giovedì 16 giugno 2016

Repubblica 16.6.16
Tutte le volte che gli uomini odiano le donne
Vite spezzate di cui rimangono solo foto sui social network Ma anche ragazze oggetto di violenza, ferite, raccontate e poi dimenticate dalla cronaca
Ecco di cosa parliamo quando parliamo di femminicidio
di Andrea Bajani

Tempo fa, durante una visita a una villa barocca nel nord della Baviera, una guida ha indicato a noi turisti un cerchio completamente imbiancato al centro del soffitto. Poi ha raccontato che lì sotto c’era uno dei più begli affreschi della zona. Ce l’ha illustrato nei dettagli, invitandoci a immaginarlo. Perché il tempo non lo rovinasse, ha poi spiegato, avevano deciso di coprirlo con la vernice. Così sarebbe rimasto intatto, incorrotto, per sempre. Prendere la più bella delle cose e poi murarla, soffocarla col pennello. Non riesco a non pensare a quel momento, ogni volta che un uomo fa violenza su una donna, che un fidanzato alza il braccio o prende un’arma contro la persona a cui teoricamente lo lega un sentimento. C’è qualcosa di tremendo nel distruggere la cosa che, almeno a quanto si dichiara, si ha più cara al mondo. Di più: c’è qualcosa di mostruoso, perché fa leva sulla supremazia del corpo,
sulla forza, perché è una vigliaccheria.
La cronaca dà conto di queste sparizioni, di queste donne di cui restano soltanto delle foto in cui sorridono, postate su qualche social network. Ecco, dicono quelle foto, l’affresco che c’era sotto quel bianco che vedete sul soffitto. Rideva, era una ragazza come tutte, era piena di energie, in questa immagine era al parco, in quest’altra in discoteca. Ce n’è una – nel suo profilo Facebook o Instagram – in cui c’è persino lui, quello che poi l’ha assassinata. I ricordi degli altri sono quello stesso stillicidio di dolore e di ricordi. Indicano anche loro il bianco sul soffitto, provano a raccontare tutta la bellezza che ci sta nascosta sotto, che strangola la memoria, rende inaccettabile il destino. Provano a dire, i ricordi degli amici e dei parenti, tutta la rabbia per un gesto antico quanto il mondo eppure ogni volta più spaventoso, proprio perché intanto il mondo ha srotolato il suo tappeto di retorica del progresso dell’umanità. La cronaca dà conto di queste facce inghiottite nel nulla, annullate da sentimenti contrabbandati per amore. Se ne conoscono i nomi, se ne ricordano i sorrisi, e vederli fa più male.
Si dà meno conto però dei volti di quelle donne che, massacrate dagli uomini a cui si erano legate, sono ancora vive. Le loro facce sono sfigurate, i loro corpi sono contusi, le smorfie delle labbra, le loro contrazioni, sono difficilmente contrabbandabili per sorrisi. Non sono finite sotto la volta affrescata di una villa, ma dentro una clinica, in una casa di cura, chiuse in casa per la vergogna di farsi vedere fuori. Eppure le loro fotografie, e i loro racconti, trovano meno spazio sui giornali.
È il caso, tra i tanti, di Chiara Insidioso Monda, di 21 anni, in coma per mesi dopo le violenze del cosiddetto compagno, un uomo di sedici anni più grande che a furia di calci e pugni ha ridotto al 10 per cento le sue facoltà cerebrali. Ci sono volute tre operazioni al cervello per riportarla in vita, anche se compromessa del tutto nelle sue funzioni. La sua storia l’ha raccontata la fotoreporter Isabella De Maddalena, è possibile leggerla sul suo blog e su ilprimoamore. com, che per primo le ha dato visibilità. Sul blog si possono vedere anche le fotografie che ha scattato la reporter, che è andata a incontrare Chiara e suo padre alla Fondazione Santa Lucia a Roma, dove è stata a lungo ricoverata. Sono fotografie durissime, mostrano, di volta in volta, una ragazza in coma, poi in carrozzina, la bocca aperta in una smorfia, imboccata dal padre che le siede accanto, impacchettato in una mantellina.
Quella di Chiara è, purtroppo, una storia come tante, e vedere quelle immagini sconvolge. Sono tanti i nomi delle donne che sono in quelle condizioni o che rischiano di esserlo. Per questo andrebbero mostrate e diffuse anche su un giornale.
Il femminicidio, come si è deciso di chiamarlo, certifica quello che è successo, come finisce una donna quando ha accanto un uomo di tal fatta. Qui, nella storia di Chiara si dice invece come si resta, in che condizioni, qual è la vita che c’è dopo. Credo che nel documentarlo ci sia una responsabilità collettiva, che è esattamente quello che viene meno in casi come questi. La violenza sulle donne è l’evidenza di qualcuno rimasto fuori dalla coperta della collettività: non solo dalla tutela della legge, ma anche dal suo sguardo, ovvero dallo sguardo di chi per mestiere, come noi, racconta il mondo e ci riflette.
Ecco, questo è un punto fondamentale, politico, civile. Quello sguardo, queste parole, sono la nostra porzione di responsabilità, il nostro dovere. Rifiutare di dare una mano di bianco sulle cose, è quella l’opzione che ci resta. Non prestarsi a questa connivenza, a raccontare solo il mondo per com’era, non giocare a ricordarlo con rimpianto, rabbia, disperazione e un po’ d’immaginazione. Raccontare piuttosto come si corrompe l’affresco, questo fa chi scrive. Raccontare come si rovina una cosa bella se la lasci al suo destino.