Repubblica 12.6.16
Tu non sei tua. L’ossessione all’incontrario dei maschi che uccidono
Non basta la psicologia a spiegare l’orrore del femminicidio
di Michele Serra
SUI
 maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo 
scopo, lucidamente feroce, di renderla “inservibile” ad altri maschi) si
 esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e 
antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo
 — e lo dico da maschio — che su quella rovente, tremenda questione, non
 si eserciti abbastanza la parola politica.
Al netto dei materiali
 psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri 
comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre 
idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di 
essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o 
perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo 
ripugnanza etica del furto.
SEGUE A PAGINA 23
QUANDO ero 
ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è 
decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee 
potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. “Il 
privato è politico”, si diceva allora, volendo significare che ogni 
nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava
 e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e 
producesse il suo effetto politico. Era una forzatura ideologica che 
l’esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a 
diradare, facendoci sentire un poco meno “responsabili del mondo” almeno
 dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere 
ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa 
goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr’otto,
 libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così 
facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà.
 Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l’abbandono, la 
gelosia.
Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta
 in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin 
troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato 
oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in 
positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, 
perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso 
pubblico, impoverendolo e istupidendolo. Per esempio l’idea — e veniamo 
al punto — che la donna appartenga a se stessa (“io sono mia”), che la 
sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni 
del patriarcato e del controllo maschile. Se c’è mai stata, al mondo, 
un’idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, 
smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino
 più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia 
padrone-operaio. Perché non se ne sente più l’eco, di quello slogan così
 breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per 
scontato (non essendolo!); forse perché nessun “principio” assoluto 
riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più 
per sfinimento che per cinismo.
Eppure, volendo ridurre all’osso 
la questione del femminicidio, è proprio l’ignoranza o il rifiuto 
maschile di quel principio — io sono mia — il più evidente, perfino il 
più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. 
Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più 
con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti 
solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che 
cancello la tua vita. Certo, la stratificazione psichica è profonda, 
cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano 
producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma 
il “via libera” all’aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al 
delitto scatta anche perché nessuna esitazione “ideologica” interviene a
 soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è 
occorsa, a proposito di maschi e di femmine.
Politica e cultura 
(ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non 
abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, 
regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più 
compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo 
non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona 
cultura e di idee liberali. Ma è l’eccezione che conferma la regola: 
costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente 
migliorati, dalla temperie politica e culturale dell’epoca. È 
nell’Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la 
contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e 
pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma 
inequivocabile “io sono mia” prefemminista e presessantottino, con la 
mitezza luminosa di una Lucia aggiornata che rimette al suo posto il 
donrodrigo di turno. È sempre in quell’Italia che, con fatica, si arriva
 finalmente a mettere in discussione l’obbrobrio giuridico del “delitto 
d’onore”, che verrà finalmente cancellato vent’anni dopo. Ed è a livello
 popolare, mica solo nei “salotti”, è nel profondo della società che 
quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti 
indirizzano il senso comune.
Non so quanto dipenda dalla mia 
storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non 
abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in 
buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo;
 dalla mia educazione e dall’esempio ricevuto in famiglia; dalle mie 
inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la 
sopraffazione dell’altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni 
politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle 
donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.
Come
 disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così 
necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno 
fa, «chi picchia una donna è uno stronzo». Poi, certo, è soprattutto di 
aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli 
stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al 
femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e 
solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo 
sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva 
mai spiegato nessuno?
 
