domenica 12 giugno 2016

Repubblica 12.6.16
Senza aspettare il Referendum
di Michele Ainis

LA PAURA più grande è quella dell’ignoto», diceva Howard P. Lovecraft. E se lo diceva lui, bisogna crederci. Però neanche il maestro della letteratura horror avrebbe immaginato che la sua massima potesse attagliarsi come un guanto alla Costituzione, anzi alla sua imperscrutabile riforma. Perché è questo il sentimento più diffuso: paura del nuovo, o all’inverso paura che sopravviva il vecchio. In un caso o nell’altro, nessuno sa bene quali scenari s’aprirebbero. Sicché ci monta in gola un’inquietudine, un senso d’apprensione e di minaccia. D’altronde è il nostro umore dominante: tre italiani su quattro diffidano del collega d’ufficio, del vicino di casa, del compagno di banco (Istat 2015).
Certo, ogni testo costituzionale vive nel contesto. È sempre la storia a deciderne il valore. Accade perfino che lo stesso testo, nelle diverse stagioni politiche e sociali, riceva applicazioni contrastanti. È successo con l’articolo 41 della nostra Carta, ombrello dello Stato imprenditore fino agli anni Settanta, dopo di che baluardo del libero mercato. Ecco perché possiamo interpellare la Consulta solo attraverso un giudizio incidentale, aperto da un giudice quando lo attraversa un dubbio sulla legge che sta per applicare. Difatti ciascun atto normativo, prima d’entrare in circolo, rimane soltanto un’intenzione, spesso confusamente avvertita dai partiti. Insomma, nessuna riforma si lascia giudicare misurando l’inchiostro che i neocostituenti hanno versato sulla carta. E ogni riforma reca in sé un elemento imponderabile, un azzardo, un’avventura. Il suo sempiterno autore è Lovecraft.
Tuttavia in quest’ultima vicenda c’è un che di singolare. C’è un non detto, c’è un gioco d’allusioni e di rimandi, che sommerge infine il dictum della revisione costituzionale. Non si tratta soltanto dell’Italicum, fuori e al contempo dentro il referendum su cui verremo interpellati, giacché i contrari s’oppongono anzitutto al «combinato disposto» fra nuova Costituzione e nuova legge elettorale. No, i fantasmi s’appostano fra i 47 articoli della riforma Boschi. L’ignoto viene evocato espressamente dal testo che ci è noto. E allora proviamo a intavolare una seduta spiritica, chiamiamoli a raccolta uno per uno.
Il fantasma della democrazia diretta, per esempio. Anche se in questo caso più che uno spettro è una chimera, lungamente agognata dal corpo elettorale. Perché la democrazia italiana è sempre stata zoppa, sbilanciata sulla delega, sui poteri del rappresentante piuttosto che del rappresentato. Adesso la riforma rafforza il referendum, abbassando il quorum di validità per quello abrogativo (se lo richiedono 800 mila elettori) e affiancandogli altri due strumenti: il referendum propositivo e quello d’indirizzo. Il rischio, però, è che li adoperino soltanto i nostri nipotini. La volta scorsa ci toccò pazientare per 22 anni (dal 1948 al 1970), prima che il Parlamento si decidesse ad approvare la legge d’attuazione del referendum abrogativo. Stavolta la riforma rinvia a una legge costituzionale, che a sua volta rinvia a una legge ordinaria, anche per precisare le «altre forme di consultazione» dei cittadini. Già, ma quali? E quando? E in quanti lustri le due Camere aggiorneranno i propri regolamenti per garantire l’esame delle proposte di legge popolare, come annunzia — di nuovo — la riforma?
Sempre ai regolamenti toccherà disciplinare lo statuto delle opposizioni, dunque la qualità della democrazia parlamentare. Un paio di leggi dovranno assicurare la parità di genere in seno alle Camere e nelle assemblee territoriali. Un’altra legge ha il compito di determinare le funzioni di controllo del Senato. E soprattutto spetta alla legge sciogliere il mistero gaudioso della sua elezione, per mano dei consiglieri regionali, però «in conformità alle scelte espresse dagli elettori». Ma in che forma il consigliere si conforma? Qui sta un punto decisivo, giacché il peso di ogni organo dipende dalla sua autorevolezza, e l’autorevolezza discende dalla fonte di legittimazione. Non a caso il Porcellum ha svilito l’autorità del nostro Parlamento. Se dunque il prossimo Senato potrà vantare una diretta investitura popolare, chi lo sa, magari scopriremo che il nanetto ha la statura d’un gigante. E che il gigante saprà essere un garante, un contrappeso rispetto al peso del governo.
E allora diteci, senza aspettare il referendum. Basterebbe un indirizzo, una risoluzione parlamentare, un comunicato di Palazzo Chigi. O ancora meglio un disegno di legge condiviso dalla maggioranza. Se il referendum incrocerà il verde del semaforo, ci saremo portati avanti sul lavoro. In caso contrario, otterremo pur sempre una base da cui ricominciare. Ma in ambedue le ipotesi potremmo votare la riforma ad occhi aperti, e con qualche grammo di paura in meno. Nonostante Lovecraft, che riposi in pace.