Repubblica 17.6.16
Dalle urne la società che vogliamo
di Stefano Rodotà
“LA
società esiste”. Queste tre semplici parole colgono le forti dinamiche
sociali rivelate dal recentissimo voto amministrativo, e così rovesciano
la fin troppo nota affermazione di Margaret Thatcher — «la società non
esiste, esistono solo gli individui» — che tanto ha pesato in questi
anni, influenzando pure la recente politica italiana. L’esigenza di
guardare alla società è sottolineata da tutti quelli che hanno dato la
giusta rilevanza al modo in cui si è distribuito il voto tra i quartieri
centrali delle città e i quartieri periferici. Ma il voto ha pure messo
in evidenza l’irrilevanza sociale di movimenti e gruppi assai influenti
invece nella dimensione politico-parlamentare. E sono emerse le
condizioni materiali del vivere, che rinviano all’impossibilità di
separarsi dai diritti sociali.
Come queste diverse dimensioni
possano comporsi e intrecciarsi non è questione facile, che tuttavia non
può essere affrontata con le categorie abituali. Se si considera
proprio il rapporto centro/ periferie, non ci si può semplicisticamente
rifugiare nello schema borghesia/classe operaia, la cui inadeguatezza è
rivelata, ad esempio, dalle analisi sui votanti per il Movimento 5Stelle
— prevalentemente giovani, con notevole scolarizzazione,
professionalmente caratterizzati. Si potrebbe essere tentati di
concludere che siamo di fronte ad una nuova incarnazione di quello che
Paul Ginsborg, considerando l’opposizione al berlusconismo nel primo
decennio di questo secolo, definì “ceto medio riflessivo”. Ma rispetto a
quelle esperienze, peraltro difficilmente riconducibili tutte al
medesimo denominatore, finora sembrano mancare la consapevolezza di
agire come unico gruppo sociale, l’esercizio comune e organizzato di
virtù civiche pubblicamente contrapposte al malgoverno. Oggi l’elemento
unificante è rappresentato dal riconoscersi in un soggetto politico già
esistente, appunto il Movimento 5Stelle. Su questo dato di realtà
bisogna ragionare, liberandosi di un altro schema, l’antipolitica,
divenuto ormai una semplificazione che esenta dall’obbligo di misurarsi
con una realtà in movimento. È di un’altra politica che si va alla
ricerca, seguendo motivazioni diversificate, a partire da un bisogno di
rappresentanza, non più soddisfatto dai partiti esistenti, di cui si
coglie piuttosto l’ormai consolidata deriva oligarchica, divenuta così
forte e sfrontata da respingere sullo sfondo il fatto che questo sia un
modo d’essere che riguarda lo stesso Movimento 5Stelle.
Sono i
paradossi di una situazione che ha visto proprio il disconnettersi tra
politica e società, con una ossessiva ricerca del bene assoluto della
decisione che travolge ogni altra esigenza e porta verso una
concentrazione oligarchica del potere. Così stando le cose, ogni rifiuto
dell’oligarchia diviene un segno importante per la permanenza della
logica democratica. Si è giustamente detto che la democrazia rischia di
ridursi da “due a uno”, identificata con chi detiene il potere di
governo in un momento determinato, sì che l’alternativa viene poi
presentata come impossibile o addirittura come pericolosa. Il voto del 5
giugno deve essere considerato anche da questo punto di vista, dunque
come una indicazione per un recupero della pienezza della democrazia.
L’esistenza
della società si fa ancora più evidente se il voto delle periferie, ma
non di queste soltanto, viene considerato anche come l’espressione di un
disagio sociale sempre più diffuso, che ha la sua origine in un
impoverimento non soltanto economico, ma derivante da una riduzione dei
diritti. Commentando proprio i risultati elettorali, Piero Ignazi ha
giustamente richiamato l’attenzione su una strategia che restringe
l’attenzione per i diritti a quelli “libertari” e ignora quelli sociali.
Strategia non nuova, nella quale si coglie una illusione “compensativa”
di cui le vicende storiche hanno mostrato l’infondatezza e che
contrasta con l’ormai riconosciuta indivisibilità dei diritti. Quando ci
si domanda se sia ricominciata una stagione dei diritti, com’è avvenuto
dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, non si possono
dare risposte che prescindano da uno sguardo d’insieme, dunque da una
considerazione primaria anche dai diritti sociali.
Lavoro, salute,
istruzione, abitazione e trasporti ci portano nel cuore della vita
quotidiana, dove il rapporto tra i cittadini e le istituzioni viene
percepito nella sua materialità. Qui il ritorno ad una contrapposizione
tra società e individui può produrre politiche che portano ad una
distribuzione delle risorse non solo a pioggia (o, come ora si dice,
lanciate da un elicottero), ma che poi si traduce nell’abbandono di
razionali strategie politiche e si affida ad un individualistico
“fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Ma così
non si recupera la fiducia dei cittadini, ma si istituzionalizza una
loro condizione di dipendenza, con inevitabili conflitti tra gruppi per
la spartizione di risorse scarse, In questo senso il voto dei cittadini
continuerà ad interrogarci, perché ciò di cui parliamo si chiama
eguaglianza, dignità, solidarietà. L’Europa distoglie il suo sguardo, e
Andrea Bonanni ha ben raccontato le ragioni di una rinuncia a politiche
costituzionali dei diritti nella quale il populismo ha trovato e
continua a trovare il suo alimento. Ma proprio la riflessione critica
imposta dai risultati elettorali offre all’Italia una opportunità per
guardare finalmente alla società per quella che è, riconoscendo che
viene continuamente messo in discussione “il diritto all’esistenza”, che
trova un suo esplicito riconoscimento nell’articolo 36 della
Costituzione, dove il diritto alla retribuzione è direttamente collegato
all’”esistenza libera e dignitosa” del lavoratore e della sua famiglia.
Proprio partendo da questa premessa, da tempo si discute
dell’introduzione di un reddito garantito, definito da molti appunto
come reddito “di dignità”. Una misura, questa, che in Italia ancora non
esiste e che, lo ha sottolineato Chiara Saraceno, “potrebbe essere uno
degli strumenti per non essere ricattati”, dunque per attribuire alle
persone una garanzia indispensabile per il rispetto dei loro diritti
fondamentali. Questo tipo di reddito può assumere forme diverse, ben
analizzate in un libro dedicato a “Il reddito di base” da Elena
Granaglia e Magda Bolzoni, e rappresenterebbe un essenziale elemento per
la ricostruzione delle basi materiali della dignità. Se si vuole
continuare a pronunciare quella parola senza farla divenire complice di
un permanente imbroglio retorico, bisogna ricostruire le condizioni
della sua effettiva rilevanza, della sua materialità, del suo essere
componente essenziale di quello che deve essere definito il
“costituzionalismo dei bisogni”.
Ma non posiamo fermarci qui. La
società italiana, ce lo ricordano periodicamente le vicende delle
campagne di Rosarno, conosce ormai una vera e propria schiavitù. Nessun
dato elettorale ci parla di queste persone. Ma questo ci autorizza ad
ignorarle, a concludere d’avere la coscienza tranquilla perché è stata
approvata una legge sul caporalato? Gli schiavi ci sono, mangiamo i
pomodori che raccolgono, ma sembra che vi sia ormai un tacito consenso
sul fatto che in Italia possano vivere persone per le quali la
disattenzione istituzionale e civile esclude la dignità. Abbiamo alzato
la voce contro la diffusione del “Mein Kampf” di Hitler, dunque di un
testo che ha posto le premesse perché agli ebrei fosse negata la dignità
e quindi la vita. Di fronte agli schiavi, privati di dignità e diritti,
rimaniamo silenziosi. E non possiamo dire di non sapere.
Qualche
sera fa in una trasmissione televisiva è stato intervistato un uomo che
vive in quei luoghi. Gli veniva chiesto che cosa pensasse della sua
situazione. Con tono pacato e in un impeccabile italiano ha detto
soltanto: «Ho perduto la speranza». No, questa non può essere la società
nella quale accettiamo di vivere.