Corriere 12.6.16
Le ragioni e i falsi miti che avvolgono la Brexit
di Ferruccio De Bortoli
Nella
campagna referendaria britannica c’è un po’ di tutto. La fantasia non
ha limiti, la spregiudicatezza pure. Fosse un appuntamento elettorale
italiano, avremmo frotte di reporter inglesi pronti a sorridere del
nostro infantile folclore. Il sito Infacts, schierato contro la Brexit
(Britain+exit), ha collezionato, con implacabile precisione, le storie
più strampalate apparse sulla stampa inglese o agitate nei discorsi dei
leader. Dall’esistenza di un milione e mezzo di immigrati clandestini al
collasso in tre anni dei conti del servizio sanitario nazionale. Dal
fatto che il ripristino di controlli nazionali aumenterebbe di dieci
volte la possibilità di fermare sospetti terroristi, allo spettro di
settecento reati settimanali commessi da immigrati comunitari. Sarah
Wollaston, deputato tory, pro Brexit, alla fine ha sbottato: troppe
falsità.
Nella campagna referendaria britannica c’è un po’ di
tutto. La fantasia non ha limiti, la spregiudicatezza pure. Fosse un
appuntamento elettorale italiano, avremmo frotte di reporter inglesi
pronti a sorridere del nostro infantile folclore. Il sito Infacts,
schierato contro la Brexit (Britain+exit), ha collezionato, con
implacabile precisione, le storie più strampalate apparse sulla stampa
inglese o agitate nei discorsi dei leader. Dall’esistenza di un milione e
mezzo di immigrati clandestini al collasso in tre anni dei conti del
servizio sanitario nazionale. Dal fatto che il ripristino di controlli
nazionali aumenterebbe di dieci volte la possibilità di fermare sospetti
terroristi, allo spettro di settecento reati settimanali commessi da
immigrati comunitari. Sarah Wollaston, deputato tory, pro Brexit, alla
fine ha sbottato: troppe falsità. E ha cambiato schieramento denunciando
la propaganda euroscettica che assicura un risparmio per il servizio
sanitario di 350 milioni di sterline alla settimana.
Le
dichiarazioni ad effetto si sprecano. Non c’è solo l’ineffabile ex
sindaco di Londra Boris Johnson che intravede nel disegno dell’unione
politica europea l’avverarsi dello stato totalitario nazionalsocialista.
Johnson quando era giornalista del Telegraph si distinse, come
corrispondente da Bruxelles, per la sua bravura nell’occuparsi delle
storie più curiose legate alle norme comunitarie, come la circonferenza
dei wurstel e quella, con sommo divertimento, dei preservativi. Secondo
Dominic Raab, sottosegretario alla Giustizia, numero due di Michael Gove
che, all’interno del governo Cameron, guida il fronte dell’uscita, del
leave, le norme comunitarie avrebbero steso “un tappeto rosso” a
cinquanta assassini e stupratori di altri Paesi Ue, liberi di girare
indisturbati per il Regno Unito. Nigel Farage, leader dello Ukip, il
partito indipendentista britannico, avverte: restando nell’Unione
europea, gli assalti sessuali alle ragazze aumenteranno. Si può
continuare.
I temi di fondo a sostegno della Brexit sono però
tutt’altro che immaginari: gli immigrati, la sicurezza sociale, la casa.
Riflettono la creazione di nuove disuguaglianze, la siderale distanza,
in termini di redditi e importanza sociale, fra Londra e le zone meno
sviluppate del Regno Unito, il disagio della popolazione più anziana per
lo stravolgimento etnico dei quartieri, la voglia popolare di
ribellarsi allo strapotere della finanza, delle banche. Votando Brexit
si manda un segnale di disgusto anche alla City, al cosiddetto
mainstream dell’economia che vota compatto per restare in Europa,
all’ostentazione della ricchezza. E’ come se ci fosse un altro leave nel
voto del 23 giugno. Tutto interno. Del Paese sulla sua capitale. La
Brexit rilancerebbe anche le voglie indipendentiste scozzesi frustrate
dal voto del 18 settembre del 2014. Non sono centrali nel dibattito
referendario – e questo dice molto del successo dell’economia inglese –
la disoccupazione e le tasse. A differenza di quello che accade in altri
Paesi europei, il lavoro non sembra tra le principali preoccupazioni
dei sudditi di sua maestà, anche se le cronache registrano il malessere
dei lavoratori dell’acciaio, dei pescatori di Brixham o di Appledore,
inferociti contro le limitazioni comunitarie che avrebbero decimato la
flotta di pescherecci. Il sindacato nazionale degli agricoltori non ha
preso posizione. I propri iscritti sono divisi. Da una parte le odiate
regole europee, dall’altra i vantaggiosi sussidi. Ma chi vive in
campagna detesta l’Europa.
Il fronte europeo non è privo di
incongruenze né alieno a mosse avventate. Il premier Cameron si batte
generosamente per un Regno Unito più forte in un’Europa diversa,
vantando i risultati del negoziato di febbraio con Bruxelles (esempio:
sussidi per i cittadini europei che cercano lavoro limitati a sette
anni). Per il premier l’arma del referendum rischia di essere a doppio
taglio dopo averla invocata per governare un partito diviso e vincere le
elezioni. Il capo del Labour, Jeremy Corbyn, è sulla stessa posizione
ma appare timido, imbarazzato. I suoi interventi sono persino
controproducenti. Sembra scegliere, fra due mali il meno peggio ha
scritto Fabio Cavalera sul Corriere. Le voci sagge puntano sul
tradizionale pragmatismo inglese. Chris Patten, ultimo governatore di
Hong Kong, ex commissario europeo, ha ricordato sul Guardian che, quando
nel 1970 il suo Paese entrò nella comunità europea, era il vero malato
d’Europa, dietro persino all’Italia (parole sue). Da allora, tenendosi
fuori dall’euro (e da Schengen) è cresciuto mediamente più degli altri e
ha creato più posti di lavoro. Perché tornare indietro? La
Confindustria inglese stima, con la Brexit, una perdita di un milione di
posti di lavoro.
Comunque vada, la sera del 23 giugno l’Europa
non sarà più la stessa. E qualcosa cambierà anche per noi italiani che
continuiamo ad essere, nonostante tutto, tra i più favorevoli all’Unione
europea con il 58 per cento dei consensi (Pew Research Center).
L’Italia però è la meno esposta a contraccolpi di mercato, nonostante lo
spread in questi giorni sia al livello più alto da quando Draghi ha
avviato gli acquisti di titoli. Ovviamente, lo scenario peggiore è
quello che vede prevalere l’addio di Londra all’Unione, ovvero il leave,
rispetto al remain. Le previsioni danno in recupero i pro Brexit con i
favorevoli all’Europa ancora in apprezzabile vantaggio. Ma la
credibilità di questo genere di sondaggi è modesta ovunque. Il Regno
Unito non fa eccezione. Forse gli allibratori hanno più naso. Le
scommesse impazzano. Se vincesse il leave sarebbe la prima volta, nella
storia ormai sessantennale dell’Europa faticosamente unita, che un Paese
decide di abbandonare il percorso comune. Le celebrazioni, l’anno
prossimo, dell’anniversario del trattato di Roma - cui il governo Renzi
tiene in modo particolare - assumerebbero un significato diverso. La
tristezza di un probabile declino dell’Unione velerebbe le espressioni
di orgoglio per i tanti successi ottenuti. Uno su tutti: il più lungo
periodo di pace mai avuto nell’Europa degli eterni conflitti fratricidi.
La memoria del Novecento delle ideologie totalitarie e delle
generazioni perdute è sbiadita. Le ferite non bruciano più. Ma la pace
non è uno stato naturale. Si discute di altro.
Ma che cosa accadrà
se Londra decidesse di salutarci? Posti di fronte a questa domanda,
nella quiete del festival dell’Economia di Trento, due banchieri
centrali come Francois Villeroy de Galhau (Banque de France) e Ignazio
Visco (Banca d’Italia) hanno disegnato scenari foschi. Seri contraccolpi
sui mercati e necessità di un intervento della Banca centrale europea
(Villeroy); probabile effetto domino che non esclude che altri membri
dell’Unione facciano altrettanto (Visco). Ma forse le conseguenze
potrebbero essere meno traumatiche. I mercati stanno già scontando,
almeno in minima parte, il leave. La sterlina si è già indebolita
sull’euro, rispetto al suo picco del luglio 2015 (0,6971). Potrebbe
perdere, con la Brexit, un ulteriore 15-20 per cento. Qualcuno pensa che
si arriverà alla parità con l’euro. Il prodotto interno lordo
britannico accusa già nella prima parte dell’anno un indebolimento di
mezzo punto percentuale rispetto alle stime. Senza la Brexit rimarrebbe
comodamente sopra il 2 per cento. Vette vertiginose per chi, come noi,
si agita per un decimale in più o in meno. La Bank of England ha già
previsto un fondo di stabilità - come peraltro è pronta con tutte le sue
munizioni la Bce – sia per i mercati valutari sia per quelli
obbligazionari. L’attesa di mosse espansive della banca centrale inglese
ha portato il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni al minimo
storico (1,218 per cento). Sul mercato azionario i volumi non sono alti.
I grandi investitori si sono già prudentemente allontanati da titoli
con attività troppo esposte sul Regno Unito. In un periodo assolutamente
straordinario di tassi negativi, la tendenza a tenere posizioni liquide
aiuta.
Una vittoria del leave potrebbe scuotere l’Europa e
accelerare, una volta sciolta la decennale ambiguità inglese,
l’integrazione e l’unione politica? Ferdinando Nelli Feroci, ex
ambasciatore italiano a Bruxelles e commissario, ora alla guida
dell’Istituto affari internazionali, è convinto che la tesi possa avere
un fondamento. Ma solo nel medio periodo. Nelli Feroci paventa un
periodo di incertezza e sbandamento nelle istituzioni europee, innestato
anche dal cambio di governo a Londra con la sconfitta di Cameron (e il
candidato alla successione è Johnson). Un guado difficile in acque
sconosciute. “L’articolo 50 del Trattato - dice - prevede un periodo
transitorio di due anni nel quale andrebbero rinegoziati tutti gli
accordi bilaterali”. Il Regno Unito fuori dall’euro potrebbe avere uno
status simile a quello della Norvegia, nello spazio economico europeo. O
paragonabile a quello svizzero, tenendo conto che dopo il referendum
elvetico a favore dei limiti all’immigrazione del 9 febbraio del 2014,
tutti gli accordi tra Berna e Bruxelles sono sub judice. Ma in una
intervista a Der Spiegel il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble lo
ha escluso. Effetto domino su altri Paesi? Nelli Feroci lo teme, vede
l’emergere di irresistibili voglie nazionaliste, specie nei Paesi
dell’Est. Guarda con timore il lento scivolamento polacco dai principi
democratici dell’Unione. Stefano Sannino, ex ambasciatore italiano
presso l’Unione e ora a Madrid, è persuaso che anche un’auspicabile
vittoria del remain non sarebbe senza effetti indesiderati. Il Paese
comunque si troverebbe spaccato in due. C’è chi addirittura parla di un
nuovo referendum. “La futura e necessaria evoluzione dell’Eurozona
dovrebbe fare i conti con lo status speciale concesso, con gli accordi
di febbraio, a Londra. Si dovrà ragionare, per esempio, su come rendere
compatibile un bilancio di chi sta nell’euro con chi ne è fuori. La
Commissione ne presenterebbe due? E il Parlamento ne voterebbe due?”.
Ipotesi e scenari nella fragile e disorientata Europa. In attesa del 23
giugno. Intanto a Padstow, in Cornovaglia, hanno già votato: il
gemellaggio con un Paese bretone non lo faranno mai e poi mai.
S
arah Wollaston ha dunque cambiato schieramento denunciando la propaganda
euroscettica che assicura un risparmio per il servizio sanitario di 350
milioni di sterline alla settimana.
Le dichiarazioni ad effetto
si sprecano. Non c’è solo l’ineffabile ex sindaco di Londra Boris
Johnson che intravede nel disegno dell’unione politica europea
l’avverarsi dello Stato totalitario nazionalsocialista. Johnson quando
era giornalista del Telegraph si distinse, come corrispondente da
Bruxelles, per la sua bravura nell’occuparsi delle storie più curiose
legate alle norme comunitarie, come la circonferenza dei wurstel e
quella, con sommo divertimento, dei preservativi.
Secondo Dominic
Raab, sottosegretario alla Giustizia, numero due di Michael Gove che,
all’interno del governo Cameron, guida il fronte dell’uscita, del Leave ,
le regole di Bruxelles avrebbero steso «un tappeto rosso» a cinquanta
assassini e stupratori di altri Paesi Ue, liberi di girare indisturbati
per il Regno Unito. Nigel Farage, leader dello Ukip, il partito
indipendentista britannico, avverte: restando nell’Unione Europea, gli
assalti sessuali alle ragazze aumenteranno. Si può continuare.
I
temi di fondo a sostegno della Brexit sono però tutt’altro che
immaginari: gli immigrati, la sicurezza sociale, la casa. Riflettono la
creazione di nuove disuguaglianze, la siderale distanza, in termini di
redditi e importanza sociale, fra Londra e le zone meno sviluppate, il
disagio della popolazione più anziana per lo stravolgimento etnico dei
quartieri, la voglia popolare di ribellarsi allo strapotere della
finanza, delle banche.
Votando Brexit si manda un segnale di
disgusto anche alla City, al cosiddetto mainstream dell’economia che
vota compatto per restare in Europa, all’ostentazione della ricchezza. È
come se ci fosse un altro Leave nel voto del 23 giugno. Tutto interno.
Del Paese sulla sua Capitale. La Brexit rilancerebbe anche le voglie
indipendentiste scozzesi frustrate dal voto del 18 settembre del 2014.
Non sono centrali nel dibattito referendario — e questo dice molto del
successo dell’economia inglese — la disoccupazione e le tasse.
A
differenza di quello che accade in altri Paesi europei, il lavoro non
sembra tra le principali preoccupazioni dei sudditi di Sua Maestà, anche
se le cronache registrano il malessere dei lavoratori dell’acciaio, dei
pescatori di Brixham o di Appledore, inferociti contro le limitazioni
comunitarie che avrebbero decimato la flotta di pescherecci. Il
sindacato nazionale degli agricoltori non ha preso posizione. I propri
iscritti sono divisi. Da una parte le odiate regole europee, dall’altra i
vantaggiosi sussidi. Ma chi vive nella campagna inglese detesta
l’Europa.
Il fronte europeo non è privo di incongruenze né alieno a
mosse avventate. Il premier David Cameron si batte generosamente per un
Regno Unito più forte in un’Europa diversa, vantando i risultati del
negoziato di febbraio con Bruxelles (esempio: sussidi per i cittadini
europei che cercano lavoro limitati a sette anni). Per il premier l’arma
del referendum rischia di essere a doppio taglio dopo averla invocata
per governare un partito diviso e vincere le elezioni.
Il capo del
Labour, Jeremy Corbyn, è sulla stessa posizione ma appare timido,
imbarazzato. I suoi interventi sono persino controproducenti. Sembra
scegliere, fra due mali, il meno peggio, ha scritto Fabio Cavalera su
Sette , il settimanale del Corriere . Le voci sagge puntano sul
tradizionale pragmatismo inglese. Chris Patten, ultimo governatore di
Hong Kong, ex commissario europeo, ha ricordato sul Guardian che, quando
nel 1970 il suo Paese entrò nella Comunità europea, era il vero malato
d’Europa, dietro persino all’Italia (parole sue). Da allora, tenendosi
fuori dall’euro (e da Schengen) è cresciuto mediamente più degli altri e
ha creato più posti di lavoro. Perché tornare indietro? La
Confindustria inglese stima, con la Brexit, una perdita di un milione di
posti di lavoro.
Comunque vada, la sera del 23 giugno l’Europa
non sarà più la stessa. E qualcosa cambierà anche per noi italiani che
continuiamo ad essere, nonostante tutto, tra i più favorevoli all’Unione
Europea con il 58 per cento dei consensi ( Pew Research Center ).
L’Italia però sembra la meno esposta a contraccolpi di mercato,
nonostante lo spread in questi giorni sia al livello più alto da quando
Draghi ha avviato gli acquisti di titoli.
Ovviamente, lo scenario
peggiore è quello che vede prevalere l’addio di Londra all’Unione,
ovvero il Leave , rispetto al Remain . Le previsioni danno in recupero i
pro Brexit con i favorevoli all’Europa ancora in apprezzabile
vantaggio. Ma la credibilità di questo genere di sondaggi è modesta
ovunque. Il Regno Unito non fa eccezione. Forse gli allibratori hanno
più naso.
Se vincesse il Leave sarebbe la prima volta, nella
storia ormai sessantennale dell’Europa faticosamente unita, che un Paese
decide di abbandonare il percorso comune. Le celebrazioni, l’anno
prossimo, dell’anniversario del Trattato di Roma — cui il governo Renzi
tiene in modo particolare — assumerebbero un significato diverso. La
tristezza di un probabile declino dell’Unione velerebbe le espressioni
di orgoglio per i tanti successi ottenuti. Uno su tutti: il più lungo
periodo di pace mai avuto nell’Europa degli eterni conflitti fratricidi.
La memoria del Novecento delle ideologie totalitarie e delle
generazioni perdute è sbiadita. Le ferite non bruciano più. Ma la pace
non è uno stato naturale. Si discute di altro.
Ma che cosa accadrà
se Londra decidesse di salutarci? Posti di fronte a questa domanda,
nella quiete del festival dell’Economia di Trento, due banchieri
centrali come François Villeroy de Galhau (Banque de France) e Ignazio
Visco (Banca d’Italia) hanno disegnato scenari foschi. Seri contraccolpi
sui mercati e necessità di un intervento della Banca centrale europea
(Villeroy); probabile effetto domino che non esclude che altri membri
dell’Unione facciano altrettanto (Visco).
Ma forse le conseguenze
potrebbero essere meno traumatiche. I mercati stanno già scontando — e
lo si è visto venerdì — almeno in parte, il Leave . La sterlina si è
indebolita sull’euro rispetto al suo picco del luglio 2015 (0,6971).
Potrebbe perdere, con la Brexit, un ulteriore 15-20 per cento. Qualcuno
pensa che si arriverà alla parità con l’euro. Il Prodotto interno lordo
britannico accusa già nella prima parte dell’anno un indebolimento di
mezzo punto percentuale rispetto alle stime. Senza la Brexit rimarrebbe
comodamente sopra il 2 per cento. Vette vertiginose per chi, come noi,
si agita per un decimale in più o in meno. La Bank of England ha già
previsto un fondo di stabilità — come peraltro è pronta con tutte le sue
munizioni la Bce — sia per i mercati valutari sia per quelli
obbligazionari.
L’attesa di mosse espansive della Banca centrale
inglese ha portato il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni al
minimo storico (1,218 per cento). La fuga verso porti sicuri ha quasi
azzerato i tassi decennali sul bund tedesco. Sul mercato azionario i
volumi non sono alti. I grandi investitori si sono già prudentemente
allontanati da titoli con attività troppo esposte sul Regno Unito. In un
periodo assolutamente straordinario di tassi negativi, la tendenza a
tenere posizioni liquide aiuta.
Una vittoria del Leave potrebbe
scuotere l’Europa e accelerare, una volta sciolta la decennale ambiguità
inglese, l’integrazione e l’unione politica? Ferdinando Nelli Feroci,
ex ambasciatore italiano a Bruxelles e commissario, ora alla guida
dell’Istituto affari internazionali, è convinto che la tesi possa avere
un fondamento. Ma solo nel medio termine.
Nelli Feroci paventa un
periodo di incertezza e sbandamento nelle istituzioni europee, innestato
anche dal cambio di governo a Londra con la sconfitta di Cameron (e il
candidato alla successione è Johnson). Un guado difficile in acque
sconosciute. «L’articolo 50 del Trattato — dice — prevede un periodo
transitorio di due anni nel quale andrebbero rinegoziati tutti gli
accordi bilaterali».
Il Regno Unito fuori dall’Unione potrebbe
avere uno status simile a quello della Norvegia, nello spazio economico
europeo. O paragonabile a quello svizzero, tenendo conto che dopo il
referendum elvetico a favore dei limiti all’immigrazione del 9 febbraio
del 2014, tutti gli accordi tra Berna e Bruxelles sono sub judice . Ma,
in una intervista a Der Spiegel , il ministro delle Finanze Wolfgang
Schäuble lo ha escluso. Effetto domino su altri Paesi? Nelli Feroci lo
teme, vede l’emergere di irresistibili voglie nazionaliste, specie nei
Paesi dell’Est. Guarda con timore il lento scivolamento polacco dai
principi democratici dell’Unione.
Stefano Sannino, ex ambasciatore
italiano presso l’Unione e ora a Madrid, è persuaso che anche
un’auspicabile vittoria del Remain non sarebbe senza effetti
indesiderati. Il Paese comunque si troverebbe spaccato in due. C’è chi
addirittura parla di un nuovo referendum. «La futura e necessaria
evoluzione dell’eurozona dovrebbe fare i conti con lo status speciale
concesso, con gli accordi di febbraio, a Londra. Si dovrà ragionare, per
esempio, su come rendere compatibile un bilancio di chi sta nell’euro
con chi ne è fuori. La Commissione ne presenterebbe due? E il Parlamento
ne voterebbe due?». Ipotesi e scenari nella fragile e disorientata
Europa. In attesa del 23 giugno. Intanto a Padstow, in Cornovaglia,
hanno già votato: il gemellaggio con un Paese bretone non lo faranno mai
e poi mai.