Corriere 13.6.16
L’opera prima di Shirel Amitaï
L’eredità di tre sorelle israeliane e quella pace sfumata con gli arabi
Riflessione tutta al femminile sulla questione ebraica della regista Amitaï
di Paolo Mereghetti
Riflessione tutta al femminile sull’ebraitudine e le sue tante facce, l’opera prima di Shirel Amitaï (nata in Israele ma cresciuta professionalmente in Francia dove ha collaborato a lungo con Rivette, co-sceneggiando Gare du Nord e Questione di punti di vista ) è una bella commedia con qualche risvolto drammatico e più di una tentazione fantastica. Come a ribadire, fin dalla scelta di genere, che un tema complesso non può essere affrontato con un unico punto di vista. E infatti lo spettatore se lo ritroverà «diviso» tra le tre sorelle protagoniste di La casa delle estati lontane , ognuna portatrice e insieme traditrice di quello spirito fondativo con cui si trovano a fare i conti nel film.
Nelle primissime scene, infatti, tre sorelle si ritrovano dopo anni di separazione ad Atlit, piccola città costiera a sud di Haifa, nella casa ereditata dai genitori: Darel (Yaël Abecassis), la maggiore, era emigrata in Canada, Cali (Géraldine Nakache) arriva da Parigi e Asia (Judith Chemla) da una qualche città israeliana dove era andata a studiare (nel film non esistono riferimenti precisi, nemmeno il cognome delle sorelle sappiamo, a togliere riconoscibilità e ad aumentarne il valore esemplare). La più grande è quella che sembra più legata alle radici di famiglia e ha molti dubbi sulla vendita della casa dove le tre sorelle avevano passato lontane vacanze; Cali ci vede soprattutto l’occasione per trovare quel denaro che le servirebbe per sistemarsi definitivamente a Parigi mentre la più piccola è tutta presa dalla filosofia ayurvedica e pensa solo al suo prossimo viaggio in India.
La casa è piena di problemi, nemmeno l’impianto della luce funziona bene, per non parlare del giardino che è diventato una specie di foresta mezza secca. Eppure proprio questi «difetti» sono quelli che cominciano a far breccia nel cuore delle tre ragazze. Il legame con la loro terra si intreccia con quello che nasce dai ricordi, dalle consuetudini dimenticate, dalla ritrovata sorellanza e finisce per conquistarle tutte. Tanto da far riapparire addirittura i fantasmi dei genitori, Mona (Arsinée Khanjian) prodiga di consigli e suggerimenti per affrontare le asperità della vita e Zack (Pippo Delbono) sempre impegnato ad aggiustare l’impianto elettrico, il televisore o il bollitore. E a questi due fantasmi se ne aggiunge forse un terzo, quello di un giovane ragazzo palestinese che di notte entra nel loro giardino a rubare olive o a recuperare qualche mobile buttato via, forse frutto della fantasia di Cali o forse solo inafferrabile perché abituato a non fidarsi di nessuno.
A entrare invece concretissimamente nelle loro vita è la storia politica di Israele, perché da piccoli segnali e frammentarie notizie capiamo che il film è ambientato nell’autunno del 1995, quando la speranza di una pace con gli arabi sembrava a portata di mano e invece naufragò drammaticamente la sera del 4 novembre per mano di un colono ebreo che uccise il primo ministro Yitzhak Rabin. E la scena in cui le tre sorelle conoscono la notizia, proprio mentre stanno andando in auto a Tel Aviv per manifestare a favore della pace e degli accordi di Oslo, sa ancora commuovere nella sua essenzialità ed efficacia.
Una scena che dà la svolta al film, perché cambia l’atteggiamento delle tre sorelle verso la vendita della casa e perché le costringe a pensare alla propria identità. «Quando sono a Parigi mi considerano ebrea, quando sono qui mi trattano come una francese» dice Cali (e ti sembra di sentir parlare la regista), riassumendo quel senso di lacerazione che si porta dentro e su cui il film vuol far riflettere. Prendendone anche le distanze, come quando scherza sull’eroismo della nonna che attraversò un’Europa deserta e desolata, almeno a dar retta alle sue descrizioni. Un’ironia benevola e mai cinica che dà la misura di tutto il film, costruito per accumulo di situazioni piuttosto che lungo una rigorosa linea narrativa, capace di improvvise svolte o sospensioni (il fascino della natura incolta, la storia dell’asino Rasputin, la presenza — vera o presunta non importa — del «visitatore» palestinese) ma soprattutto capace di far entrare in empatia lo spettatore con le tre sorelle e la loro voglia di vita.