Repubblica 12.6.16
La banalità dell’odio
di Wlodek Goldkorn
QUANDO
Umberto Eco decise di lavorare a un romanzo che uscì nel 2010 con il
titolo “Il cimitero di Praga” e che ha al centro della trama le origini
dei “Protocolli dei savi di Sion”, il grande semiologo e scrittore
voleva raccontare quanto l’antisemitismo fosse alla radice di tutte le
teorie complottiste della storia e di tutti i razzismi, passati,
presenti e futuri del mondo moderno. O se vogliamo, l’antisemitismo è
l’idioma comune di tutti gli xenofobi, omofobi, islamofobi, sostenitori
della supremazia della razza bianca (che per altro non esiste) del
nostro universo. Ed è così, non perché gli ebrei sono dotati di qualche
caratteristica particolare, ma perché è facile e spesso redditizio, dal
punto di vista politico, ma anche volgarmente economico, trovare un
capro espiatorio e un oggetto di aggressione e di odio: basta una
narrazione, anche bislacca, con cui convincere le persone che le loro
disgrazie sono colpa di poteri occulti. Era questo, il messaggio
politico e letterario (e le due cose vanno insieme) di quel romanzo di
Eco.
Fuori dalla metafora. Quando in un Paese, l’Italia, un
quotidiano decide di diffondere “Mein Kampf”, non nelle università come
oggetto di studio, ma nelle edicole, come un gadget, un totem, e
certamente non per essere letto, dato che il testo di Adolf Hitler è fra
le prose più noiose e peggio scritte della storia dell’umanità, ecco,
quando un libro così viene diffuso, è necessario chiedersi: che cosa sta
succedendo alla società, alla collettività degli italiani? E perché
oggi?
Intanto, cosa è “Mein Kampf”? Non è un’opera che pur con
tesi inaccettabili propone un’analisi più o meno razionale del mondo.
“Mein Kampf” è prima di tutto l’autobiografia di Hitler, in parte
scritta dal pugno del futuro Führer, in parte dettata ai suoi fedeli, in
prigione, negli anni Venti. E non c’è “Mein Kampf”, senza “I
protocolli”. Gli ebrei sono, secondo Hitler, colpevoli di tutto; della
diffusione del comunismo come delle speculazioni capitalistiche in
Borsa; del propagarsi della sifilide come della sconfitta dei tedeschi
nella Grande Guerra. La teoria della cospirazione ebraica universale,
che tanto incuriosiva Eco (in quanto manifestazione della stupidità e in
questo il nostro intellettuale era debitore di Hannah Arendt e del suo
“La banalità del Male”), è l’essenza di quel testo. Un testo, per altro,
che ha venduto nella Germania nazista 11 milioni di copie e che fruttò
circa 15 milioni di Reichsmark, una cifra enorme per allora, di diritti
d’autore.
Nel 1945, a Monaco, la matrice di piombo di quel libro
venne data alle fiamme da un soldato americano. Un gesto simbolico, che
tuttavia pone una domanda: ma è lecito bruciare un libro? E che qualcuno
oggi declina chiedendosi: ma è davvero così grave pubblicare quel
testo? Sottinteso: siamo liberali, niente censura. Ecco, “Mein Kampf”
non è un libro, anche se sembra esserlo, perché è stato scritto per dar
vita a un programma politico il cui scopo era la distruzione di tutti i
libri e di tutto il sapere. La Shoah, conseguenza logica del “Mein
Kampf” questo significa: la catastrofe dell’episteme dell’Occidente.
Hanno
protestato le comunità ebraiche e l’ambasciata d’Israele; anche se dopo
la Shoah difficilmente ci potrà essere un’altra Shoah; oggi i razzisti
mirano ad altri capri espiatori. Ha protestato Matteo Renzi; ed è stata
un’ulteriore prova che il presidente del Consiglio è deciso a opporsi al
linguaggio razzista e xenofobo. Ma la notizia più bella è questa: il
giorno in cui nelle edicole d’Italia veniva diffuso “Mein Kampf”, nelle
piazze di Roma, 700 mila persone gay rivendicavano con gioia e orgoglio
il loro diritto al desiderio. Il razzismo è morte; il desiderio è vita.