giovedì 16 giugno 2016

Repubblica 16.6.16
Educhiamo i nostri figli a stare dalla parte delle bambine
di Matteo Bussola

A i maschi, da bambini, insegnano che le femmine non si picchiano neanche con un fiore. Da piccolo mi chiedevo il perché, visto che alle bambine il contrario non lo insegnano mica. Se ci educano da subito a non esercitare aggressività sull’altra metà del cielo è forse un indizio: l’idea che un germe di violenza abiti dentro ogni maschio, o questa cosa non avrebbe motivo di esser detta, nemmeno scomodando i fiori.
L’ombra del femminicidio, nella vita delle bambine, compare altrettanto presto.
Cresce piano, seguendo percorsi quasi obbligati, quando educhiamo le nostre figlie a esser docili, mentre ai maschi viene concesso con più facilità di essere indisciplinati e liberi. Quando, durante l’adolescenza, le femmine che sperimentano la propria sessualità vengono considerate ragazze facili, invece per i maschi sembra appartenere all’ordine delle cose. L’ombra si addensa ogni volta che, a parità di bravura, per una promozione viene scelto un uomo, ogni volta che a una donna, durante un colloquio di lavoro, viene chiesto se ha intenzione di avere figli, mentre agli uomini questa cosa non viene chiesta mai, come se i maschi fossero esentati dalla paternità che tanto ci sono le femmine ad alleggerirli dalla zavorra familiare. Ogni volta che, di una madre che torna tardi dall’ufficio, si pensa che sia una mamma disattenta, mentre un padre che fa la stessa cosa è solo un poveretto che si sta ammazzando di lavoro in nome della famiglia.
L’ombra si allunga quando, sposandosi, le donne si vedono costrette a rinunciare a parte della propria identità, cambiando il cognome in favore di quello del marito, mentre si insinua che senza un uomo a fianco valgano meno, che il mondo mica lo possono affrontare da sole. Quando, per descrivere una stessa condizione, si usa “scapolo” per gli uomini e “zitella” per le donne, dove la prima parola viene associata a una vita traboccante di potenzialità sentimentali, e la seconda indica un’inesorabile data di scadenza. Quando il rosa viene definito in automatico il colore “delle femmine”, mentre per esempio le mie tre bambine, come colori preferitissimi, hanno: il viola, il giallo e il rosso. Perché, come mi ha spiegato una volta Ginevra a cinque anni: «I colori sono solo colori, sai?».
L’ombra dilaga ogni volta che pretendiamo di far accettare il ricatto che identifica la femminilità con l’esser sempre docili, oppure quando, al contrario, di una donna efficiente in ambito professionale si dice che è una che ha le palle, come se essere determinati nel proprio lavoro significasse trasformarsi in uomini. Quando, di fronte a uno stupro, si sottintende che una gonna corta o un paio di jeans abbiano fatto la differenza.
Ma l’ombra più scura è quel pregiudizio che ci porta a concepire ogni donna come costola di un uomo, in cui si accetta una logica maschile basata sul possesso, anche sentimentale, e un destino femminile basato sull’accoglienza e sulla sopportazione.
Il femminicidio, non a caso, si concretizza spesso quando una donna si permette di dire a voce alta, forse per la prima volta, il suo: “No!” di fronte a un uomo. Un rifiuto che per un maschio, per quanto si consideri evoluto e rispettoso, suona sempre inatteso, addirittura ingiusto.
Certi uomini, quando quel “no” arriva, lo percepiscono come un’offesa personale, una ribellione inaccettabile. Quasi un’onta. E le onte si possono lavare solo col sangue, coprire con i lividi, cancellare con l’acido, purificare col fuoco. Senza destare stigmatizzazioni unilaterali. Con qualcuno che riconosce addirittura giustificazioni.
Qualche giorno fa un marito ha ucciso la moglie a coltellate, abitavano a dieci chilometri da qui.
Stamattina in edicola un signore commentava, a proposito dell’assassino: «Eh, ma in fondo l’era un bravo butél ». Un bravo butél è un’espressione che si usa da noi, equivale a: brav’uomo. Si usa come attenuante universale in varie occasioni. Sta a indicare che puoi commettere un errore, essere razzista il giusto, omofobo senza esagerare, dare qualche buffetto alla moglie, magari frodare il fisco, perfino compiere un omicidio volontario ma restare, tutto sommato, una brava persona. Uno che, in fondo, va compreso, nonostante gli eccessi.
Questa è la distorsione più pericolosa.
Se accoltelli tua moglie, se bruci la tua compagna – è surreale doverlo specificare – una brava persona non lo sei. Perché essere brave persone non è un’inclinazione naturale, ma una scelta culturale.
Il femminicidio, per cominciare, si può dunque disinnescare solo smettendola con gli alibi. Iniziando a capire che mentre essere maschi è una questione di sessualità e ha a che fare con quel che la vita ha scelto per noi, essere uomini è invece una questione di responsabilità, e ha a che fare con quel che noi, ogni giorno, scegliamo per la nostra vita.
Lavoriamo su questo, anche per i nostri figli.
Anche per le nostre figlie.
L’autore, fumettista, ha scritto Notti in bianco, baci a colazione ( Einaudi) sull’esperienza della paternità raccontata attraverso Facebook