sabato 11 giugno 2016

Repubblica 11.6.16
Le impronte dei mandanti
Giulio Regeni non è stato vittima di criminali comuni come voleva far credere la grottesca messa in scena di un conflitto a fuoco
Ritardare l’invio dell’ambasciatore è un messaggio Non possiamo tornare a un rapporto corretto in assenza di risposte
di Roberto Toscano

ALLA luce degli ultimi elementi contenuti nel “documento di Berna” — la denuncia anonima pervenuta alla nostra ambasciata nella capitale svizzera — il caso Regeni risulta sempre meno misterioso per quanto riguarda quanto è avvenuto ma anche sempre più difficile da affrontare sul piano della politica del governo italiano nei confronti dell’Egitto. Non sappiamo chi abbia scritto quel documento, e nemmeno perché lo abbia fatto.
SEMBRA però evidente, per i dettagli forniti e i meccanismi descritti, che l’ignoto autore operi all’interno dei servizi di intelligence egiziani, mentre risulta difficile attribuire la sua ispirazione a un impulso a favore della verità. Si tratta di un gioco tutto interno che riflette lotte fra diversi centri di potere, ambizioni contrastanti, strumentalizzazioni. Trucidando barbaramente il giovane ricercatore italiano qualcuno, all’interno del sistema repressivo del regime egiziano, ha commesso un errore sottovalutando le ripercussioni del crimine sia nei rapporti con l’Italia sia sul piano dell’immagine internazionale dell’Egitto. Come accade all’interno di tutte le burocrazie, si è allora scatenato un gioco allo scaricabarile. In questo senso — quali che siano le motivazioni della “gola profonda” egiziana — appare del tutto credibile l’elemento di fondo da cui il “documento di Berna” prende le mosse: la rivalità fra Sicurezza nazionale, dipendente dal ministero degli Interni, e Servizio segreto militare, sottoposto al ministero della Difesa.
Un nucleo di verità emerge con sempre più inconfutabile chiarezza. Giulio Regeni non è stato vittima di criminali comuni, come voleva far credere la grottesca messa in scena di un “conflitto a fuoco” che ha prodotto cinque cadaveri con una pallottola in testa. Giulio Regeni è stato vittima di uno degli organi del regime egiziano. Giulio Regeni non è stato vittima di criminali comuni, come voleva far credere la grottesca messa in scena di un “conflitto a fuoco” che ha prodotto cinque cadaveri con una pallottola in testa. Giulio Regeni è stato vittima di uno degli organi del regime egiziano.
Nel nostro paese abbiamo in passato dovuto affrontare, fra le minacce alla democrazia, il problema dei “servizi deviati” — deviati rispetto al rispetto alle norme contenute nella Costituzione e nelle leggi. Nei regimi dittatoriali i servizi sono sempre deviati, nel senso che operano senza alcun riferimento alle norme di uno stato di diritto peraltro inesistente. Il regime ne ha bisogno per mantenersi, e quindi dà loro sia risorse che impunità, ma nel fare questo finisce per trasferire a questi organismi un potere che può diventare pericoloso contropotere. Non solo, ma sarebbe illusorio ritenere che dittatura significhi ordine, controllo centralizzato, rispetto della verticalità del comando. Non potendo trovare sbocchi nelle istituzioni palesi, la lotta di potere si riversa per canali occulti, sviluppandosi in particolare sul terreno di lotte interne fra organismi repressivi. Non solo in Egitto: se a Teheran i servizi di intelligence dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran) arrestano doppi cittadini (l’ultimo episodio riguarda un’accademica irano-canadese) non lo fanno tanto perché davvero convinti di avere a che fare con spie, ma per contrastare la linea di apertura del presidente Rouhani, che controlla i servizi di intelligence governativi ma non quelli dei Pasdaran.
È qui che si profila in tutta la sua drammaticità il dilemma per il nostro governo. Data la natura del regime egiziano, nel caso Regeni non solo i depistaggi, ma anche gli elementi di verità finiscono per confondere le acque — e non è da escludere che anche le ultime rivelazioni siano animate da questa finalità. Certamente qualcuno scriverà che l’episodio è, come ha cercato di sostenere lo stesso Al-Sisi, una manovra dei nemici del generale/presidente. Ma non spetta a noi dare risposte sulle sinistre manovre dei vari servizi egiziani. Come ha detto la famiglia Regeni — sempre dignitosa nel suo dolore, sempre incrollabile nella sua richiesta di verità — tocca al governo del Cairo dire cosa è davvero successo. Ma che fare se, come purtroppo è probabile, non lo farà? Che fare se, sperando che finiremo per stancarci, qualcuno continuerà ad aggiungere vere o finte rivelazioni ai ripetuti tentativi di depistaggio?
Di fronte a questo stallo c’è chi chiede se abbia senso non inviare al Cairo il nuovo ambasciatore, nominato già il 10 maggio scorso, facendo rilevare che l’Italia non può certo interrompere i rapporti con un paese importante come l’Egitto: importante economicamente, importante strategicamente e anche importante come possibile punto di partenza (come sembra stia già avvenendo) per gli imbarchi di migranti verso le nostre coste. È vero, ma sarebbe opportuno chiarire un punto: l’assenza di un ambasciatore non vuol dire rottura di rapporti diplomatici, ma soltanto un abbassamento del livello del Capo missione. Per ben 16 anni, dal 1973 al 1989, l’ambasciata d’Italia in Cile — che non fu mai chiusa — venne retta da un Incaricato d’affari, e non da un ambasciatore.
Non si può ovviamente pensare che l’invio di un ambasciatore al Cairo possa attendere, come in Cile, il ritorno della democrazia. Ma non possiamo nemmeno partire dalla premessa che il livello dei rapporti italo-egiziani stia a cuore all’Italia e non all’Egitto, e non sbaglia quindi il nostro governo a trasmettere a quello egiziano, rinviando l’invio di un ambasciatore, il seguente messaggio: vogliamo andare avanti, vogliamo tornare quanto prima a un rapporto diplomaticamente e politicamente corretto, ma non potremo farlo se non ci saranno date risposte convincenti sul caso Regeni. I cinque disgraziati — forse davvero criminali, ma non quelli che hanno trucidato Giulio — non ci hanno mai convinto. Diteci chi è il vero colpevole: ormai è impossibile farci credere che sia esterno agli apparati del regime.