il manifesto 12.6.16
Ora Cambridge non aiuta, come Il Cairo e le fiction
Verità per Giulio Regeni. Il silenzio non sostiene la ricerca della verità. Né i ricercatori.
di Marina Calculli, Francesco Strazzari
C’è
probabilmente una bella dose di arroganza nella cautela dei legali di
Cambridge e nell’indicazione data a Maha Abdelrahman, la supervisor di
Giulio Regeni, di non rispondere alle domande degli inquirenti italiani:
qualcosa che sciaguratamente, sebbene assai prevedibilmente, rinfocola
polemicamente l’ipotesi che Giulio fosse una pedina in mani altrui. In
barba a tutte le petizioni ‘per la verità’ e all’appello di Paola
Regeni, mamma di Giulio, che solo pochi giorni prima invitava dalle
solenni sale della prestigiosa università britannica a collaborare,
alcuni stereotipi sulla superficialità del Belpaese hanno forse prevalso
sulla scelta della faculty britannica di non fidarsi.
Eppure le
istituzioni italiane non possono certo essere accusate di averla buttata
in retorica roboante. Roma ha cercato di fare pressioni sul Cairo,
rispedendo al mittente le plurime versioni che l’Egitto ha tentato di
rifilare al mondo. E mentre ritirava l’ambasciatore, Parigi, Londra e
Berlino trovavano occasioni per nuovi affari.
È però indubbio che
ad alimentare le riserve dell’ateneo britannico, trincerandole attorno a
regolamenti in difesa della libertà accademica, ci sia stata
l’aggressiva cacofonia mediatica che, fin dall’inizio della sfortunata
vicenda di Giulio, ha navigato a mille nodi contro l’ovvio. Su buona
parte dei media è partito un giro di vite che, distogliendo l’attenzione
da un’indagine politicamente costosa, si è stretto attorno ai
protocolli della ricerca accademica, ignorandone deliberatamente le
prassi: abbiamo visto illustri commentatori del lusco e del brusco
equiparare i metodi d’indagine e validazione scientifica a tecniche di
spionaggio, e le due supervisor di Giulio bollate come «cattive
maestre». La stessa ricerca di Giulio è stata ridotta ad una azione «per
conto di» – derubandolo dell’appassionata soggettività che la sua
ricerca ha voluto esprimere.
Arrampicandosi sugli specchi di beghe
complottistiche e piste di spionaggio in cui l’ignaro Giulio sarebbe
stato incastrato – teoremi che a distanza di mesi si confermano esercizi
di dietrologia speculativa privi non solo di prova ma anche di indizio –
si è finito per relegare sempre più ai margini l’ipotesi più
plausibile. Ovvero che Giulio, scomparso nel terzo anniversario della
rivoluzione contro Mubarak, il 25 gennaio (giorno di raid e
rastrellamenti più intenso del solito) potesse essere stato intrappolato
nella morsa di un regime che pratica sistematicamente la tortura come
strumento di controllo della società, che ha chiuso il 2015 con 1.411
casi di sparizioni forzate e 625 casi di tortura accertati, ed è
logorato da paranoia da complotto tipica delle dittature instabili. Un
regime peraltro politicamente accreditato proprio dal governo italiano.
Si tratta di uno scenario evidentemente troppo realistico per essere
preso sul serio dai fabbricanti immaginifici di 007 avventurieri e
cospirazioni internazionali.
Mancano certamente ancora molte
tessere per comporre il puzzle che possa restituire almeno la verità al
corpo martoriato di Giulio Regeni, ai suoi cari e ai tanti che fra noi
si sono mobilitati. Eppure tutti gli elementi tangibili emersi sin da
quel 3 febbraio in cui venne trovato il corpo di Giulio, riconducono
esclusivamente alle fosche stanze del potere egiziano e a faide tra
agenzie d’intelligence rivali.
Chi studia la struttura del potere
nei paesi arabi sa che spesso le istituzioni – in particolare quelle
militari o i servizi segreti – costituiscono veri e propri protettorati
interni, enclaves autoritarie appannaggio di uomini di potere, spesso in
lotta tra di loro. È, cioè, assai plausibile che in un contesto
post-rivoluzionario queste dinamiche di competizione risultino
esacerbate e ripetuti cambi di regime diventino quasi fisiologici. Le
diverse verità forniteci ufficialmente dall’Egitto tradiscono, d’altra
parte, l’imbarazzante e maldestro tentativo di coprire lotte di potere
interne.
La tradizione di deparesidos, torture sistematiche e
avvitamento autoritario fanno montare il sospetto che il corpo di Giulio
Regeni sia stato sacrificato sull’altare di una escalation di vanità,
ambizioni e punti di non ritorno che permeano le rivalità tra diversi
corpi d’intelligence.
Poter svolgere ricerca accademica, come
Giulio stava facendo, è condizione fondamentale per poter conoscere
questi meccanismi. Mentre è importante sottolineare come l’ossessione di
avvalorare tesi di spionaggio, unita alla criminalizzazione
dell’Università di Cambridge, abbia più o meno inconsciamente fatto il
gioco del regime.
Tuttavia, non abbiamo firmato petizioni a
sostegno dei colleghi, vedendo in queste un riflesso corporativo, mentre
li abbiamo invitati a spiegare i come e i perché del fare ricerca e
produrre conoscenza socialmente condivisa su temi più sensibili. Il
silenzio che è stato opposto a questi inviti, anche in aule
universitarie, rafforza i peggiori argomenti di chi la vuole inibire, e
suona come malcelata spocchia.
Le università dovranno certamente
tutelare meglio i propri ricercatori, oltre a disinnescare la trappola
nella quale la morte di Giulio presta argomenti alla gogna mediatica nei
confronti della ricerca sul campo e dei suoi metodi. Ciò che vediamo è
invece un arroccamento difensivo: più silenzi, più gerarchia, più
autorizzazioni, distorsione di fondi su progetti politicamente ‘innocui’
e privi di riscontro empirico, maggiore spazio al rischio calcolato da
assicuratori privati.
Il modo migliore attraverso cui le
istituzioni accademiche potranno proteggere i propri ricercatori è
invece dare voce ai rischi e alle pressioni in cui s’incorre, rendere
trasparenti le pratiche in sistemi politici autoritari e corrotti.
Interrogata
sulle metodologie della ricerca, l’Università di Cambridge dovrebbe
chiarire, grazie alla autorevolezza di cui è investita, che nessuna
università impone ai propri dottorandi domande, temi di ricerca e metodi
d’indagine. Giulio è l’unico lodevole responsabile per aver scelto cosa
studiare nella sua tesi di dottorato. Il rischio è che nella foga
cautelativa dei propri affiliati e della propria immagine istituzionale,
le università sacrifichino la ricerca sul cambiamento politico, sulla
contestazione e l’incertezza – regalando la nostra conoscenza ai
think-tank, alle società di consulenza, ai rapporti di intelligence, al
reportage giornalistico (dove ancora sopravvive). È anche per questo che
il silenzio di Maha Abdelrahman e dell’Università di Cambridge suona
ancora più inopportuno e ostile.