La Stampa 15.6.16
Il vento delle periferie soffia indicando il cambiamento
Anche col rischio di cadere
di Massimo Gramellini
Un vento dimenticato spira su questa Torino umida di fine primavera che si prepara al ballottaggio.
Forse
non gonfierà le vele di una nuova maggioranza. Ma intanto sbatte, fa
rumore. Soffia dalle periferie alle università, dovunque qualcuno si
senta escluso dal sistema di potere che da un quarto di secolo ruota
intorno al centrosinistra. Prima che di un cambiamento, indica la voglia
di un ricambio.
Per chi lo osserva dai vetri, quello che governa
Torino è un sinedrio chiuso che ti ammette al suo interno solo per
cooptazione. Le stesse persone che da decenni si incontrano alle stesse
cene, si scambiano gli stessi incarichi e partecipano allo stesso
banchetto di soldi pubblici che anche gli esclusi hanno contribuito con
le loro tasse ad allestire. A chi non ne fa parte interessa poco che
questa aristocrazia, riunita oggi intorno a Fassino, sia la migliore
delle grandi città italiane e probabilmente più preparata di quella che
circonda Chiara Appendino. Per gli esclusi il desiderio di aprire le
finestre è così impellente che prevale persino sul rischio di fare
entrare aria cattiva.
Ho letto su Facebook il post di un militante
liberale, uno di quei torinesi di centrodestra che hanno votato
Berlusconi per anni senza mai amarlo. Tratteggia il futuro a tinte
fosche che attende Torino nel caso di una conquista grillina,
profetizzando anni di Terrore giacobino a base di linciaggi e politiche
afflittive (No Tav, No Cittadella della Salute, No tutto). Ma, dopo
avere descritto la vittoria dei Cinquestelle come una sciagura, annuncia
a sorpresa che voterà per loro. Perché, scrive, solo da una fase
distruttiva potrà sorgere una classe dirigente nuova, finalmente basata
sulla competenza invece che sulla vicinanza. Un’utopia in un Paese come
l’Italia, dove nel campo delle nomine pubbliche l’amicizia non è
considerata un limite, ma un vantaggio. Eppure ci sono dei momenti in
cui le utopie si mescolano alle invidie, le invidie alle rabbie, e
insieme sollevano un vento che va a infrangersi contro il primo albero
lungo il cammino.
Piero Fassino è un albero esile, ma ben
radicato. Persino i suoi rivali, lontano dai microfoni, ne riconoscono
le qualità. Il vento che rischia di travolgerlo o almeno di scuoterlo
non prende tanto di mira lui, quanto l’aristocrazia del potere rosé di
cui il sindaco è la figura di riferimento. Gli osservatori neutrali
sostengono che la squadra di assessori dei Cinquestelle non valga quella
che ha governato Torino negli ultimi decenni. Ma per chi sta dentro
quel vento, l’incompetenza e persino l’incapacità sono valori positivi. E
Chiara Appendino è presenza garbata, abbastanza abile da non ostentare
la giovinezza in una città di anziani, mascherandola dietro pettinature e
atteggiamenti rassicuranti da «madamin».
Di solito ai ballottaggi
si vota il male minore. Ma mentre in pochi andranno a votare Fassino
per paura di una vittoria di Appendino, più di qualcuno potrebbe votare
Appendino per la gioia di vedere perdere Fassino (e Renzino). Non è
detto che succeda. Ma, per la prima volta dopo un quarto di secolo, ciò
che a Roma sembra molto probabile a Torino è diventato possibile. Sarà
l’effetto del vento.