lunedì 13 giugno 2016

Repubblica 13.6.16
Occupazione e sicurezza le emergenze delle città decisive per i ballottaggi
I temi più caldi nei comuni al voto domenica A Torino e a Napoli la priorità è il lavoro per il 40 per cento a Roma attenzione ai servizi e allarme per la corruzione
di Ilvo Diamanti

Manca una settimana ai ballottaggi. Ultimo atto di questa consultazione amministrativa, che tanta attenzione ha sollevato. Perché in Italia non c’è elezione che non abbia riflessi sul piano politico. Nazionale. Naturalmente, la dimensione “locale” conta. Incrociata con quella “personale”. D’altronde, 23 anni fa l’elezione diretta dei sindaci è stata istituita e istituzionalizzata, per legge, come risposta a Tangentopoli e alla crisi della Prima Repubblica. Sostituendo le persone – cioè i sindaci - ai partiti. Così l’elezione del sindaco può apparire – e in parte è – anzitutto un giudizio sulla persona. Tanto più nei ballottaggi, quando le persone sono ridotte a due. Tuttavia, il peso delle identità politiche e dei problemi locali si conferma significativo. Si spiega così il risultato ottenuto dai candidati a 5 Stelle, soprattutto in alcune grandi città. Nonostante disponessero di una “popolarità” personale minore, rispetto ad altri concorrenti. Ma il marchio 5 Stelle ne ha rafforzato il significato “politico” di “alternativa” agli altri. Soprattutto, agli esponenti dei partiti “nazionali”. Allo stesso tempo, i problemi hanno avuto importanza, in ambito territoriale. Come ha riconosciuto Piero Fassino, quando ha osservato che: “Il voto riflette una situazione di crisi sociale che si è sentita nelle grandi città”. I dati del sondaggio di Demos per Repubblica, pubblicati due settimane prima delle elezioni, confermano e legittimano ampiamente le considerazioni – e le preoccupazioni – di Fassino. Torino risulta, infatti, insieme a Napoli, la città dove la disoccupazione preoccupa maggiormente. Secondo il 40%, circa, dei cittadini (in entrambe le città) è il problema più grave da affrontare per l’amministrazione comunale. A Torino, peraltro, la disoccupazione preoccupa in misura maggiore (di circa 5 punti) gli elettori di Chiara Appendino, del M5S. E ciò ne spiega, in parte, il risultato. Superiore alle previsioni (nostre, almeno). A Napoli, invece, il problema è sentito in misura molto simile dagli elettori di entrambi i candidati al ballottaggio. Tuttavia, la base di Luigi De Magistris si sente maggiormente inquieta, rispetto ai sostenitori di Gianni Lettieri, per la questione della legalità e soprattutto della sicurezza. Un tema particolarmente critico a Napoli. A Roma, invece, rispetto alle altre metropoli, prevale la sensibilità per la qualità dei servizi, dei trasporti, per la viabilità e il decoro della città. Ma, soprattutto, è acuta (più che doppia rispetto agli altri contesti metropolitani indagati) l’insofferenza verso la corruzione. Un tema sul quale Virginia Raggi e il M5S appaiono largamente più credibili degli altri candidati. In particolare, di Roberto Giachetti. Ma, soprattutto, del PD e dei partiti di centro-sinistra che lo sostengono. Perché il legame fra candidato e partito resta importante, per intercettare il consenso elettorale in città. La persona: è il volto, il riferimento conosciuto e comunque riconoscibile. Ma il partito, la coalizione, garantiscono identità e organizzazione. Nel bene, nel male. E viceversa. Così, a Napoli, dove la politica si è, tradizionalmente, appoggiata su reti di relazioni personali e spesso clientelari, la domanda di “legalità” appare interpretata – letteralmente – da De Magistris. Un magistrato. Estraneo ai partiti tradizionali. Per stile personale: abbastanza “populista” da risultare “popolare” alla “popolazione”. Mentre a Torino e a Roma, in particolare, il malessere contro la politica e le istituzioni di governo – non solo locale – si traduce nel voto a 5 Stelle. Considerato estraneo e alternativo rispetto all’establishment. Locale e centrale. Come la Lega a Bologna, dove è riuscita a imporre la propria candidata – Lucia Borgonzoni - al secondo turno. Non per caso. A Bologna, infatti, il tema considerato più critico dagli elettori è, in misura più marcata delle altre grandi città, la criminalità: indicata dal 35% (e associata all’immigrazione). E il piglio securitario – e autoritario – della Lega di Salvini, sull’esempio del modello francese, di Marine Le Pen, appare assai più esplicito e aggressivo – dunque credibile - rispetto ai concorrenti. M5S compreso. Tanto più rispetto a Virginio Merola. Che interpreta la tradizione post-comunista. Al potere in città.
Resta Milano. La metropoli del Nord. Capitale economica e finanziaria del Paese. Dove diversi problemi sociali gravano sulla percezione dei cittadini.
Su tutte: disoccupazione, immigrazione, sicurezza, disuguaglianza sociale. Fra le altre città “indagate”, peraltro, a Milano il grado di soddisfazione per l’amministrazione in carica è fra i più elevati. Tuttavia, il sindaco, Giuliano Pisapia, non si è ri-candidato. E i due sfidanti in lizza, Beppe Sala e Stefano Parisi, sono arrivati al duello finale in assoluto equilibrio. Un punto percentuale li ha divisi, al primo turno. D’altronde, hanno un profilo molto simile. Entrambi manager e tecnocrati. Rappresentano, entrambi, soggetti politici influenti, nella metropoli. Sala: il centrosinistra che ha governato negli ultimi 5 anni, con buon livello di consenso fra i cittadini. Egli stesso, alla guida di Expo, un’esperienza di successo. Parisi: indicato dal Centro-destra forza-leghista. Nella Metropoli di Berlusconi e di Bossi. Simbolicamente – e non solo – capitale alternativa a Roma. Ebbene, i due candidati, pur con un profilo professionale simile, riassumono domande molto diverse. Parisi: le paure. Verso la criminalità e l’immigrazione. Mentre Sala attrae la richiesta di legalità. Ma anche di qualità dei servizi sociali e sanitari.
Per questo, più che altrove, a Milano l’esito del ballottaggio appare incerto. Perché i volti dei due candidati non riescono a impersonare due città diverse. E perché non emergono questioni capaci di segnare, in modo alternativo, il presente e il futuro della metropoli.
D’altronde, il 1993 è lontano. I sindaci non sono il volto del Paese che cambia. Al massimo (e non sempre), della loro città.
Per conquistare il governo nazionale, non per caso, il sindaco di Firenze è divenuto Sindaco d’Italia. E si è appoggiato non al Partito dei Sindaci. Ma al PD. In seguito: al PdR. Il Partito di Renzi.