mercoledì 15 giugno 2016

La Stampa 15.6.16
Un’attesa che confonde le idee
di Giovanni Orsina

Ma perché, là dove c’è un’elezione che prevede il ballottaggio, non riformiamo la legge così che fra il primo turno e il secondo passi una sola settimana, anziché due? Ovvero: siamo sicuri che lasciare al dibattito politico quattordici giorni aiuti davvero gli elettori a chiarirsi le idee?  C’è da chiedersi innanzitutto fino a che punto e in che senso gli elettori vogliano chiarirsi le idee. Di elezione in elezione, gli italiani si fanno sempre più sfuggenti e imprevedibili. La fedeltà a uno schieramento è un valore ormai superato per la maggior parte dei votanti: solo il 44% di quanti hanno scelto Fassino nel 2011 lo ha rivotato ora al primo turno – contro il 90% degli elettori di Chiamparino del 2001 che lo confermarono anche nel 2006. Fra quanti votano, molti decidono nelle ultime ore, o magari anche negli ultimi minuti, dove segnare la croce. Gli elettori, poi, son sempre più dispettosi: il voto «contro» – che caratterizza da decenni un Paese come il nostro, segnato da forti ostilità politiche – sembra farsi sempre più robusto. Difficile capire, in queste condizioni, quanto pesino sulle scelte elettorali il caso, le contingenze, le frustrazioni, o gli istinti, piuttosto che le idee chiare.   Agli elettori, in secondo luogo, viene presentato un guazzabuglio tale di questioni sulle quali pronunciarsi, da rendere il giudizio assai difficoltoso. Guardiamo a questa tornata elettorale. La polemica politica e la diversità dei punti di vista non hanno facilitato la valutazione «oggettiva» della performance amministrativa dei sindaci uscenti. In alcuni casi – penso ad esempio a Roma – i problemi sono talmente gravi e richiederebbero la gestione di così tante variabili, molte delle quali non romane, da rendere pressoché impossibile calcolare quanto le soluzioni proposte dai vari candidati siano credibili (quasi sempre, in verità, lo sembrano molto poco). Aggiungiamo la struttura ormai tripolare dello scontro politico – o addirittura quadripolare, là dove la destra si presenta divisa. Con l’intrecciarsi di almeno due linee di frattura: destra contro sinistra, e «nuovo» contro establishment. E in cima a tutto mettiamoci infine il significato nazionale, ineludibile, di questo voto: si sta decidendo dei sindaci delle maggiori città d’Italia, o di Renzi e della sua riforma costituzionale? I candidati ai ballottaggi hanno mostrato di far fatica a muoversi in un’arena così frammentata, e davanti a spettatori tanto indisciplinati. Una fatica e un nervosismo accresciuti in alcuni casi dalla consapevolezza che il risultato finale potrebbe giocarsi su poche migliaia di voti, e che quelle poche migliaia potrebbero esser spostate da un errore o una gaffe anche piccoli, o dell’ultimo minuto. Per un verso, quei candidati hanno dovuto cercare la massima visibilità. E l’hanno trovata grazie a uno strumento di comunicazione vecchio ma evidentemente ancora essenziale: la televisione. Per un altro – con l’eccezione di Beppe Sala a Milano, che ha cercato di recuperare quanto possibile a sinistra – il loro sforzo maggiore, una volta diventati visibili, sembra esser stato quello di non generare ostilità più che di sollecitare affezione. Di non farsi votare contro. Di mettere in ombra tutti i punti di riferimento nazionali che potessero generare antipatie o sollevare dubbi: Grillo, Salvini, ma anche Renzi. Di non spaventare nessun interesse sociale rilevante. Anche là dove ci sono interessi che andrebbero senz’altro colpiti – come, di nuovo, a Roma. E anche da parte dei candidati del Movimento 5 stelle, la cui missione dovrebbe proprio esser quella di sgonfiare le sacche di privilegio. Certo, la logica del ballottaggio spinge di per sé ad allargare il consenso al di fuori del proprio bacino tradizionale, e quindi a cercare di ridurre il numero dei nemici più ancora che di aumentare quello degli amici. La complessità di sfide tri- o quadripolari, però, la disaffezione e delusione dell’elettorato, e la sua propensione a votare a dispetto, hanno contribuito a infiacchire ancor di più il dibattito politico di queste due settimane. Tanto da spingere a chiedersi, appunto: ma non sarebbe stato meglio chiudere tutto in una settimana?