Repubblica 10.6.16
Perché Sì
Non sono opinioni ma propaganda per nuovi crimini
di Guido Crainz
Ho
seguito con disagio il dibattito sollevato dalla legge sul
negazionismo, con una crescente difficoltà a riconoscermi nell’opinione
quasi unanimemente ostile degli storici (ha fatto eccezione Anna
Rossi-Doria con un importante contributo ad un convegno su questo tema, e
nell’intervista che le ha fatto di recente Simonetta Fiori per questo
giornale). Il disagio è inevitabile, credo: è difficile considerare
sostanzialmente positiva una legge giudicata da amici e colleghi come
liberticida. È difficile resistere ad appelli contro di essa che hanno
visto il confluire di veri maestri della storiografia e di giovani e
appassionati studiosi. Eppure una legge contro la negazione della Shoah a
me sembra fondata, mentre la sua estensione ad altri casi mi lascia
enormi dubbi.
Sono molte le argomentazioni messe in campo contro
la legge in sè: contro una sorta di “verità di Stato” e contro norme
volte a colpire la libertà di ricerca e di opinione (e sia pure
l’opinione più aberrante). In più forme si è affermato che la battaglia
per la verità storica si fa nelle università e nei luoghi di cultura,
non nei tribunali; che le “verità ufficiali” sono proprie dei regimi
totalitari; e che la legge può essere sin dannosa, creando la
convinzione che il problema sia stato risolto una volta per tutte e
possa quindi essere accantonato e rimosso. A me sembra che queste e
altre argomentazioni, non prive di ragioni, rischino però di eludere un
nodo di fondo: stiamo parlando di libero pensiero o di falsificazioni
colossali, intrise di evidenti finalità politiche e “pratiche”? È
“libertà di espressione” accusare le vittime di aver “inventato il mito”
delle camere a gas e di essere dei miserabili mentitori? È possibile
ignorare i nessi evidenti fra il negazionismo e il deliberato alimentare
umori e pulsioni antisemite? O rimuovere il fatto che nei casi più
radicali è l’esistenza stessa dello Stato di Israele che si vuole
colpire, rianimando i peggiori demoni della storia contemporanea? Su
questo nodo centrale a me sembra difficile nutrire dubbi, e non occorre
neppure ricordare che il grande convegno negazionista di dieci anni fa
non si svolse in una sede scientifica ma alla corte di Ahmadinejad, a
Teheran: quell’Ahmadinejad che univa la denuncia della “menzogna sulla
shoah” alla volontà di annientare lo Stato di Israele (furono molto
diverse le logiche che portarono all’utilizzo di un falso colossale ed
evidente come i Protocolli dei Savi Anziani di Sion?). Per questo mi
sono faticosamente convinto che è giusto punire per legge il
negazionismo sulla Shoah (e mi sembra invece sbagliata una estensione
del reato): per l’unicità della tragedia e per la connessione diretta
fra il negazionismo e l’intento di dare nuovo e criminale impulso
all’antisemitismo.
Certo, hanno ragione gli oppositori della
legge, è arduo e pericoloso tracciare il confine fra l’esposizione di
un’idea e l’incitamento all’odio o la promozione di un reato, ma il
negazionismo sulla Shoah mi sembra averlo abbondantemente varcato.
Negarla, insomma, non mi appare l’espressione di un’opinione ma la
perpetuazione di quel crimine in altre forme, e la possibile incubazione
di altri crimini. E i crimini non si combattono solo con la diffusione
delle idee giuste e dei principi di legalità: si combattono anche con le
sanzioni. Si combattono introducendo in modo formale un profilo di
legittimità e di illegittimità, e questo la legge mi sembra fare (in
modo imperfetto e talora discutibile, ma non vorrei che i limiti
oscurassero la sostanza). Lo penso e lo scrivo con il pudore sempre
necessario in questi casi ma con l’assoluta convinzione che
all’antisemitismo — di destra e di sinistra — non possano essere
concessi varchi. Mai e in nessun luogo, a partire da quelli
dell’educazione (e senza dimenticare le vergogne che circolano in
internet). Certo, una legge non risolve il problema: separa però ciò che
è lecito da ciò che non lo è; e non chiude ma apre semmai ulteriori vie
al diffondersi di prese di coscienza collettive. C’è da interrogarsi
piuttosto sulle chiusure reciproche che vi sono state, a me sembra, fra
dibattito parlamentare e dibattito degli storici: non è stato comunque
un buon segno.