Repubblica 11.6.16
Il giudice e le donne che cosa ho imparato
di Giancarlo De Cataldo
DA
QUANDO sono entrato in Magistratura, trent’anni fa, ho assistito a una
lenta, costante, inesorabile e benefica evoluzione nell’atteggiamento
del corpo togato verso la violenza sulle donne. La stessa natura dei
processi è profondamente mutata. Non capita più, o accade assai di rado,
di assistere a quegli umilianti contro-esami nel corso dei quali la
vittima di abusi sessuali veniva sottoposta a domande incalzanti sulla
sua moralità, a giustificarsi, in pratica, di non aver seguito l’esempio
di Maria Goretti.
SEGUE A PAGINA 33 MARIA NOVELLA DE LUCA A PAGINA 21
MENTRE
vecchi presidenti di tribunale indulgevano in particolari scabrosi,
sottintendendo che, alla fin fine, ogni violenza si poteva pur
considerare, secondo le antiche massime, “vis grata puellis”, niente più
che l’espediente necessario a vincere la notoria ritrosia femminile.
Nel
mondo giudiziario, tradizionalmente lento a recepire il nuovo, era
accaduto, già da qualche anno, un fatto rivoluzionario. Alle donne, con
una legge del 1963, era stato consentito di vestire la toga. Quindici
anni prima, nel dibattito alla Costituente vi fu chi segnalò una
“fisiologica” inettitudine delle donne al giudizio. Donne che avrebbero
per giunta abdicato ai loro doveri familiari: chissà perché, da noi, i
riferimenti alla famiglia sono costantemente ammantati di venature
reazionarie.
Oggi le donne in toga sono la maggioranza. E hanno
cambiato profondamente la giustizia. Hanno vinto le nostre resistenze.
Ci hanno costretti a confrontarci quotidianamente, e in un modo diverso,
con la questione di genere. E con la violenza di genere. È grazie alle
donne — ovviamente, non solo alle magistrate — se oggi abbiamo capito
che il femminicidio è transculturale, perché gli uomini che odiano le
donne appartengono a tutti gli ambienti. Che è interclassista, perché
gli uomini che odiano le donne appartengono a tutti i ceti sociali. E,
infine, che il femminicidio è troppo spesso “cronaca di una morte
annunciata”, l’atto conclusivo di una catena causale che si sarebbe
potuta e dovuta spezzare prima della tragica conclusione. E tutto questo
vale, a maggior ragione, per ciò che possiamo definire “violenza sulle
donne” in generale. Anche quando non si traduce in una crudeltà
definitiva.
Tuttavia, per quanto passi enormi siano stati compiuti
su questo percorso di progresso, giudichiamo quotidianamente episodi di
violenza e di femminicidio. Che seguono, di solito, uno schema quasi
obbligato: lei mi ha lasciato, o è troppo indipendente, o comunque non è
più “cosa mia”. La punisco. E, in tanti casi, immediatamente dopo sono
“pentito”. All’evoluzione del costume, dunque, non corrisponde
un’attenuazione di questo fenomeno criminale. E, come maschi ormai resi
consapevoli dall’accrescimento culturale che dobbiamo alle donne, non
riusciamo a farcene una ragione.
Fëdor Dostoevskij, non certo uno
spericolato progressista, già nel 1873, riflettendo sull’atroce caso di
un mužik, un contadino sadico che, a colpi di crescenti sevizie, aveva
indotto la sua povera moglie al suicidio dopo che costei si era invano
rivolta al tribunale del suo paese per ottenere giustizia, aveva
stigmatizzato con parole di fuoco i luoghi comuni sulla violenza di
genere, profetizzando il conseguimento di una reale parità fra i sessi:
«È mai possibile continuare a negare a questa donna la piena eguaglianza
di diritti con l’uomo nel campo della cultura, delle occupazioni, degli
uffici, dopo tutto quello che essa ha fatto per il rinnovamento
spirituale e l’elevamento morale della nostra società?».
Oltre
cent’anni dopo, con la condizione della donna, nei paesi occidentali,
molto cambiata, il mužik è ancora fra noi. Solo che non possiamo
rifugiarci dietro la sua sagoma, in fondo rassicurante, di primitivo e
prendercela con l’ambiente. E abbiamo pure perso l’alibi del progresso
della condizione femminile. Le cose sembrano migliorare, ma la violenza
resta identica, e il mužik continua a torturare e infierire.
Certo,
ne siamo più colpiti, cerchiamo con maggiore consapevolezza di correre
ai ripari, non nascondiamo la testa nella sabbia come i giudici di
Dostoevskij. Ma i femminicidi, invece di calare, aumentano. E allora
tutto il progresso del quale ci vantiamo — e che pure esiste — ci appare
di colpo una costruzione precaria. La reazione di maschi arretrati alla
“forza” delle donne; il risentimento per il crescente loro potere
sociale; la gelosia come sentimento primordiale aggravato
dall’evanescenza di rapporti dominati da un’intima fragilità; il revival
degli integralismi sessuofobici... tutto questo spiega forse troppo, ma
non tutto.
E restiamo inchiodati a una domanda alla quale nemmeno
il genio di Dostoevskij aveva saputo dare risposta: perché quel mužik
picchiava sua moglie? Perché continua a farlo? “Non lo sapeva neanche
lui”. Non sapeva spiegarsi il perché della ferocia del maschio.