Corriere 16.6.16
Gillo Dorfles e il fascino dell’estetica senza paura
Eccentrico, stravagante, lontano da ogni accademismo: ritratto dell’inventore del kitsch
di Vincenzo Trione
Il
senso dell’itinerario intellettuale di Gillo Dorfles è nascosto nei
suoi quadri. Esercizi di matrice astrattista, abitati da sagome mobili,
da motivi fluttuanti, da barlumi di icone. In filigrana, quelle grafie
pittoriche lasciano affiorare il rifiuto per le icone chiuse, risolte,
compiute e, al tempo stesso, la predilezione per le forme aperte e
asimmetriche. In quei dipinti, si intuisce il desiderio di replicare il
flusso della libertà immaginaria. Assistiamo a un implicito elogio del
divenire. Concepito come luogo poetico e teorico di straordinaria
fertilità.
Il divenire, dunque. È questo il concetto intorno a cui
ha ruotato la riflessione estetologica di Dorfles, avviata nel 1952 con
il Discorso tecnico delle arti e proseguita con autentici classici
della critica come Le oscillazioni del gusto , Il divenire delle arti ,
Simbolo comunicazione consumo , Artificio e natura , Dal significato
alle scelte , L’intervallo perduto , Il divenire della critica , Elogio
della disarmonia , Il feticcio quotidiano e Fatti e fattoidi , che
vengono ora raccolti (insieme con altri saggi e articoli sparsi) in un
ampio volume, intitolato (in maniera un po’ criptica) Estetica senza
dialettica. Scritti dal 1933 al 2014 , in uscita da Bompiani, nella
prestigiosa collana «Il pensiero occidentale» (fondata da Giovanni
Reale), per la cura attenta e rigorosa di Luca Cesari.
All’apparenza
gli scritti radunati in questa sorta di «Meridiano Dorfles» ci mostrano
uno studioso eterodosso, eccentrico, distante dai modelli accademici
tradizionali: un unicum nella cultura italiana. Eppure, dietro la
maschera di questo stravagante autodidatta di talento, si cela un
pensatore che, sin dalle sue prime ricerche, non ha mai smesso di
interrogarsi con vivace ostinazione proprio intorno al «divenire delle
arti».
Lontano da un approccio di tipo storicista, iscrivendosi
nell’orizzonte della fenomenologia, sensibile alle questioni sollevate
dai padri dell’estetica della percezione (Arnheim), polemico nei
confronti di coloro che hanno sostenuto le ragioni di una sorta di
metafisica dell’originario, sorretto da un temperamento dinamico e
inquieto, Dorfles ha sempre scelto di curvarsi sul presente, inteso come
tessuto destinato a farsi e a disfarsi ininterrottamente; costellazione
centrifuga, policentrica, discontinua: sostanza liquida e
inafferrabile. Ne ha intercettato movimenti, emergenze, aporie. Ne ha
vissuto e testimoniato le lacerazioni. Ne ha seguito gli intrecci, le
confluenze e gli addensamenti. Da fenomenologo del gusto (come ama
definirsi), ha aderito alla superficie degli eventi artistici della
nostra epoca, svelandone anche i lati più oscuri. Senza mai rifugiarsi
in utopie né in regressioni nostalgiche. Con disincanto. Da illuminista.
Dorfles,
infatti, ha sfiorato tanti territori disciplinari, saldando intuizione
critica e indagine sociologica. Ma, in fondo, ha sempre conservato una
segreta coerenza. Il suo intento, come ha affermato in un articolo
uscito sul «Corriere della Sera» qualche anno fa, è stato quello di
rimanere fedele a un unico imperativo: essere up to date . «Ma con un
granello di sale». La sua azione critica ha racchiuso una curiosità
quasi adolescenziale per ciò che è inatteso e una sincera irritazione
per ogni eccesso. La passione per ciò che si andava componendo dinanzi
ai suoi occhi e un sottile snobismo aristocratico. Un’innata
flessibilità e il bisogno di assumere posizioni severe di fronte a certi
degenerazioni dell’arte e del costume.
Insofferente verso coloro
che parlano «dall’alto d’una incrollabile fede in una verità (...)
rivelata» e si affidano a «categorie estetiche immobili e predeterminate
(...), depositari d’una verità non transeunte ma definitiva e
inoppugnabile», sedotto dalla volontà di intercettare il manifestarsi
della novelty (per dirla con Hume), interessato soprattutto dalla
ricerca di coloro che sperimentano a oltranza, polemico verso ogni
filologismo specialistico, senza mai smarrirsi in «fatue divagazioni
attorno a impostazioni (…) astratte», Dorfles ha seguito con
«obiettività» le inclinazioni e le metamorfosi — il divenire appunto —
delle esperienze poetiche novecentesche che, condannate a un
«inevitabile e immancabile consumo», si consegnano a noi come geografie
mutevoli. Di questi scenari, ha osservato, «siamo i vessilliferi e le
vittime», incapaci però «di decretarne le leggi e di svelarne gli
inganni».
Queste intenzioni hanno condotto Dorfles a portarsi al
di là di ogni suggestione di tipo idealistico, per disegnare i contorni
di un sistema delle arti plurale all’interno del quale si dispone la
complessa latitudine dei media visivi contemporanei. Pur rispettando la
propria autonomia, nei libri del critico triestino (tradotti in molti
Paesi) diversi linguaggi entrano in relazione e si contaminano: la
pittura è in dialogo con il design, la grafica con l’architettura, il
cinema con la moda, la pubblicità con le ultime tendenze.
Impegnato
in «uno studio psicologico e sociologico dell’arte legato alla
personalità umana», Dorfles si è sottratto alle consuetudini care a
molti estetologi, i quali tendono spesso a elaborare speculazioni che
prescindono completamente dal «proprio» delle opere d’arte, cui
attribuiscono un significato paradigmatico e normativo. Egli, al
contrario, ha preferito estrarre le sue teorie dagli «oggetti» con i
quali di volta in volta si è misurato. Per questa ragione ha
accompagnato le sue ricerche con l’analisi di una molteplicità di
«casi»; e ha affiancato al suo mestiere di studioso una feconda attività
militante (come emerge dall’ampia raccolta, uscita recentemente da
Skira, Gli artisti che ho incontrato).
Il senso di tale strategia
ermeneutica potrebbe essere colto ritornando a un saggio del 1966 di
Adorno. Vi si legge: «Il rapporto dell’arte con le arti si può
paragonare senza forzature a quello dell’orchestra (...) con gli
strumenti; l’arte non è il concetto delle arti più di quanto l’orchestra
non è lo spettro dei timbri. Nondimeno il concetto di arte ha una sua
verità».
Dal confronto con le diverse pratiche della
contemporaneità Dorfles ricava la sua idea — già enunciata nel Discorso
tecnico del 1952 – dell’arte non come Gestalt , ma come Gestaltung : non
pura forma, ma forma in trasformazione, processo. Recensendo l’
Estetica di Pareyson nel 1956, egli rilevava: «L’arte sta a
rappresentare l’incarnazione quasi di quel processo ubiquitario che è
posto alla base, non solo dell’operatività umana, ma della stessa
spiritualità universale e che si estrinseca nel processo formale».
Senza
mai tradire queste convinzioni, sulle orme dell’estetica goethiana,
affascinato dal sistema dei miti e dei simboli, Dorfles ha sempre
manifestato le sue preferenze critiche per quegli artisti, per quegli
architetti, per quei designer e per quegli stilisti che, in linea con la
lezione del Barocco, hanno pensato il loro lavoro e le loro iconografie
come un’avventura «metamorfotica» e, insieme, «strutturante». Un
percorso mitopoietico insicuro, nel corso del quale si riarticola un
«pensiero per immagini (...) attivo e costruttivo anche al di là del
tipo di (...) conoscenza totalmente concettualizzata». In quell’alveo le
visioni si modellano come difficile gioco tra elementi razionali e
fantastici, tra momenti irrazionali e consapevoli. Infine, come
meraviglioso divenire.