giovedì 2 giugno 2016

Michele Dau: «Il Pd rinuncia all’inclusione sociale»

Roma. Con Fassina nelle periferie: "Mi dicono, magari venissi, qui non si vede mai nessuno"


 
Michele Dau
«Il Pd si è sganciato dalla sua base sociale, rappresenta un ceto medio che però non c’è più. Dice di essere il partito dei diritti, ma la verità è che ormai ha avallato il divorzio fra diritti civili individuali e diritti sociali, concede i primi e nega i secondi. Ma se non c’è il lavoro le persone non possono esercitare gli altri diritti. Il lavoro è la base di tutto». È questo il ragionamento che ha portato Michele Dau a accettare l’invito di correre da capolista della Civica per Fassina.
64 anni, cattolico democratico, Dau non è noto alle cronache ma ha fatto un pezzo della storia di Roma. Nel 1974 partecipa alla fondazione della Comunità di Sant’Egidio, dopo il famoso convegno «sui mali di Roma» voluto dal cardinal Poletti e don Luigi di Liegro.
«Fu il tentativo più importante di attuare il Concilio Vaticano II. Quello di una Chiesa partecipata, vicina ai dei poveri, insomma quello che dice oggi Papa Francesco. Eravamo impegnatissimi sul fronte sociale: organizzammo il doposcuola a Primavalle, Garbatella, al Trullo, le aree più povere di Roma». All’epoca era responsabile delle attività sociali della comunità. Poi nel ’79 è al fianco di Di Liegro nella commissione che fonda la Caritas. E fra quelli che aprono il primo centro per i barboni, a via Marsala.
È ricercatore sociale al Censis, diventa architetto, sociologo, studia economia. Senza perdere l’impegno sociale: è segretario della Lega Democratica di Pietro Scoppola, il movimento che esordisce come «cattolici del no» al referendum per l’abrograzione della legge sull’aborto. Quelli che tentano «di cambiare la Dc dall’esterno, di rinnovarla. C’era Prodi, Andreatta, Gorrieri, una parte della Cisl. Non ci riuscimmo».
Nel ’97 Giuseppe De Rita lo chiama a fare il direttore generale del Cnel. Che la riforma costituzionale di Renzi abolirà. «Sbaglia. Chiude un luogo simbolico della partecipazione sociale del mondo del lavoro, e non verrà sostituito da niente».
Ha scritto molti libri ma nella bibliografia ce n’è uno interessante per la sua corsa di oggi: «Mussolini l’anticittadino». Ricostruisce come Mussolini «sin dagli anni Venti ha l’idea lucida di distruggere la vita democratica delle città perché ha capito che le città sono i motori dell’innovazione sociale nell’Italia del primo 900. E così abolisce i consigli comunali, i sindaci, la vita civica, intellettuale e culturale delle città. E le trasforma in scenari di parate militari e feste di regime».
L’incontro con Fassina avviene nel Pd, quando l’allora responsabile economico del partito lo coinvolge nella conferenza del lavoro a Genova, nel 2011.
È il Pd che rompe con Pietro Ichino, che difende l’art.18, un altro Pd. Ci resta fino al 2013, l’anno che si apre con la «non vittoria» di Bersani alle politiche e si chiude con la vittoria di Renzi a congresso.
Quando, qualche mese fa, Fassina lo chiama, accetta. Per fare cosa, da consigliere comunale? «Vede, lo sviluppo italiano è avvenuto solo quando c’è stata inclusione sociale, nella vita civile del paese, al lavoro, una casa, diritti civili. Nel nostro progetto l’inclusione sociale è il centro dello sviluppo economico. Non è uno slogan, è una condizione. Se le persone non hanno fiducia nello sviluppo non partecipano, non investono, non crescono. Dico delle tante piccole aziende, delle famiglie, delle persone».
Per questo va soprattutto nelle periferie, e nelle vecchie borgate. «Mi hanno invitato al Torraccio, una zona fra Tiburtina e raccordo anulare, dimenticato anche da Pasolini, un’aggregazione che dal punto di vista urbano non ha neanche senso. Ma ci abitano 20mila persone. C’è una festa a fisarmonica e porchetta. Mi hanno detto: “Magari venissi, qui non si è visto nessuno”».
Se il suo candidato non andrà al ballottaggio, «dovremo fare la cosa più seria: stilare quattro punti programmatici irrinunciabili e su questi misurare chi è disponibile. Fra cui: zero edificazione nel suolo di Roma, l’acqua bene pubblico assoluto, Acea va totalmente ripensata. Cose serie, non cose per giocare. Perché non sono più accettabili i compromessi di basso profilo. Le giunte di centrosinistra ci hanno lasciato l’Auditorium ma in cambio abbiamo avuto le edificazioni selvagge in periferia. L’urbanistica contrattata ha significato che i costruttori hanno degli obblighi ma questi obblighi non vengono mai rispettati , i diritti del suolo non vengono pagati al comune. E allora dico: si tengano l’Auditorium, era meglio suonare la musica in piazza, questi compromessi al ribasso non sono più accettabili».