domenica 12 giugno 2016

Corriere 12.6.16
Regeni, nelle carte egiziane le prove del depistaggio
di Giovanni Bianconi

Nell’inchiesta sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni, torturato e ucciso al Cairo, crolla la pista della cosiddetta «banda criminale» annientata il 24 marzo. E sono gli stessi atti della magistratura egiziana inviati a Roma a smentirla: il giorno della scomparsa di Regeni il leader della banda era infatti a oltre cento chilometri dal Cairo. A questo punto, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco sono pressoché certi che la pista sia stata costruita a tavolino.
ROMA La prova del depistaggio da parte della polizia egiziana sul sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni è negli stessi atti dell’inchiesta giudiziaria egiziana inviati a Roma. Un «dato tecnico» (e come tale oggettivo e incontrovertibile, ritengono gli inquirenti italiani) che smentisce le responsabilità della cosiddetta «banda criminale» annientata il 24 marzo; rafforzando in tal modo l’ipotesi della montatura costruita ad arte con il ritrovamento dei documenti di Giulio a casa del «capo» dei banditi.
Secondo la ricostruzione del ministero dell’Interno del Cairo, mai ufficialmente smentita dalla magistratura locale, i cinque banditi uccisi tre mesi fa in un presunto conflitto a fuoco avrebbero avuto un ruolo nell’omicidio Regeni; sia per il passaporto e gli altri documenti d’identità trovati a casa di uno dei morti, sia per le testimonianze raccolte in seguito alla loro uccisione. Ma fra le carte trasmesse dopo molte insistenze alla Procura di Roma, gli investigatori hanno trovato un elemento che contraddice questa tesi. Il 25 gennaio 2016, giorno della scomparsa del giovane ricercatore friulano, il leader del gruppo di malfattori era infatti a oltre cento chilometri di distanza dal Cairo. Si chiamava Tarek Saad Abde El Fattah Ismail, e in quella data il suo telefono cellulare ha agganciato in tre diverse occasioni — alle 16.00, alle 17.33 e alle 20.32 — una cella dell’area di Awlad Saqr, regione a nord della capitale egiziana. Il che significa, a meno di improbabili e mai ipotizzate cessioni temporanee del suo telefonino, che Tarek non poteva trovarsi né davanti all’abitazione di Regeni né alle varie stazioni della metropolitana cairota dove è possibile che il ricercatore italiano sia stato rapito.
La versione di comodo con la quale, a fine marzo, le autorità egiziane provarono a dichiarare chiuso il caso, era inoltre supportata da un ulteriore dettaglio: le dichiarazioni della moglie di Tarek, Mabrouka Ahmed Afifa, arrestata all’indomani delle perquisizioni in cui saltarono fuori (provvidenzialmente) i documenti di Giulio. Anch’esse improbabili, almeno in un decisivo passaggio. La donna è stata interrogata in due occasioni dalla Procura del Cairo, e i suoi verbali sono stati trasmessi a Roma. Nel primo Mabrouka racconta che ad arrivare a casa, dopo la morte del marito, furono «agenti della polizia investigativa in borghese, all’incirca una dozzina».
Entrarono nelle varie stanze, e uno di loro trovò «la borsa rossa con un disegno che conteneva un passaporto rosso carré, con sopra scritto in inglese, un portafoglio marrone, un tesserino nero, tre o quattro cellulari di cui non ricordo il colore, tre occhiali da sole e una cuffia lunga per cellulare. Questo è quello che ricordo». Sono i documenti di Giulio, mostrati dalla polizia locale alla stampa internazionale come la «prova regina» del coinvolgimento della banda nell’omicidio Regeni. «Un poliziotto ha chiesto di chi fosse la borsa rossa in cui era il passaporto, io ho risposto “mia”, al che mi ha dato uno schiaffo». E ancora: «Quando hanno rinvenuto il passaporto hanno cominciato a scambiarsi i complimenti di compiacimento, poi si sono rivolti al loro superiore dicendogli “Auguri capo”, non ho idea per quale motivo».
Forse perché avevano trovato quello che cercavano, magari sapendo prima dove guardare. Ma queste sono ipotesi. Di certo ci sono solo le dichiarazioni di Mabrouka, secondo cui la borsa rossa era stata portata in casa dal marito. Il quale circa due mesi prima (cioè a inizio febbraio, all’indomani del ritrovamento del cadavere di Regeni) le avrebbe confidato di aver rapinato il ragazzo. Tarek aveva un passato da truffatore, ma di recente «perpetrava altri reati insieme al figlio Amed e al genero Salah Ali Sayed Mohamed», entrambi uccisi il 24 marzo. Vedendo in tv le immagini di Giulio — ha raccontato la donna — Tarek le confessò di riconoscere il ragazzo che pochi giorni prima lui e gli altri avevano tentato di rapinare; Regeni avrebbe opposto resistenza, e a quel punto «Tarek mi ha detto di averlo picchiato al volto e di essersi allontanato. Poi anche Salah l’ha colpito fino a farlo cadere a terra». Dopodiché, parlando al telefono con un’altra persona, il marito lo avvisò dell’accaduto: «Mustafa, l’uomo è morto».
Ora, se l’episodio raccontato dalla donna fosse vero, dovrebbe essere accaduto il 25 gennaio, giorno della scomparsa di Giulio. Ma quel giorno Tarek non era al Cairo bensì 130 chilometri più a nord, come dimostra il tabulato del suo cellulare che gli investigatori del Servizio centrale della polizia italiana e del Ros dei carabinieri hanno potuto analizzare solo la settimana scorsa (l’unico utile alle indagini: la Procura di Roma aveva richiesti tutti quelli dei 5 banditi uccisi, ma ne sono arrivati solo 4: uno non ha traffico, e altri due contengono solo i contatti successivi al 20 marzo, quindi non comparabili con le date del sequestro Regeni).
A questo punto, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco sono pressoché certi non solo che la pista della «banda criminale» sia falsa, ma pure che sia stata costruita a tavolino. E stanno preparando una terza rogatoria alle autorità egiziane con una serie di quesiti diretti a capire chi e come l’abbia organizzata. Nel trasmettere gli atti, infatti, la Procura generale del Cairo ha evitato di svolgere considerazioni su questo filone dell’inchiesta, che diventa centrale per provare a far luce sulla morte di Regeni: al momento, svelare agli autori del depistaggio è la via più concreta per risalire ai responsabili del delitto.