venerdì 10 giugno 2016

Repubblica 10.6.16
Noi uomini incapaci di essere lasciati
di Nicola Lagioia

Viviamo ancora, noi maschi in Italia, in un contesto che ci mette in una posizione di predominanza per il semplice fatto di appartenere a un genere. Quanto ne siamo consapevoli? Quanto — consapevolmente o meno — cediamo alla tentazione di contribuire a cementare un modello che ci vede su differenti blocchi di partenza rispetto alle donne? E quanto siamo tentati di trasferire e riprodurre questo modello nel privato delle nostre relazioni sentimentali? Se la nostra compagna ad esempio guadagna più di noi o occupa una maggiore posizione di potere rispetto a noi, la cosa ci lascia indifferenti o almeno un po’ ci innervosisce? Se almeno un po’ ci innervosisce o ci destabilizza (e di maschi evoluti, persino comprensivi e complici, molto preoccupati che la propria compagna guadagni più di loro ne conosciamo tanti) non dovremmo metterci in discussione, e non dovremmo avere il desiderio di trasformare questi legittimi dubbi su noi stessi, sulle nostre fragilità, in un dibattito pubblico?
L’altra tentazione a cui noi maschi non dovremmo cedere (e tanto spesso lo facciamo) è quella di usare un’idea piuttosto distorta di matriarcato come alibi. Se nella Francia del Settecento si diceva che gli uomini parlavano con le donne per riuscire a portarle nel loro letto e le donne andavano in quel letto per riuscire (finalmente) a parlare con gli uomini, in Italia, oggi, non di rado sembra che gli uomini parlino con le donne per ritrovarsi con la trasfigurazione della mamma o della sorella. In una relazione normale una donna non ha l’obbligo di amare il proprio compagno sempre e comunque. La mamma deve amare il proprio figlio, è obbligata a comprenderlo, ascoltarlo e, soprattutto, non può lasciarlo. Ci piace immaginare che le nostre mamme ci abbiano educato (e quando è davvero così, facciamo poco per emanciparci dall’imprinting) facendo passare velatamente il messaggio che loro, le mamme, rappresentano non solo la trasfigurazione dell’amante perfetta, ma il modello a cui la sfortunata fidanzata dovrà aderire.
Così, quando una ragazza o una donna lascia il proprio partner, il maschio non interpreta l’abbandono per ciò che è (l’esercizio, per quanto doloroso, di un legittimo diritto) ma come la rottura di una sorta di legge mosaica, o un crimine contronatura.
A questa distorsione si aggiunge un insegnamento (parimenti mostruoso) della post- modernità. E anche qui, non potrei dire che su di me il virus non attecchisca affatto. Parlo del principio secondo cui ogni desiderio deve essere soddisfatto. Buona parte del modello sociale di oggi si fonda su un diabolico fraintendimento, la persuasione cioè che la nascita del desiderio (in barba a tutte le lezioni della migliore modernità, dal girardiano desiderio mimetico al magistero di Simone Weil) sia tutt’uno col nostro nucleo irriducibile, e come tale un diritto ontologico, inalienabile. Ma in questo modo, dimenticando che il mio desiderio finisce dove inizia quello dell’altro (sostituite la parola “desiderio” con la parola “libertà”) si liquida pericolosamente un altro grande classico su cui si fonda la morale moderna.
L’ombra che questo grottesco fraintendimento getta su di noi è l’incapacità di accettare le sconfitte e i fallimenti. Quando una donna ci lascia, ancora una volta, crediamo sia accaduto qualcosa di illegittimo, di oggettivamente censurabile. In fondo, c’è tutta una società là fuori pronta a urlarci che i nostri desideri sono sacri (“e io non voglio che tu mi lasci! Io voglio che tu ci sia, che mi stia vicina, sempre!”).
Anche qui, non credo che i maschi italiani che picchiano o uccidono le loro donne siano eterodiretti dalla società che essi stessi hanno fondato. Più semplicemente, trovano un contesto molto congeniale allo scatenamento del loro lato più oscuro, violento e infantile. E a ogni modo, che cosa condividiamo con loro al netto dell’esplosione della condotta criminale?
Questo abbaglio sulla natura del desiderio, si potrebbe dire, vale anche per le donne, visto che il XXI secolo lo stiamo abitando tutti insieme. Ma se c’è una cosa che il work in regress in cui viviamo ci sta insegnando (e qui il discorso si allarga) è la rivalutazione della legge del più forte. Quando il maschio col fucile delle ere patriarcali incontra il maschio con la macchina da presa (digitale) del XXI secolo, la civiltà non se la passa molto bene. E nemmeno la nostra coscienza.
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LA cosa meno intelligente da fare per noi maschi italiani, quando si parla di femminicidio, è cedere alla tentazione di dividere il mondo in due. Da una parte gli esemplari evoluti, non violenti, magari progressisti, capaci di instaurare con il partner un rapporto all’insegna di empatia, rispetto e comprensione reciproca. Dall’altra il mostro, che ovviamente non è tale fino a quando non si rivela al mondo come stalker, molestatore, stupratore, assassino. Che cosa condivido io con l’assassino mi sembra invece una buona domanda. Per ciò che mi riguarda, credo di condividere da una parte la cultura in cui sono nato, dall’altra quella in cui vivo. Un mix letale di pre e postmoderno.

DA una parte c’è insomma il vecchio mondo patriarcale, quello che legittimava il delitto d’onore e riteneva la donna una creatura inferiore, che entrava inavvertitamente nel codice di procedura civile (“se il giudice o la moglie” si può leggere all’articolo 51) e che, ancora oggi, fa sì che nel nostro Paese non ci sia ancora stato una presidente del Consiglio, una presidente della Repubblica , per non parlare di come le donne siano sottorappresentate in tutti i ruoli chiave della società — dall’accademia all’economia fino all’editoria.