mercoledì 15 giugno 2016

Repubblica 15.6.16
Mafia Capitale il grande accusatore fa scena muta in aula
Lo scontro dopo l’assoluzione dei Fasciani dal 416 bis E Grilli ricusa l’avvocato: “Non mi sento di rispondere”
di Federica Angeli

«SIGNOR GIUDICE sono venuto qui per rispetto alla Corte e a chi mi ha convocato ma voglio dirle una cosa che le sembrerà banale: io prima che scoppiasse mafia capitale mi ero ricostruito una vita. Dopo gli arresti tutti i giornali e le tv hanno titolato la “vendetta dello skipper”, il mio nome è rimbalzato ovunque e io ho perso il mio lavoro, mi hanno sfrattato da casa ed è un anno e mezzo che vivo all’addiaccio. Sono additato come un pentito e psicologicamente non me la sento di essere sentito così». Roberto Grilli, il grande accusatore di Mafia Capitale, siede al banco dei testimoni nella 89esima udienza del maxiprocesso mafia capitale per 9 minuti. Rifiuta di testimoniare senza il paravento di fronte a un’aula bunker (di Rebibbia) piena di avvocati, cronisti e imputati. Il dibattito sulle modalità della sua deposizione è durato un’ora e la Corte ha infine accolto la tesi della difesa, ovvero che il teste fosse interrogato senza protezione. La deposizione è quindi saltata, con la revoca del mandato al suo attuale avvocato e con la nomina del successivo. Tornerà in aula il prossimo martedì.
Alle 11 è il secondo pentito a entrare in aula e anche lui pretende di parlare protetto dal paravento: Sebastiano Cassia. In questo caso la richiesta viene accordata: a lui, a differenza di Grilli, è stato riconosciuto lo stato di collaboratore di giustizia e dunque ne ha diritto. Parte quindi l’interrogatorio mirato a ricostruire il ruolo e lo spessore criminale di Massimo Carminati e dunque ad avvalorare l’impianto accusatorio del 416 bis. «Mi viene da vomitare, sto male, non capisco cosa mi sta chiedendo il pm». Un esordio incerto quello di Cassia, le cui testimonianze sono state, una dopo l’altra, messe in discussione fino a essere smontate nel processo d’Appello con cui, due giorni fa, per la famiglia Fasciani è caduta l’accusa di mafia. Il suo malore viene confermato da un medico del 118 chiamato prima della deposizione che però conferma la regolarità dei parametri. Paura dunque. Ansia. Ma poi l’esame comincia.
«Facevo parte del gruppo di Benedetto Spataro della cosca siciliana Santapaola, Cosa Nostra. Benedetto mi raccontava che a Roma il suo referente per le armi era Carminati ». Il Cecato, in collegamento video dal carcere di Parma per la prima volta non sta seduto a braccia conserte e con le gambe accavallate. Cammina avanti e indietro, spalanca spesso le braccia e scuote di continuo la testa. «Nel ’94-’95 Spadaro prendeva armi da Carminati, diceva che era molto amico e che se c’era da fare una cortesia a Massimo andava fatta, come andare a menare una persona o a fare consegne per lui. Io un paio di kalashnikov nella casa ad Ardea li ho visti». Con Carminati ha mai parlato, chiedono i pm Luca Tescaroli e Paolo Ielo al teste, e nella risposta c’è tutto lo spessore del Cecato. «Guardi solo del più e del meno, di cose futili, quando ci siamo conosciuti nel carcere di Rebibbia dove lui era detenuto per i fatti di Andreotti. Mai di reati. Di reati ne parlava Benedetto con lui, io ero un semplice soldatino che eseguiva gli ordini, non mi sarei mai permesso di parlare di queste cose con Carminati». Questi nel codice criminale sono argomenti di cui solo tra pari si può parlare. E il boss della cosca di Casa Nostra «non poteva essere scavalcato, quindi con Carminati ci parlava lui, e io solo con Spadaro parlavo».