domenica 19 giugno 2016

Repubblica 19.6.16
Una briciola di coraggio
 anni 70, quattro compagni di liceo e la violenza di un gelato spiaccicato in faccia. Un racconto autobiografico dall’autore de “La scuola cattolica”
di Edoardo Albinati

SPESSO SI ESITA SENZA MOTIVO prima di procedere alla scelta dei gusti con cui comporre un cono gelato, sbirciando oltre la vetrina alla ricerca di chissà quale novità. Su quattro che eravamo quella sera, solo Arbus rispose senza incertezza, «Crema e cioccolato», «Con un po’ di panna?» «No, senza». Oltretutto, fino all’epoca in cui accadde l’episodio che mi accingo a narrare malgrado la sua quasi assoluta insignificanza, le gelaterie anche le più rinomate disponevano di pochi gusti-base, sempre quelli, sempre gli stessi, sette-otto al massimo, nascosti nel frigo di acciaio inossidabile: solo il gelataio sapeva quali fossero e per cavarli fuori a cucchiaiate stappava in sequenza rapidissima i coperchi tondi, chiudendone uno mentre ne apriva un altro con gesti professionali e gelosi, destinati a non lasciar fuoriuscire il freddo, ma anche a celare quale delle vaschette interne coi diversi gusti fosse piena e quale vuota o quasi vuota, il che era dato intuire solo quando ci sprofondava dentro il braccio.
Oggi l’offerta è di una varietà tale da dare il capogiro: Pistacchio selvaggio di Bronte, Mascarpone e pere allo zenzero, poi Dulce de leche salato, Cioccolato alle mandorle d’Avola… Maracuja… «La scelta provoca angoscia», disse Arbus, cominciando a leccare il gelato, mentre Marco Lodoli ed io, appunto, esitavamo, e Rummo si teneva in disparte, per educazione. Sapere attendere, lasciare il passo agli altri, servirsi ultimo era la morale praticata a casa Rummo, nella sua numerosa famiglia.
… perché portiamo la camicia nera hanno detto che siamo da catene, hanno detto che siamo da galera!
Girammo tutti la testa verso l’angolo di via Alessandria.
Provenienti da Corso Trieste, lo stavano svoltando proprio in quel momento tre persone, e venivano diritte verso di noi. Facevano risuonare la suola degli scarponcini sul marciapiedi. Non camminavano, marciavano, proprio come soldati, battendo il passo, e come soldati indossavano divise. Due erano uomini grandi e grossi, dalle spalle quadre e le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci. L’altra era una ragazza anch’essa tarchiata, che spingeva in fuori i taschini cuciti sulla camicia cantando a squarciagola, come se volesse essere udita fino agli ultimi piani delle case di via Alessandria. Tutti e tre calzavano fieramente di traverso baschi neri. Capelli corti la donna, cortissimi gli altri due.
Arbus, Lodoli ed io eravamo sul marciapiedi fuori dalla gelateria mentre Rummo si attardava a pagare il suo cono, estraendo gli spiccioli dal fondo di una tasca. La paghetta a casa Rummo veniva distribuita in monete. «Anvedi questi…» mormorò Lodoli e scosse la testa riccia quando la ronda si trovava ancora a una ventina di passi da noi, poi si chinò sul suo gelato, che, a differenza di Arbus, aveva voluto alla fragola e pistacchio, con guarnitura di panna, e gli diede una leccata. Arbus stava studiando il suo cono e lo scolpiva con la lingua in modo che mantenesse, man man riducendosi di dimensioni, l’originale forma geometrica. Solo io non leccavo il gelato ma guardavo il gruppetto avvicinarsi. Il modo in cui oscillavano le braccia rigide avanti e dietro era marziale e al tempo stesso surreale. Ci scansammo per lasciarli passare. Proprio alla nostra altezza, batterono forte il passo in terra, e mi guardarono negli occhi tutti e tre. Sono sicuro ancora adesso, quarantacinque anni dopo, che guardarono soltanto me, dritto negli occhi, forse perché ero il solo che non fosse concentrato sul suo cono, o che mostrasse curiosità e stupore nei loro confronti.
O forse perché di noi quattro compagni di quarta ginnasio ero quello appena un poco sviluppato, che appariva grandicello insomma, dato che Arbus e Lodoli erano alti ma molto esili, mentre Gioacchino Rummo, che ci aveva finalmente raggiunto sul marciapiedi, pur avendo compiuto i quattordici anni sembrava ancora un bambino, con il taglio dei capelli biondi fatto in casa, le guance colorite, allegro, innocente.
Fatti altri tre o quattro passi e dato un pestone in terra per segnare il passo, uno della ronda girò la testa e mi squadrò di nuovo. I nostri occhi si incrociarono. Non feci in tempo a distogliere lo sguardo che lui stava tornando indietro. Mi venne vicino. I suoi camerati assistevano con le mani sui fianchi. Era appena più alto di me. Sorrise.
«Perché non canti anche tu con noi?» «Non so la canzone», mi venne da dire. Era una risposta buttata lì, una risposta ridicola, e infatti la donna scoppiò a ridere rovesciando la testa in modo teatrale.
«Vuoi che te la insegni?» Restai zitto. Qualsiasi cosa avessi detto, era sbagliata. Avrei voluto girarmi e cercare il sostegno dei miei compagni di classe, ma lo sguardo dello sconosciuto, i suoi occhi neri, le folte sopracciglia, la barba rasata che premeva sotto la pelle lustra, esercitavano su di me un controllo totale.
«Dai su, cantiamo insieme», e intonò: « Ce ne freghiamo. La Signora Morte/ fa la civetta in mezzo alla battaglia/ si fa baciare solo dai soldati… Dai, ripeti: ce ne freghiamo, la Signora Morte… ».
Rimasi zitto. Lui come se niente fosse continuò: « Sotto ragazzi, facciamole la corte!
Diamole un bacio sotto la mitraglia! » Se non avessi avuto il cuore che batteva all’impazzata avrei staccato una per una quelle parole, “morte”, battaglia”, “bacio”, “mitraglia”, e le avrei ricomposte in un ordine diverso, che ne avrebbe cambiato il significato. Ma non potevo. Ero in apnea.
«Allora?» Scossi la testa e così vidi i miei compagni, che io pensavo lontanissimi come se una ventata lì avesse fatti rotolare giù per via Alessandria, come se il canto di guerra intonato dalla ronda li avesse spazzati via dalla scena, e invece erano lì, accanto a me: ma non facevano nulla. Forse negli occhi di Lodoli si poteva leggere un disperato, e impotente, desiderio di intervenire in mia difesa, forse in quelli di Arbus c’era il suo consueto glaciale distacco…. mentre sembrava che Rummo, incredulo o ingenuo, non avesse ancora capito bene in che frangente ci trovavamo, anzi, in cui mi trovavo. Perché era proprio con me, era solo con me, che i camerati avevano deciso di prendersela, i miei compagni di scuola non si dovevano impicciare, la faccenda non li riguardava.
«Allora, non canti?» Tacqui.
«Ma sei fascista o no?» «No» La breve mia risposta anticipò come un lampo ogni pensiero. Non avevo fatto in tempo a calcolare l’opportunità di quella dichiarazione che essa, spontaneamente, uscì dalle mie labbra. Potrei dire che mi sfuggì e che corrispondeva al vero, ma potrei aggiungere che, se anche fossi stato fascista, gli avrei detto lo stesso di no. No. No. Il no è la risposta in cui si concentra la forza di un ragazzo specie quando è poca. Si può persino dire di no a se stessi.
Nel nostro quartiere, il quartiere Trieste, il QT, evidentemente si dava per scontato che i ragazzini di buona famiglia fossero camerati.
Dovevano esserlo. Ma non era così.
«Ah, capisco…», esclamò l’uomo in divisa, e delicatamente sfilò il cono dalle mie dita, come fa il gelataio quando ne prende uno dalla pila, «Peccato!», e iniziò a spiaccicarmelo in faccia. Fece questo, lo ripeto, con una certa delicatezza, tanto che il cono di ostia sottile non si spezzò, finché ebbi tutte le guance coperte di crema e cioccolato, cioè i gusti da me scelti per imitare Arbus. Se spesso faccio cose per distinguermi, più spesso ancora le faccio ricopiando qualcuno, prendendolo a modello, e a quei tempi il mio era Arbus, il genio della classe. Lo imitavo quasi senza accorgermene, per questo avevo preso un gelato uguale al suo così come leggevo i libri che leggeva lui e ascoltavo affascinato la Notte trasfigurata di Schönberg senza distinguerne una sola frase musicale, solo perché la ascoltava lui.
Quando il gelato fu quasi per intero sparso sul mio viso, e cominciò a colarne giù, «ecco qui», disse l’uomo in divisa e premette il cono in modo che s’incastrasse sul mio naso. «Pinocchio! », rise, «Pinocchio, non dire più bugie… ». Fu quello il momento più umiliante, perché io, paralizzato, non osai scollarmi il naso finto e attesi che cadesse da solo per terra. I camerati risero, quello che mi aveva punito mi diede una pacca sulla spalla, e insieme si riavviarono, con la ragazza in mezzo, verso piazza Regina Margherita, stavolta tenendosi a braccetto come si fa nei cordoni delle sfilate. Una punizione dolce, molto zuccherata, quella che avevo ricevuto… Lodoli affettuosamente mi aiutò a pulirmi la faccia con vari tovagliolini di carta. Arbus mormorò: «Sono dei poveri coglioni».
Come ho già chiarito si tratta di un episodio alquanto trascurabile della vita mia, della vita di quegli anni, della vita di quegli anni nel nostro quartiere, percorso da ben altri brividi di violenza, che mi sono deciso a rendere pubblico, sfacciatamente, solo perché una certa persona, solo perché una certa persona a me molto cara, a cui l’avevo raccontato anni fa per farci insieme due risate, mi ha più volte chiesto perché mai non l’avessi inserito in un mio recente libro, che in effetti è zeppo di aneddoti del genere, di epoca scolastica, e di grandi o piccole o infinitesimali avventure di quartiere. Questa cara persona, che è convinta di conoscermi come le sue tasche, e forse in effetti è vero, insinuava che io avessi tenuto fuori la storiella del gelato dal mio sterminato libro perché io, a conti fatti, non è che ci faccia una gran bella figura… insomma, che mi vergognavo allora e ancora mi vergogno di quel gelato spiaccicato in faccia dai fascisti senza muovere un dito. Senza reagire.
Inutile ammettere che lei ha fondamentalmente ragione. Eravamo noi compagni di classe in superiorità numerica, e tra quegli altri una donna, per quanto torva e atletica. Avrei potuto almeno resistere allo spiaccicamento del gelato in faccia e guadagnarmi in cambio un paio di cazzotti, sarebbe stato senz’altro più onorevole. È altrettanto inutile invocare le attenuanti: noi eravamo ragazzini e loro uomini fatti (quello che mi spalmò il cono in faccia aveva forse trent’anni) e di sicuro bene allenati in palestra a darle e a prenderle. Inoltre ci avevano colto di sorpresa, mentre loro facendo la ronda per il QT andavano apposta in cerca dello scontro. Ma è inutile, le attenuanti sono processi intellettuali che intervengono a posteriori quando la sconfitta è irreversibile e la vergogna… la vergogna resta intatta.
E il nostro dopotutto non si elevava nemmeno al rango di uno scontro vero e proprio: piuttosto di una lezione, di una lezioncina impartita da un adulto a un ragazzino abbastanza orgoglioso da dire di no, ma non abbastanza da sopportare virilmente le conseguenze di quel “no”. Orgoglioso solo a parole, con le parole… Rummo fu l’unico tra noi a mostrare un sentimento diverso sia dalla paura sia dalla vergogna, sia dalla stizza. Rummo fu il solo a dimostrare una qualità che di rado si manifesta in forma pura e disinteressata: almeno un briciolo di essa, e cioè, un briciolo di coraggio. Raccattò da terra il mio cono, corse dietro al terzetto, che aveva tranquillamente ripreso a marciare e cantare, e gli tirò addosso il cono. Il quale cadde tra i piedi della ragazza, che lo sbriciolò col tallone dell’anfibio, senza nemmeno darsi la pena di girare la testa per manifestare scherno o disprezzo. E dire che Rummo sì era davvero un bambino, ancora lupetto agli scout o poco più, e solo l’anno seguente avrebbe cominciato a crescere, a crescere una spanna dopo l’altra, diventando grande e grosso come tutti i Rummo, genitori, fratelli e sorelle. Tutti alti, biondi, e bravi.
Ce ne freghiamo. La signora Morte Fa la civetta in mezzo alla battaglia…
Non so se sia interamente vero, ma voglio affermarlo lo stesso: preferisco sbagliarmi su questo che avere mille volte ragione in altre faccende: il vero coraggio si sprigiona solo quando si è dalla parte del giusto.