domenica 12 giugno 2016

Repubblica 12.6.16
Il dilemma di Putin e l’ombra di Costantino
di Alberto Melloni

FRA STASERA e domattina Vladimir Vladimirovic Putin deve decidere che parte vuole avere nella chiesa: lunedì mattina il sinodo della chiesa russa deve decidere se aderire alla richiesta di rinvio del concilio panortodosso che deve aprire i suoi lavori a Creta giovedì, avanzata “spontaneamente” dalla chiesa bulgara; o se dare il via libera al concilio che per la prima volta dopo oltre dodici secoli vede riuniti tutti i patriarchi della ortodossia e per la prima volta da sempre vede sedere a quel tavolo conciliare, rigorosamente rotondo, anche i patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Decide Putin. Sa benissimo cosa è in gioco per lui sul piano internazionale. Il presidente russo ha mandato a Roma due figure di caratura maggiore che gli possono spiegare cosa potrebbe accadere nei rapporti con Roma, e dunque con l’Occidente, se il gioco di rialzo della tensione dovesse sfuggire di mano alla Russia e alla chiesa russa. Sia Sergey Razov (che ha in curriculum una lunga missione a Pechino e che è stato viceministro degli Esteri, ambasciatore presso il Quirinale da tre anni), sia Alexander Avdeev (dallo stesso momento ambasciatore presso la Santa Sede, ambasciatore a Parigi e poi viceministro della Cultura quando il cardinale Betori, con l’assistenza diretta e discreta di Napolitano e Renzi, portarono in Battistero a Firenze una icona di Rublev che non aveva avuto culto da un secolo) sono stati accreditati anche per seguire un percorso di comunione che, dopo Cuba, attende conferme simboliche, teologiche e politiche di portata maggiore. Col papato di Francesco e nella segreteria di Stato di Parolin l’antica tentazione di usare le tensioni fra il patriarcato di Mosca e il patriarcato ecumenico di Costantinopoli sono state espunte in modo metodico: Roma vuole essere parte di un processo di comunione della ortodossia per motivi teologici, riguardanti la natura e la riforma del ministero petrino. Putin è stato all’altezza di questa sfida e qualcosa di più del suo beneplacito ha favorito quello storico primo passo. I tempi del secondo passo dipendono in realtà dal concilio di Creta: Roma — la Antica Roma, come si dice in Oriente — non potrebbe che tirare tutte le conseguenze di un gioco che facesse effettivamente saltare il concilio che l’ortodossia prepara da mezzo secolo e che la “sinassi dei patriarchi” (la riunione dei 14 capi delle chiese autocefale e dei patriarcati) ha convocato nel 2008 e fissato da pochi mesi, spostandone la sede da Istanbul a Creta, proprio per non esporre il concilio alla crisi politica fra Turchia e Federazione Russa.
Decide Putin, di sé e del concilio. A meno che quello di lunedì non sia un set che proprio Vladimir Vladmirovic ha allestito per fare pesare il profilo “costantiniano” a cui ambisce e non da oggi. Nel cerimoniale televisivo del suo primo giuramento presidenziale aveva disseminato il set di riferimenti alle icone di Costantino (l’imperatore venerato come santo in oriente): gradini, inquadrature, profili che, quando curai per i tipi di Treccani i tre volumi su Costantino usciti nel centenario del cosiddetto “editto di Milano”, consentivano di dire che il mito dell’imperatore cristiano era entrato intatto nell’era televisiva. Gestendo le immagini con quella che a noi poveri figli della barbarie carolingia sembra un calcolo e che in Oriente è un istinto spirituale, Putin voleva fin da allora accreditarsi come un protagonista della storia della chiesa: e, se lo sia costruito o no, questa domenica deve decidere in che modo scrivervi il suo nome. Far dire di Putin che all’appuntamento con la storia mostrò di essere un autocrate bizzoso che perde l’occasione storica di favorire un moto conciliare dalle conseguenze incalcolabili e si schiera coi fondamentalisti ortodossi che maledicono la peste ecumenica, che paventano l’invasione di un’etica libertina in cui l’Oriente avrebbe non molto da imparare, e che guardano con qualche invidia al fondamentalismo islamico. Oppure proporsi davvero come una icona neo-costantiniana che permette al concilio di iniziare e di segnare una tappa nella lenta ricostruzione della comunione dei patriarchi, delle chiese, dei cristiani.
Se lo farà, potrà pensare di aver rubato la scena, al patriarca ecumenico Bartholomeos, la cui santa pazienza nella cucitura del miracolo conciliare non cessa di stupire chi non ne conosce lo spessore spirituale; ma alla fine avrà permesso proprio a quella santa pazienza di ottenere il suo scopo: che non è quello di fare del trono di Andrea una specie di mini-papato d’Oriente, ma di aver mostrato “verbis et operibus” anche al successore di Pietro e ai suoi fratelli vescovi che la sinodalità è la via dell’unità.
“La lotta per il concilio”. Così si intitolava il primo volume della storia del concilio di Trento di Hubert Jedin e così il suo miglior scolaro, Pino Alberigo, aveva scritto del Vaticano II. Si trattava della conferma empirica di qualcosa che accompagna le doglie di ogni grande concilio: perché ogni concilio che non sia mero congressicolo religioso, nasce solo davanti ad un conflitto vero. Dove si palesano motivate resistenze a passare dalla porta stretta del consenso invece che dalla larga porta dell’autorità. Dove entrano in gioco visioni del passato e del futuro e questioni che vengono esposte al vento infuocato dello Spirito che abbatte e che crea. Quella che si combatterà questa notte fra il Cremlino e il patriarcato sarà un pezzo della più classica lotta per il concilio: Pentecoste è giovedì.