Repubblica 12.6.16
I tabù del mondo
La Torre di Babele simbolo eterno dell’antipolitica
Questo
mito non racconta solo la superbia dell’uomo nei confronti di Dio. Ma
anche, come hanno spiegato Benjamin e Derrida, la nostra intolleranza:
il progetto di un edificio che ospita persone che parlano la stessa
lingua nega infatti ogni diversità. E cancella l’antica arte del
compromesso, che ci costringe di ascoltare l’Altro
Chi vuole
costruire l’opera nega il fiorire delle differenze su cui si fonda la
Creazione Per questo il Signore reagisce imponendo agli uomini la
necessità della traduzione
di Massimo Recalcati
Ho
sempre trovato a suo modo struggente un aneddoto che riguarda gli
ultimi anni della vita di Freud riportato dal suo biografo Ernst Jones.
Invitato in una prestigiosa università americana a tenere una conferenza
in presenza delle maggiori autorità accademiche, mentre stava tenendo
il proprio discorso il padre della psicoanalisi veniva costantemente
disturbato da una persona tra il pubblico che non tratteneva il proprio
dissenso. A nulla servirono gli interventi del direttore dell’università
per calmarlo, al punto che si dovette prendere la misura estrema di
allontanare il facinoroso dall’aula. Ma anche fuori dall’aula l’uomo
continuava a strepitare disturbando lo svolgimento della conferenza e
costringendo il direttore a comunicare a Freud la sua decisione di
chiamare la polizia per ristabilire l’ordine. A quel punto Freud stesso
intervenne chiedendo al direttore di non procedere in quella direzione,
ma di fare rientrare in aula il “dissidente” offrendogli la possibilità
di parlare apertamente.
In questo aneddoto troviamo riassunta
efficacemente non solo l’etica della psicoanalisi — dare la parola,
includere, ascoltare l’Altro che disturba — ma anche una lezione di
democrazia politica più ampia: dare la parola e ascoltare l’Altro che
disturba significa praticare una faticosa politica di inclusione che non
cade nella tentazione del rigetto violento del dissenso.
L’immagine
biblica della torre di Babele racconta, tra le altre cose, proprio
l’origine della politica come arte della traduzione delle lingue. Nella
sua vicenda non è in gioco solo il rapporto tra la superbia degli uomini
e l’esigenza di Dio di ribadire contro di essa la sua sterminata
potenza. In primo piano, come è stato notato da molti commentatori — da
Benjamin sino a Derrida — è il grande tema della lingua e del nome
proprio. Quale è il peccato più grande commesso dai babelici? È quello
di voler realizzare la propria impresa escludendo la possibilità di
lingue differenti. Essi, infatti, si radunano attorno a un principio
forte di identità: “un solo popolo” e “una sola lingua”. Gli uomini
della Torre vogliono assaltare il cielo sfidando Dio non solo perché
esibiscono la loro ambizione in una spinta ascendente che vorrebbe
escludere l’esperienza del limite, ma perché in questo slancio
fallico-narcisistico essi vogliono farsi un nome da se stessi.
I
babelici sono animati da un desiderio autogenerativo: un solo popolo,
una sola lingua, una sola Torre. L’opera incessante di edificazione
sembra consegnarsi al culto idealizzato dell’immagine del proprio Io.
Costruire la Torre è un modo per generarsi da sé inseguendo un miraggio
di autosufficienza. Si tratta di una hybris che viola ogni processo di
filiazione. L’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua esclude
la lingua dell’Altro: l’architettura della Torre esige la compattezza
uniforme di una sola lingua e l’idolatria del Nome che si fa da sé. Non è
questa una delle cifre più evidenti del nostro tempo? Non viviamo
immersi nello sforzo incessante di edificazione del nostro nome proprio?
Farsi un nome non è l’imperativo egemone nella concezione occidentale
della vita?
Il peccato dei babelici è non aver considerato che
l’esistenza di una sola lingua sopprime altre possibilità linguistiche,
ovvero altri possibili modi di essere. L’auto-nominazione dei babelici
vorrebbe invertire l’atto della creazione attraverso il quale Dio genera
gli esseri viventi ciascuno nella propria differenza. La loro spinta
alla comunione vorrebbe cancellare il disturbo dell’Altro, il disturbo
dell’Altra lingua, del dissenso dell’Altro come, invece, emerge bene dal
racconto freudiano. E quando Dio discende per osservare più da vicino
l’opera dei babelici, non può non notare che la loro impresa punta
proprio a sopprimere l’esperienza della differenza sulla quale si fonda
la Creazione. Per questo egli utilizza lo strumento della pluralità
delle lingue confondendo gli uomini della Torre, correggendo la loro
illusione della lingua unica. In questo modo costringe gli uomini, come
si esprime Benjamin in Angelus Novus, alla «necessità della traduzione»,
al lutto per una “sola lingua” e un “solo popolo”.
Non si tratta
di un semplice castigo ma di un riorientamento: la vita dell’uomo cresce
e diviene generativa, capace di democrazia, solo se rinuncia al sogno
colonialista di una lingua unica, solo se rispetta il pluralismo delle
lingue e la fatica della traduzione. In primo piano non è il Dio geloso
preoccupato nel preservare la sua onnipotenza di fronte all’assalto
della superbia dell’uomo, ma l’indicazione preziosa che la vita insieme
esclude la comunione, l’immedesimazione, la massificazione, perché “il
comune” è sempre costituito da differenze irriducibili. Una comunità non
può abolire, diversamente dalla illusione nefasta della comunione, le
differenze tra le lingue e tra i nomi propri, non può tendere
all’assimilazione uniforme, alla massificazione anonima.
È una
indicazione che ritroviamo anche nell’aneddoto di Freud: solo
nell’ascolto della lingua dissidente si dà la possibilità di una
comunità umana.