Repubblica 10.6.16
Così Salgari creò il dizionario dalla fantasia all’italiano
I
critici sottovalutano le qualità letterarie dello scrittore. Invece i
suoi libri sono un modello di stile, da “ascoltare” come una partitura
musicale
di Michele Mari
Per un inveterato
pregiudizio, a Emilio Salgari vengono riconosciuti diversi talenti ma
non la letterarietà (come dire “lo stile”); e anche chi ha in uggia il
realismo e si entusiasma per Collodi o per Dossi, di fronte al nome di
Salgari tende spesso ad assumere un atteggiamento concessivo e
lievemente imbarazzato.
Eppure basta aprire a caso i suoi libri
per scoprire le virtù di uno stile che a dispetto della popolarità non
si saprebbe definire se non come iperletterario. Vi troviamo le veneri
del melodramma e la retorica barocca del mirabolante; l’asservimento del
tempo e dello spazio alle ragioni della letteratura; l’elegante
emancipazione della fantasia dalla psicologia; una coerente applicazione
del principio borgesiano per cui creare significa nominare; e
soprattutto la capacità di tradurre l’esotismo in suggestione
linguistica, con un’opera di astrazione verbale non dissimile da quella
realizzata negli stessi anni da Mallarmé e dai simbolisti, per cui le
parole tendono a diventare puro suono («rotang», «ramsinga»,
«nagatampo», «un gruppo di manghieri, di giacchieri o di nagassi...»;
«un numero infinito di grab, di poular, di bangle e di pinasse...») e
però, portentosamente, anche suono avventuroso. Come gli epiteti omerici
o le formule rituali, i
Thugs, i sampan, i kriss che costellano
ossessivamente la sua pagina sono il coagulo di una diffusa eccitazione
verbale, una manieristica firma, e dunque anche una paradossale garanzia
di verità (al punto che nella sua prosa tutto è epitetico, dallo
sguardo magnetico del protagonista al ghigno satanico del traditore, da
verbi come «fremere» o «ruggire» alla parola «vendetta», dalle
interiezioni alla terminologia marinaresca, dagli arredi ai veleni e ai
contravveleni).
È qui che si vedono i grandi affabulatori, nella
capacità di trasfondere ogni volta tutto il proprio mondo in
un’immagine, un aggettivo, un toponimo, sì che basta uno di questi
elementi per accendere e sintonizzare quella macchina di ascolto e
ri-creazione che è il lettore. In questa dinamica i testi salgariani
vengono musicalmente eseguiti, il che spiega perché è così difficile,
per chi da ragazzo sia stato uno di questi esecutori, tornare a parlare
di Salgari in veste critica: come se la riflessione, la pur doverosa
riflessione critica che spetta a tanta sapienza letteraria, non avesse
in sé qualcosa di intimamente incompatibile con quelle lontane
performance.
«Il mio professore mi consiglia di non leggere i Suoi
libri, perché dice che scaldano la testa»; «I nostri padri e le nostre
madri lasciano leggere poco i Suoi libri, perché dicono che eccitano i
nervi»: gli scrivevano in questi termini, gli adolescenti («Ho letto
quasi tutta la notte. Che scrittore questo Salgari!» annota anche Gian
Burrasca nel suo Giornalino): e come potremmo stupircene, sapendo che a
ogni proprio compleanno, per la gioia dei figli, Salgari faceva alzare
in volo un rudimentale pallone di carta riscaldata intimandogli: «Non
sofisticare che sei di carta, vola dalla Madonna del Pilone fino
all’Atlantico»? Ci sono qui tutto lo slancio e tutto l’arbitrio che
servono a fondere la letteratura e la vita facendole incontrare in una
zona di mezzo, in quell’eccitazione e in quel riscaldamento tanto
paventati da insegnanti e genitori.
Com’è noto Salgari, tolta una
misera esperienza di mozzo da Venezia a Brindisi, non navigò mai. Ma
quando scrisse di essere «nato in una notte di tempesta, vissuto tra le
tempeste degli oceani ove l’anima diventa selvaggia», quando scrisse di
essere diventato «prigioniero del pirata Sandokan all’età di ventitré
anni» era sincero, così come è sinceramente leggendaria l’automitopoiesi
del tavolinetto zoppicante, della cannuccia con il pennino legato da un
filo di refe e dell’inchiostro violetto fatto con bacche pestate in un
mortaio. Come dire che la drammatica partita fra la realtà (la grigia
Italia umbertina, i debiti, la guerra con gli editori) e l’illusione non
si giocava fra vita e letteratura, ma era tutta interna alla vita: la
vita di chi, come il Courtial des Pereires di Morte a credito,
realizzava palloni volanti litigando con loro. E se oggi cerchiamo
Mompracem sulla cartina ottocentesca del Borneo che servì da primo
orientamento a Salgari, di fronte a quel puntino che come un granello di
sabbia si imperlò in «isola selvaggia, di fama sinistra, covo di
formidabili pirati» noi possiamo apprezzare tutto il potere della
letteratura: perché con un effetto retroattivo quelle parole si sono
sciolte in quel puntino, e quel puntino non solo è ormai emozionante,
non solo sprigiona musica, ma ci appare, dei molti puntini che
costituiscono l’arcipelago, l’unico reale.
Proprio per questo
motivo la dibattuta questione delle fonti salgariane non è poi così
decisiva, ogni lettura o illustrazione traducendosi immediatamente, per
lui, in alimento romanzesco: e anche questa assoluta equipollenza delle
fonti (Melville e un atlante, una tavola botanica e le memorie di un
nostromo), insieme alla loro immediata transitabilità nella dimensione
romanzesca, è una forma di continuità fra realtà e fantasia. E
romanzesca, come in un antico bestiario o libro di mirabilia, è nella
sua pagina la stessa Natura, tanto modulata narrativamente e tanto ricca
quanto semplici e lineari sono invece i personaggi.
Cosa ci vien
detto del Corsaro Nero se non che era misterioso e aveva «un non so che
di malinconico»? Eppure questo vuoto si riempie di contenuti e sfumature
continuamente cangianti, per esempio quando Salgari, come un
illusionista, estende al Corsaro la larvale ambiguità delle parvenze
sottomarine, meravigliosamente descritte nella celebre scena del
funerale nella foresta di corallo. Una pagina che, onorando le ragioni
del “bello scrivere” non meno di quanto onori quelle della più schietta
vis affabulatrice, basterebbe da sola a porre Salgari fra i nostri
grandi scrittori.