La Stampa 11.6.16
Così lo Stato dimentica le vittime di femminicidio
L’Ue
impone risarcimenti per reati violenti quando il colpevole non lo fa Ma
l’Italia e la Grecia sono inadempienti. Già venti i ricorsi aperti
di Lidia Catalano
Oggi
si userebbe la parola «femminicidio» per raccontare la sorte di Rossana
Jane Wade, una ragazza di 19 anni strangolata dal fidanzato e
abbandonata in un casello ferroviario il 2 marzo 1991 a Fiorenzuola, nel
Piacentino. Lo scorso 7 giugno, a 25 anni e tre mesi di distanza, la
terza sezione del Tribunale di Bologna ha condannato il ministero della
Giustizia e la presidenza del Consiglio a risarcire con centomila euro
Letizia Genoveffa Marcantoni, la madre della ragazza.
Cosa c’entra
lo Stato in questa storia? Per capirlo bisogna tornare ancora indietro
nel tempo, questa volta al 2004, quando una direttiva europea ha imposto
agli Stati membri di risarcire le vittime di reati violenti «nei casi
in cui l’autore sia rimasto sconosciuto, si sia sottratto alla giustizia
o non abbia le risorse economiche per risarcire la vittima o – in caso
di morte – i familiari». Un obbligo verso cui l’Italia – unica in Europa
insieme alla Grecia – risulta inadempiente. Così alle vittime (se
ancora in vita) o ai loro familiari non resta che dare battaglia allo
Stato per avere giustizia. Come ha fatto Letizia Marcantoni, che non ha
visto un solo euro dall’assassino di sua figlia, Alex Maggiolini,
all’epoca dei fatti studente di 20 anni e nullatenente.
Un
episodio tutt’altro che isolato. «Nel 70-80 per cento dei casi gli
omicidi volontari, le lesioni permanenti e le violenze sessuali non
vengono risarciti dall’autore del reato», spiega l’avvocato Stefano
Commodo dello studio legale associato Ambrosio&Commodo di
Torino, da anni in prima linea per chiedere l’applicazione della
direttiva del 2004. Fu lui, insieme all’avvocato Marco Bona, a difendere
una vittima di violenza sessuale in un processo che si è concluso con
la condanna – per la prima volta in Italia – al risarcimento da parte
dello Stato. La ragazza era stata sequestrata, percossa e violentata per
un’intera notte da due uomini che si erano poi resi latitanti. La
sentenza emessa nel 2010 dal tribunale di Torino è stata seguita da
pronunce analoghe del tribunale di Roma nel 2013, da quello di Milano
nel 2014 e adesso anche dal foro di Bologna.
«Pochi cittadini sono
a conoscenza di questo diritto. Ad oggi ci sono una ventina di
contenziosi aperti con lo Stato, ma potenzialmente potrebbero essere
molti di più».
La sentenza apripista del 2010 è stata confermata
in Appello (con una riduzione del risarcimento da 90 mila a 50 mila
euro) e ora la Cassazione ha disposto il rinvio alla Corte di Giustizia
Europea. L’oggetto del contendere è l’interpretazione della direttiva
del 2004. Che lo Stato ha recepito soltanto in parte, con leggi a tutela
esclusiva delle vittime di terrorismo, strage e reati di stampo
mafioso.
«Aspettiamo la pronuncia della Corte del Lussemburgo –
commenta Commodo – ma la direttiva parla chiaro e non prevede alcuna
tipizzazione dei reati risarcibili. Purtroppo ancora una volta ci
distinguiamo in negativo rispetto agli altri Stati, già adeguatisi da
anni alle richieste dell’Europa».
Con il risultato che ad oggi in
Italia le moltissime vittime di reati violenti non hanno un fondo a cui
rivolgersi e si trovano a dover affrontare anni di udienze in tribunale
per vedere riconosciuti (forse) i propri diritti. «Così lo Stato viene
meno all’obbligo di garantire la sicurezza e la libera circolazione dei
propri cittadini. Chi ha subito un trauma grave - conclude l’avvocato
Commodo - vorrebbe percepire vicinanza e solidarietà. E invece troppo
spesso la vittima si sente sola e abbandonata a se stessa».