Repubblica 19.6.16
La mente globale
Babele, gli algoritmi e la Rete ecco perché l’intelligenza artificiale siamo noi
Abbiamo
affidato tutto il nostro sapere al Web, lo abbiamo dotato di
conoscenza, intelletto e azione Manca un ultimo passaggio: dargli
un’anima. Per questo la tecnologia va di pari passo con la richiesta di
un nuovo umanesimo
di Maurizio Ferraris
Sono
trascorsi esattamente vent’anni da quando il filosofo Pierre Lévy ha
definito il Web lo spazio di una intelligenza collettiva. È facile
ironia opporre che quello che si è poi visto richiama spesso una
imbecillità di massa, ma il punto non è questo. Nel migliore dei casi,
il web ricorda la biblioteca di Babele, non un’anima del mondo. Ossia,
non è una coscienza, bensì un apparato di documenti che induce a
compiere certe azioni. Pensare al web come a una intelligenza collettiva
rientra in una serie di equivoci sistematici: ritenere che il web sia
essenzialmente comunicazione, che produca comprensione, sia fonte quasi
spontanea di trasparenza, e soprattutto che costituisca un veicolo di
liberazione.
Ovviamente non è così. Prima che comunicazione, il
web produce registrazione: genera dei documenti, fa delle cose e ne fa
fare delle altre, sulla base della responsabilizzazione che viene dagli
ordini scritti. Prima che trasparenza manifesta opacità, che è poi il
carattere proprio della realtà sociale — il che d’altra parte suggerisce
che non c’è credenza più ingannevole del fare del web un vessillo di
immediata trasparenza. Proprio questa illusione ha generato l’idea che
il web sia una intelligenza collettiva. In fondo, che cosa siamo noi
umani se non animali razionali? Dunque il nostro super-prodotto deve
essere un super-cervello, un general intellect trasparente e
autocosciente.
Ora, è molto diverso da così. Se c’è una cosa che
il web ha rivelato meglio di qualunque altro evento storico o apparato
tecnico è che noi siamo animali mobilitati, sottomessi e disposti ad
agire a comando, e senza capire il perché. E che agire è per noi il
valore fondamentale (che cosa, se non un bisogno fondamentale di azione e
di riconoscimento, può spingere a postare gratuitamente dei contenuti
sui social, magari con risultati catastrofici?). Questa non è una
alienazione, un evento che trasforma l’animale razionale che noi siamo
in una animale mobilitato, bensì appunto una rivelazione: credevamo che
all’inizio ci fosse il pensiero, mentre all’inizio c’è l’azione.
E
allora come pensare questo nuovo mondo? Piuttosto che nei termini di un
sapere, bisognerebbe concepirlo nei termini del fare. Lo spostamento e
la trasformazione che ha avuto luogo ricorda, piuttosto che la
formazione di una nuova biblioteca o (ancora più difficile) di un’anima
mundi, l’estensione di un potere e di una azione. L’analogia più
stringente è la trasformazione dei poteri così come è stata descritta da
Carl Schmitt in Terra e mare (1942). Dopo il passaggio da un potere
fluviale a un mare interno al mare aperto di cui Schmitt descrive le
fasi, abbiamo un evento imprevisto: il mare aperto e la terra sono ora
sottoposte a un unico nomos, il web. Come possiamo ri-concettualizzare
questo spazio e questo nomos? Propongo (con un immodesto paragone con il
Calvino delle Lezioni americane) sei parole-chiave.
Documentalità.
La globalizzazione che unisce terra e mare non dipende dai jet, ma
dalla scrittura, una tecnica più vecchia delle piramidi ma che è la sola
che permette di trasferire non oggetti fisici, ma oggetti sociali, come
il denaro, le leggi, le politiche e le identità. Ma non solo: la
scrittura, e la registrazione in generale, compie un miracolo, quello di
costruire gli oggetti sociali ( verba volant, scripta manent). La
recente e imprevista esplosione della scrittura rivela la natura
profonda della realtà sociale, che è composta da documenti, suggerendo
che il potere, che Foucault definiva come “governamentalità”, va meglio
specificato come “documentalità”.
Inemendabilità. Le nostre parole
sui social media, le nostre interazioni sul web, diventano solide come
alberi o sedie, e diviene vitale una presa di coscienza di questa
circostanza, troppo spesso sottovalutata. Le automobili hanno cessato da
mezzo secolo di diventare più veloci. Sono diventate più sicure, più
silenziose, più ecologiche. Hanno incorporato, cioè, delle valutazioni
dei rischi e dei principi di responsabilità. Per il web nulla di questo è
stato ancora fatto, tranne una focalizzazione sulla privacy che viene
contestata nei fatti dalla facilità con cui gli esseri umani rinunciano
alla privacy nei social network. Occorre insomma una ragion pratica del
web.
Mobilitazione. Dai nuovi media ci si attendeva emancipazione
dal lavoro, o almeno dalla ripetitività. Quest’ultima la si è avuta, ma,
in cambio, si è prodotta una mobilitazione totale delle risorse umane,
una mobilitazione che va al di là dello stesso utile economico, e che
dunque ci impone un ripensamento della natura umana, alla luce della
crescente necessità di riconoscimento e al non meno crescente peso di
responsabilità che si manifesta attraverso la mobilitazione documentale.
Emergenza.
Questa inemendabilità e questa mobilitazione sono emerse in larga
misura al di fuori della intenzionalità umana. Chi ha progettato i primi
personal computer non prevedeva in alcun modo che avrebbero trasformato
la vita dell’umanità e chi ha inserito la possibilità di scrivere testi
nei cellulari non avrebbe mai pensato che la maggior parte del traffico
telefonico sarebbe avvenuta per iscritto. Per questo la mia quarta
parola-chiave è “emergenza” — non nel senso delle uscite d’emergenza, ma
in quello per cui il progetto, l’intenzionalità, la costruzione non
scendono dal cielo, ma emergono dal mondo — naturale, sociale e, in
questo caso, tecnologico.
Esemplarità. Il richiamo all’emergenza e
alla tecnica non significa, come avveniva nel Novecento, rassegnazione.
La novità e l’esemplarità di una azione singolare sono sempre
possibili, e in effetti hanno luogo. Solo bisogna essere consapevoli
della singolarità di queste azioni, che investono responsabilità
individuali, e superare l’animismo incline a imputare i mali
dell’umanità a entità numinose e spesso astratte come il Mercato,
l’Europa, il Capitale.
Documedialità. Il fatto che la realtà
sociale sia fatta da documenti (documentalità) e il fatto che oggi non
ci sia più differenza tra la carta e il territorio, tra la realtà
sociale e la realtà mediale (per cui la documentalità è al tempo stesso
documedialità) comporta un ripensamento radicale di vecchie
contrapposizioni, e soprattutto della differenziazione, ormai obsoleta,
tra scienze e
humanities. Oggi più che mai la scienza come
esercizio specialistico ha bisogno di humanities, e oggi più che mai le
humanities sono all’altezza della scienza, nel nuovo spazio della
documedialità, una sfera in cui la lettera e lo spirito, la natura e la
letteratura, gli oggetti sociali, naturali e ideali così come gli
artefatti tecnologici trovano nuove forme di interazione, di dialogo, e
di progetto.