la Borsa di Shanghai, le Banche centrali di Washington, di
Londra, di Zurigo, di Francoforte, di Tokyo, di Pechino, di Mosca, di
San Paolo del Brasile, di New Delhi e di Cape Town; i Fondi
d’investimento, i Fondi-pensione, il sistema bancario mondiale che è
ormai strettamente interconnesso.
Venerdì scorso le Borse di tutto
il mondo hanno avuto una svolta improvvisa: dopo una settimana dominata
dal ribasso, c’è stato un consistente rialzo generale connesso ai
sondaggi sul Brexit e sulle quotazioni degli allibratori di Londra:
l’omicidio della Jo Cox è diventato paradossalmente un elemento positivo
per le reazioni d’una parte consistente del Partito laburista e della
pubblica opinione liberale. Parrebbe da questi sintomi che l’esito del
referendum si stia per la prima volta orientando verso la permanenza
della Gran Bretagna nell’Unione europea, sia pure alle condizioni
abbastanza pesanti che Londra ha imposto e le Autorità dell’Unione
europea hanno accettato.
Se questo sarà l’esito referendario quale sarà alla lunga la politica dei 28 Paesi membri dell’Ue?
Personalmente
credo sia chiaro: una politica monetaria di maggiore flessibilità, una
politica dell’immigrazione più contenuta con l’obiettivo di trattenere
il più possibile in Africa i flussi che provengono da quel continente,
una maggiore apertura verso la Russia e soprattutto un aumento
dell’egemonia politica della Germania, concentrata soprattutto
sull’Eurozona.
Il nuovo equilibrio non può sfuggire a chi osserva
il sistema che si verrebbe a delineare: la Gran Bretagna resta in Europa
dando maggior peso ai Paesi che non appartengono alla moneta comune; in
compenso la Germania tende ad accettare una politica di crescita
concentrandola appunto sui 19 Paesi dell’Eurozona. Draghi rientrerebbe
nel quadro della Merkel che probabilmente accetterebbe la sua pressione
verso una politica espansiva e bancariamente attiva. Ad una condizione
però: che la garanzia alle banche non sia estesa anche ai depositanti
poiché i tedeschi non vogliono pagare per gli altri.
Insomma, se
la Gran Bretagna resta il suo peso politico-economico aumenterà, la
Germania diventa più aperta ad una crescita moderata da aumenti di
progressività; Francia e Spagna sono alle prese con difficoltà notevoli
ma saranno comunque aiutate da Bruxelles. E l’Italia?
Noi abbiamo
molto da guadagnare dal “Remain” inglese: diventiamo il principale
interlocutore della Merkel e al tempo stesso dei Paesi dell’Europa
meridionale, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia. Ed anche di Draghi e
di Juncker. Ma al tempo stesso del governo di Tripoli e perfino di Putin
come si è visto nei giorni scorsi. L’Italia ha un vasto e variegato
orizzonte dinanzi a sé. Sarà in grado di gestirlo convenientemente?
Qui
giocheranno in modo purtroppo difficile le qualità e i difetti di
Matteo Renzi. Come tutti, il nostro presidente del Consiglio è dotato
delle une e degli altri e più il quadro è complesso più le
contraddizioni aumentano. Tende a centralizzare la politica: è normale,
tutti gli uomini politici tendono a questo.
È normale la sua
politica se rispetta le origini e il ruolo di un partito di sinistra
democratica, che deve porsi come obiettivo di spostare l’Europa verso
una linea di sinistra riformatrice. Non è più il momento di rottamare
bensì quello di costruire e la sinistra riformatrice deve puntare in
Europa e in Italia sulla creazione di nuovi posti di lavoro,
sull’aumento degli investimenti, sull’aumento della produttività,
sull’aumento della domanda, sulla crescita delle zone depresse in tutta
Europa a cominciare dal Mezzogiorno italiano. Un ministro del Tesoro
unico dell’Eurozona, una Fbi europea e un ministro dell’Interno europeo.
Questo
è il programma da perseguire e questo ho avuto la possibilità di
discutere con Renzi sabato scorso all’Auditorium di Roma. Mi è parso
abbastanza interessato a questa diagnosi; in gran parte da lui stesso
anticipata. Con una differenza di fondo: la legge elettorale attualmente
vigente, che personalmente mi sembra del tutto inadeguata. Ma oggi non è
questo il tema: è il “Brexit”, puntando sull’ipotesi che vincerà il
“Remain”.
Se dovesse invece perdere, allora tutti gli scenari
cambiano. In peggio. Speriamo che la vecchia Inghilterra si ricordi del
liberale Churchill e dei laburisti dell’epoca. Gli uni e gli altri
volevano l’Europa. Erano più moderni dei “brexisti” di oggi che la
storia d’Inghilterra sembrano averla dimenticata.