Il Sole 12.6.16
La santa alleanza anti-premier che non è ancora alternativa
di Paolo Pombeni
Dunque
sembra che la santa alleanza antirenziana sia cosa fatta. Sull’onda del
solito adagio per cui il nemico del mio nemico è mio amico i vari
raggruppamenti della destra hanno fatto intendere che non sarà male per
loro elettori convergere ai ballottaggi sui candidati Cinque Stelle. Se
poi gli elettori del M5S convergeranno a loro volta sui candidati della
destra è lasciato in sospeso: ufficialmente i pentastellati non fanno
alleanze con altre forze, ma lasciano liberi di scegliere coloro che li
hanno votati, però è ovvio che qualche effetto di trascinamento non
mancherà. Sebbene una lotta politica sempre più avvelenata avesse fatto
presagire qualcosa di simile, c’è da chiedersi se davvero il «voto a
dispetto» sia una buona strategia in questo delicatissimo passaggio
della nostra vita nazionale. Si potrebbe cominciare col dire che Renzi
ha talmente personalizzato quella strategia di cambiamento che, piaccia o
meno, ha messo in atto, da finire inevitabilmente per diventarne la
personificazione e di conseguenza il bersaglio di tutti coloro che quel
cambiamento proprio non vogliono. Per correttezza va aggiunto che quando
il premier ha cercato di attenuare quell’approccio non gli è stato
concesso.
Si capisce bene che sia interesse di tutte le
opposizioni inchiodarlo all’immagine del piccolo dittatore: anche questa
è una vecchia commedia nella storia d’Italia, da Crispi, a Fanfani, a
Craxi. In genere sono state strategie che hanno buttato via il bambino
con l’acqua sporca: ci si è sbarazzati dell’uomo che voleva imporre
l’accelerazione riformista, ma si sono mandate al diavolo anche le
prospettive riformatrici. Renzi ha uno svantaggio particolare in questa
battaglia ed è l’opposizione che trova nel suo stesso partito. Questa
legittima anche agli occhi di potenziali sostenitori quei dubbi sulla
qualità della sua leadership che vengono diffusi a piene mani dai
partiti che lo avversano da destra come da sinistra. Un osservatore
attento però non può esimersi dal chiedere quanta «alternativa» siano in
grado di mettere sul terreno coloro che demonizzano il riformismo
renziano. Soprattutto c’è da interrogarsi su quali idee comuni, a parte
l’antipatia per l’attuale inquilino di palazzo Chigi, si fondi una
opposizione che va dalle ruspe di Salvini al reddito di cittadinanza
proposta dai pentastellati. Nel momento in cui si propone un cambio di
equilibri nel governo del paese ci sarebbe da aspettarsi di conoscere
quali siano i punti di accordo programmatico su cui potrà funzionare la
santa alleanza una volta raggiunto lo scopo.
Se si parte anche
solo dal contesto amministrativo che pure dovrebbe fare da sfondo a
questa tornata elettorale ci pare arduo immaginare che Raggi a Roma e
Parisi a Milano esprimano due modelli e due stili di governo
compatibili. Il discorso si potrebbe estendere alla Appendino a Torino e
alla Borgonzoni a Bologna, per non dire della incognita de Magistris a
Napoli che fa storia a sé. Eppure se davvero l’obiettivo è dare la prima
spallata a quell’equilibrio politico (traballante e poco coeso in
verità) che si stava costruendo attorno a Renzi bisognerà pure averne in
mente un altro che non ci pare opportuno sia il caos dei cosiddetti
cento fiori, cioè che ogni città vada per la sua strada e poi vedremo
che succede.
Gli stessi promotori di quella che sperano sia una
spallata al premier attraverso i ballottaggi concordano che la madre di
tutte le battaglie sarà il referendum confermativo di ottobre, ma
pensano, e qui non sbagliano, che un successo della loro strategia il 19
giugno li rafforzerebbe per quanto riguarda l’allargamento della loro
base di consenso ad ottobre. Renzi non starà a guardare si capisce, ma a
sua volta deve elaborare una strategia meno fantasiosa (gufi,
lanciafiamme e battute varie non servono più) e soprattutto deve
mostrare che non c’è in ballo un plebiscito sulla sua persona, ma sul
leader di una ampia coalizione che vuole scommettere sul progresso del
paese.
Il premier è convinto di stare già facendo un discorso di
questo tipo, ma è così solo superficialmente, perché non si tratta che
lo si riconosca come deus ex machina del riformismo, ma che lui si
percepisca come profondamente legato ad una comunità riformatrice che
non è fatta di pecore che seguono un pastore, ma di attori creativi,
responsabili e dunque compartecipi. È su questo terreno che Renzi può
mettere a nudo la debolezza della santa alleanza che si sta formando
contro di lui e che può allontanare da sé l’immagine caricaturale del
«novello Cesare» che gli hanno cucito addosso (ma non senza qualche sua
collaborazione).