il manifesto 12.6.16
La banalizzazione del male
di Angelo d’Orsi
Nel
1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres
politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15
opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima,
Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora
più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del
pensiero politico.
Eppure quel libro, adottato in molti corsi
universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa
semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione.
Certo, ancor
prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra
le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di
qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.
L’autore,
che lo vergò nella breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel
novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in
Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a
bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione
della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una
sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro…
Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose.
Un
campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra
semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti
di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e
psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.
Il libro fu il
vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di
copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate
dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se
l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti
semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.
Della «Mia
battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in
circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i
diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della
Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli
scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a
un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.
L’annuncio
aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre
davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale
le polemiche appaiono di basso profilo.
Si tratta innanzitutto di
un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano
esaurite nelle edicole da me battute…); anche se il significato
politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd
che hanno denunciato l’ azione «elettoralistica» di Sallusti &
C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito
renziano suonano grotteschi.
Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler?
Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.
Precisato
che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non
era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia
preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.
Personalmente,
forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee
politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget
di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino
asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni
rispetto al nazifascismo fa sorridere.
Perché quel giornale, non
certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o
addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale
(che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta,
contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo
che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo,
era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in
un modo o nell’altro.
Auschwitz è in nuce in quel testo.
Siamo
ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati
dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua
deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.