venerdì 10 giugno 2016

Repubblica 10.6.16
La malattia cronica dell’economia europea
di Paul Krugman

LA situazione dell’economia europea nel suo complesso è terribile, ma non così terribile com’era un paio di anni fa. E questa è la buona notizia. La brutta è che a distanza di otto anni da quando si ipotizzava che questa dovesse essere una crisi finanziaria passeggera, la fiacchezza economica prosegue, va avanti, senza che se ne intraveda la fine. E questa dovrebbe essere una notizia preoccupante per tutti, in Europa e altrove.
Prima parliamo dei fattori positivi: nel primo trimestre dell’anno i diciannove Paesi che hanno adottato la valuta unica hanno fatto registrare una crescita dignitosa. Anzi, per una volta essa è stata superiore alla crescita negli Stati Uniti.
L’economia europea è, in conclusione, leggermente più grande rispetto a prima della crisi finanziaria, e la disoccupazione è scesa dai livelli del 2013 pari a poco più del 12 per cento a poco meno dell’attuale 10 per cento.
Tuttavia, è significativo che questa passi per una buona notizia. A buon motivo ci lamentiamo del ritmo lento della ripresa americana, ma la nostra economia in ogni caso è già cresciuta del 10 per cento rispetto a prima della crisi, mentre il nostro tasso di disoccupazione è tornato sotto il cinque per cento.
Il fatto è, come ho detto, che non si intravede una fine per questo ormai cronico risultato inferiore alle aspettative. Guardate un po’ che cosa ci dicono i mercati finanziari.
Quando i tassi di interesse a lungo termine sugli asset sicuri sono molto bassi, stanno a indicare che gli investitori non vedono una solida ripresa all’orizzonte. Beh, i bond quinquennali tedeschi attualmente rendono meno 0,3 per cento. In verità, i rendimenti sono negativi da otto anni.
In che termini dovremmo pensare a questi tassi di interesse così inverosimilmente bassi? Di recente l’ex presidente della Minneapolis Fed, Narayana Kocherlakota, ha offerto una brillante analogia: rispondendo a chi critica la politica dell’easy money e i bassi tassi di interesse tacciandoli di essere “artificiali” — perché le economie non dovrebbero aver bisogno di mantenere tassi così bassi — ha suggerito di considerarli alla stregua delle iniezioni di insulina di cui i diabetici hanno bisogno.
Queste iniezioni non rientrano in un normale stile di vita, e possono avere brutti effetti collaterali; tuttavia sono indispensabili per tenere sotto controllo i sintomi di una malattia cronica.
Nel caso dell’Europa, la malattia cronica è la persistente debolezza della spesa, che conferisce all’economia del continente una persistente tendenza deflazionaria perfino quando, come adesso, vive alcuni mesi relativamente positivi. L’insulina del denaro a buon mercato contribuisce a contrastare quella fiacchezza, anche se di fatto non fornisce una cura.
Mentre però le iniezioni monetarie hanno contribuito a contenere le calamità dell’Europa — vengono i brividi a pensare come sarebbero potute andare male le cose senza la leadership di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea — esse non hanno portato a niente di comparabile a una vera e propria cura. In particolare, malgrado gli sforzi della Bce, l’inflazione di fondo in Europa sembra immobile ben sotto l’obbiettivo ufficiale del 2 per cento.
Nel frattempo, in Europa la disoccupazione è ancora a livelli tali da infliggere danni enormi sul piano umano, sociale e politico.
È importante notare che in Spagna, portata a esempio come una storia di successo, la disoccupazione giovanile resta a un’inammissibile 45 per cento.
E non c’è nulla da parte, di riserva, per affrontare un nuovo shock. Supponiamo che la Grecia esploda ancora una volta, o che gli elettori britannici votino a favore di un’uscita dall’Unione europea, o che l’economia cinese precipiti nell’abisso, o altro del genere. Che cosa potrebbero o sarebbero disposti a fare i policymaker europei per contrastare un simile sconvolgimento? Nessuno sembra averne la più pallida idea.
Il fatto è che non è poi così difficile vedere ciò che l’Europa dovrebbe fare per contribuire a curare la sua malattia cronica. Più di qualsiasi altra cosa, sarebbe il caso di aumentare considerevolmente la spesa pubblica, soprattutto in Germania, ma anche in Francia, Paese in condizioni fiscali di gran lunga migliori di quanto i suoi leader sembrano rendersi conto.
Ci sono enormi esigenze infrastrutturali non soddisfatte e ci sono investitori che in pratica stanno supplicando i governi di accettare i loro capitali. Ho già detto da qualche parte che il tasso di interesse decennale reale, il tasso sui bond protetti dall’inflazione, è meno 0,8 per cento?
Per di più, ci sono buoni motivi per ritenere che spendere di più nel cuore dell’Europa apporterebbe grossi vantaggi anche alle nazioni periferiche.
Fare la cosa giusta, però, sembra politicamente fuori questione. Lungi dal dimostrare la volontà di invertire la rotta, la classe dirigente tedesca critica di continuo la Banca centrale, l’unica istituzione europea di rilievo che pare avere una vaga idea di ciò che sta accadendo.
Mettiamola in questi termini: visitare l’Europa può indurre un americano a sentirsi bene al riguardo del suo Paese.
Mi piacerebbe molto vedere l’Europa emergere da questa situazione di grande depressione. Il mondo ha bisogno di più democrazie vibranti e vive. Al momento, però, è difficile avvistare qualche segnale positivo.
(Traduzione di Anna Bissanti) © 2016 New York Times News Service