Corriere 11.6.16
La ragazza morta di overdose a sedici anni e il sottomondo che non vogliamo vedere
di Paolo Fallai
Sono
passati sessant’anni dall’«Urlo» di Allen Ginsberg: «Ho visto le menti
migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, trascinarsi
all’alba in cerca di una siringata rabbiosa di droga». Oggi non urla più
nessuno. L’eroina è confinata in un sottomondo che ci rifiutiamo di
guardare, in quella sterminata periferia tutta uguale dove vivono non
«le menti migliori» ma i nuovi miserabili della nostra società. Fino a
quando la morte di una ragazzina di 16 anni non ci sbatte in faccia il
colore livido della nostra indifferenza.
Il giovane corpo di Sara
Bossi rannicchiato su una lettiga arrugginita all’interno di uno degli
ospedali più grandi di Roma, non racconta solo la sua disperata
adolescenza. Sua madre, Katia Neri, è stata interrogata per lunghe ore
ieri dagli investigatori, sullo spaccio di stupefacenti, sui rapporti
con gli amici afgani della figlia e su quello che succedeva nei meandri
del Forlanini dove anche lei aveva dormito. E anche la nonna di Sara — è
stata la stessa Katia Neri a raccontarlo agli investigatori — sarebbe
morta anni fa per una overdose. Un gene di disperazione si è
impossessato di tre generazioni della stessa famiglia. Ma noi dove
eravamo quando succedeva tutto questo? E i servizi sociali di uno Stato
che dovrebbe essere civile? Nessuno nelle peregrinazioni di quella
ragazzina tra un centro di recupero nel Frusinate, da cui ha tentato di
fuggire buttandosi da una finestra del terzo piano; l’ospedale Gemelli
di Roma dove le hanno curato le fratture; e ancora un centro minori in
provincia di Perugia, nessuno ha saputo o capito la sua storia. Sara si è
aggirata in quei luoghi che sono a 50 metri dalle nostre case ma è come
fossero invisibili, le stazioni come Termini, gli orli slabbrati di
quartieri come Pigneto o Ostiense, fino all’ultima fermata: un ospedale
mezzo abbandonato. Davvero non possiamo più permetterci di chiudere gli
occhi.