venerdì 3 giugno 2016

La Stampa 3.6.16
Veneto Banca, enti religiosi e imprenditori
Ecco chi si è salvato dal crollo delle azioni
L’Opera di S. Antonio e l’azienda di jeans Reply hanno venduto i titoli in tempo
di Gianluca Paolucci

Gli ultimi fortunati sono circa 1600 piccoli azionisti di Veneto Banca che riescono a vendere le loro azioni il 13 febbraio del 2015. Tutte operazioni inferiori alle mille azioni, che ancora valevano 39,50 euro ciascuna. Ma tra il 28 febbraio di quell’anno e il 13 febbraio 2015 la banca compie 7630 operazioni di acquisto dei propri titoli, centinaia di milioni di euro che contribuiscono ad asciugare le casse dell’istituto, un elenco di 80 pagine che la stampa ha potuto consultare. In mezzo, secondo quanto ha ricostruito la Consob, ci finiscono imprenditori con promessa di riacquisto, investimenti a rendimento garantito, garanzie di rimborso in caso di discesa del titolo.
Due giorni prima di quel 13 febbraio la procura della Repubblica di Roma aveva compiuto una serie di perquisizioni, con l’iscrizione nel registro degli indagati del Dg Vincenzo Consoli e dell’ex presidente Flavio Trinca per ostacolo alla vigilanza. Tra le accuse c’è anche quella di aver diffuso «un valore dell’azione Veneto Banca non rispondente al vero», riporta il decreto di perquisizione. Il caso della popolare di Montebelluna esplode in tutto il suo clamore. Un caso che però covava da tempo. Gli allarmi si rincorrevano, Bankitalia aveva spinto un ricambio al vertice subendo un vero e proprio schiaffo, con Consoli «retrocesso» da amministratore delegato a direttore generale mantenendo tutte le sue deleghe. E un’aggregazione (con la Popolare di Vicenza, respinta da Montebelluna e con il senno di poi a ragione). Così, fin dall’inizio del 2014 il numero dei soci che chiede di vendere è sempre più ampio. Il 3 giugno riesce a piazzare un pacchetto di 11.006 titoli (435 mila euro di controvalore) l’Opera della Provvidenza di Sant’Antonio, l’Opsa, benemerita istituzione di assistenza ad anziani e ammalati della Diocesi di Padova. A giugno vende anche Giampaolo Buziol, l’imprenditore del marchio della moda Replay, che si libera di 33 mila azioni pari a 1,3 milioni di euro. Il 3 dicembre la banca compie una sola operazione: compra 50.633 azioni, pari a due milioni di euro tondi, dalla Sg Ambient srl, una società attiva nel settore delle rinnovabili. Le sue azioni sono tutte in pegno a Unicredit. Fa parte del gruppo Grafica Veneta, un vero colosso nel settore della stampa. Il suo presidente Fabio Franceschi è noto per le posizioni controcorrente, dagli attacchi agli evasori fino alle stoccate alla politica. Qualche giorno fa dalle colonne del Corriere del Veneto se l’è presa con quei grandi soci delle popolari che avevano riavuto indietro i loro soldi mentre i pensionati erano rimasti incastrati. Lui stesso dice di averci rimesso 5 milioni ma evidentemente poteva andargli peggio. L’operazione di Sg Ambient finisce anche nel mirino della Consob, che segnala questa operazione legata ad una operazione tipo «pronti contro termine» con sottostante azioni di Veneto Banca. Per sei mesi d’investimento hanno ricevuto un rendimento del 3%.
Nel mirino della Consob finisce anche Arrigo Buffon, imprenditore ed ex amministratore di Veneto Banca Romania. Ad ottobre 2014 vende 100 mila azioni, circa 4 milioni di euro. Ma il colpo grosso lo fa Cattolica Assicurazioni: il 4 agosto 2014 vende un pacchetto di oltre un milione di titoli, pari a poco meno di 40 milioni di euro. Solo che ne incassa 67, di milioni. Merito di una opzione «put», un diritto a vendere che Cattolica, i cui intrecci con la Popolare di Vicenza sono finiti nel mirino della Consob, aveva dal 2010.
Poi ci sono le altre banche, e qui si rischia di finire nell’ambito dello strano ma vero. Deutsche Bank vende un’azione nel giugno 2014. Fineco ne vende 5. Investitori Associati, gruppo del private equity di Antonio Tazartes e Dario Cossutta, ne vende 500 il 30 dicembre. Più attiva Bim Fiduciaria, del gruppo di Banca Intermobiliare. Con tre operazioni, l’ultima il 30 dicembre, si libera di poco meno di 10 mila azioni.

Corriere 3.6.16
Sul voto l’intreccio rimosso
Perché le municipalizzate sono un tabù elettorale
Colpisce l’assenza di reazioni agli scandali e ai disservizi di grandi aziende pubbliche, le cui risorse, affrancate dal controllo centrale, prendono strade stravaganti tra società in Grecia e accordi con la Russia
La Corte dei conti calcola che i posti apicali nelle imprese locali arrivano a 38 mila
di Sergio Rizzo

Dice molto, nel rush finale della competizione elettorale per i più grandi Comuni italiani, l’assenza pressoché generale di reazioni agli scandali e ai disservizi di alcune grandi aziende municipalizzate. Ma dice di più, in una campagna che si sta spegnendo nella generale mancanza di idee, la presenza di un tabù. La parola «privatizzazione» risulta pressoché irrintracciabile nei programmi elettorali dei principali candidati. Che anzi si sperticano nel difendere la proprietà pubblica delle aziende che erogano, spesso male, i servizi pubblici ai cittadini. Lo fa perfino chi si ispira alla tradizione liberale: curioso, no? Se poi qualcuno di loro sfiora il tema, premette che l’azienda «va prima risanata». Subito investito dalla sassaiola scagliata dai suoi competitori. Peggio ancora per chi azzarda di far assorbire una società comunale tecnicamente fallita qual è la romana Atac non da un privato ma da un altro soggetto pubblico come le Ferrovie dello Stato. Il che avrebbe almeno il senso di farle cambiare padrone, visti i bei risultati a cui l’ha portata quello attuale. Ma non se ne parla. La cautela potrebbe essere giustificata da una debolezza, tanto umana quanto però indicativa del modesto spessore politico dei candidati: la paura di perdere voti. Le municipalizzate sono serbatoi di consenso. Sono più di 300 mila i posti di lavoro garantiti dalle ottomila società locali. Le partecipate di Roma Capitale hanno a libro paga 37 mila persone. La sola Atac ne conta 11.871,e non è da meno la milanese Atm, con più di 9 mila, sia pure con una qualità del servizio assai diversa.
I numeri dei potenziali elettori sono tuttavia la parte meno appetitosa della torta. Su questo giornale il presidente del Pd Matteo Orfini ha detto che «l’Atac è sempre stata la cassaforte di un partito trasversale». Un partito dove non c’è destra né sinistra, perché gli interessi affaristici del gruppo di riferimento, quando non sono affari personali, sono l’obiettivo. Davanti al quale la politica e le idee passano in secondo piano. Per averne la conferma basta rileggere certe testimonianze rese in tribunale da alcuni imputati al processo per Mafia Capitale, secondo cui le risorse per certe fondazioni politiche arrivavano proprio dalle aziende di servizi pubblici. Che sono diventate, quasi ovunque, il cuore del potere locale.
In risposta alla privatizzazione delle grandi società di Stato, Regioni, Province e Comuni hanno moltiplicato le proprie partecipazioni a ritmi tali, e con intrecci tali, da far girare la testa al più smaliziato fra i Gordon Gekko. Oggi gestiscono 28.096 pacchetti azionari, per più di 8 mila aziende pubbliche. Ed è lì, sia pure in misura diversa da caso a caso, che «il rapporto incestuoso fra politica, sindacato e mondo delle imprese» (sono sempre parole di Orfini) ha prodotto le sue peggiori incrostazioni, favorito dalla penombra della periferia. Senza trascurare la complicità, altrettanto incestuosa, di certi dirigenti e funzionari: tecnici all’apparenza, emanazione della politica nella sostanza. Boiardi in sedicesimi. Proprio lì, dove la luce dei riflettori filtra con difficoltà, ci sono i soldi veri, perché le aziende possono essere anche scassate e i servizi erogati di pessima qualità, ma di quattrini ne girano valanghe. Parliamo di 115 miliardi l’anno. Tanti denari significa tanti appalti e tanto lavoro anche per l’universo privato che si accalca intorno, con modalità per le quali la rendicontazione sociale è spesso assente.
Lì cresce un sistema che fra gli intrecci azionari a cui accennavamo e certi collegamenti personali è diventato il tessuto connettivo di un apparato di potere con ramificazioni senza precedenti. Il recente disastro dei lungarni fiorentini ha fatto scoprire a molti che Publiacqua, la società che gestisce gli impianti idrici di Firenze, è per il 40 per cento di proprietà della romana Acea, società quotata in Borsa di cui è importante azionista Francesco Gaetano Caltagirone, che sta costruendo la metro C nella capitale con un’impresa, la Vianini, a sua volta piccola azionista di Publiacqua. Dalla stessa Acea proviene l’attuale amministratore delegato di Publiacqua, incidentalmente consorte di un ex assessore dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. E quando dall’Acea è arrivato a Firenze, il suo predecessore si è trasferito al timone dell’Acea. Mentre alla presidenza della società fiorentina c’era l’attuale sottosegretario alle Infrastrutture Erasmo D’Angelis, considerato fedelissimo di Matteo Renzi, e il consiglio di amministrazione ha registrato anche il passaggio della responsabile del ministero delle Riforme, Maria Elena Boschi. Ma questo è solo un esempio.
Affrancate da ogni controllo centrale, nel mondo delle municipalizzate le risorse pubbliche prendono le strade più stravaganti: chi apre società in Spagna e Grecia, chi fa accordi con la Russia, chi va a raccogliere la spazzatura in Senegal e chi distribuisce l’acqua in Honduras. Qualche anno fa la Corte dei conti calcolò che i posti apicali nelle imprese locali, fra consiglieri, sindaci e dirigenti, raggiungevano lo sbalorditivo numero di 38 mila. Un parco poltrone sufficientemente vasto per pagare debiti elettorali, soddisfare le richieste clientelari, accontentare amici e famigli. Ciò contribuisce a spiegare perché non solo nessuno vuole privatizzare, ma nemmeno pensa a dismettere le tantissime scatole inutili. Prova ne sia il fatto che la legge con cui già dal dicembre 2014 si imponeva agli enti locali di predisporre piani di riordino delle partecipate per sfoltire la giungla, due mesi dopo la sua scadenza era stata rispettata da appena 3.570 delle 8.186 amministrazioni sottoposte all’obbligo. Le altre 4.616 facevano: marameo! L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli predicò al vento la riduzione delle partecipate pubbliche da 8 mila a mille. Ora Marianna Madia garantisce che la riforma della pubblica amministrazione le taglierà drasticamente. Ma se la dovrà vedere con il partito dei sindaci. Vecchi e, temiamo, anche nuovi.

il manifesto 3.6.16
Quei palazzi del potere capitale
«Marcio su Roma» di Andrea Colombo per Cairo. L’analisi politica dei fatti che in 10 anni hanno mostrato la voracità di una corruzione tentacolare
di Giuliano Santoro

La profezia nefasta risale all’unità d’Italia. Il ministro delle finanze Quintino Sella auspicò che la capitale dovesse essere tenuta al riparo da conflitti di classe e insorgenze sociali di ogni tipo. L’auspicio venne poi ribadito da Benito Mussolini negli anni del fascismo. Roma doveva ricordare i fasti e la missione storica dell’Impero, essere un esempio per il paese. È avvenuto il contrario, la capitale d’Italia ha rappresentato una mappa in scala dei mali del paese, un plastico dei suoi conflitti e delle sue inerzie.
Questo campionario di aporie, inefficienze, punti di frattura, rapporti di dominio e violenza è ricomparso in occasione di Mafia Capitale. Dai diversi fili, non sempre coerenti tra loro, che si dipanano da quell’indagine si muove Andrea Colombo nel suo Marcio su Roma (Cairo, pp. 188, euro 15).
Il libro presenta la qualità, tutt’altro che frequente, di riuscire a tenere insieme i diversi piani delle vicende romane. Colombo maneggia i verbali e le carte dei magistrati, li fa interagire con analisi sociologiche e ragionamenti politici, puntella con la memoria del cronista e il bagaglio di profondo conoscitore del milieu neofascista le fasi salienti dell’inchiesta, annusa la strada e compulsa di documenti. Ne viene fuori un ritratto solido ma felicemente aperto, polifonico e corroborato da autorevoli punti fermi. Secondo il codice penale, il reato di tipo mafioso può essere contestato quando viene «esercitata una forza d’intimidazione derivante dal vincolo associativo». La matassa della strana associazione mafiosa della Capitale si dipana a partire dalla figura di Salvatore Buzzi.
È una storia di redenzione, quella che ha condotto il galeotto dalla cella al vertice di una fitta rete di interessi nel mondo della cooperazione. Una storia che prende il via grazie all’impegno della sinistra romana e della società civile, in un percorso insospettabile di liberazione dal carcere e di sperimentazione di misure di pena alternative.
Accordi ingombranti
Negli anni Buzzi costruisce coi suoi referenti politici un altro tipo di rapporto, la loro relazione scivola sul piano inclinato della crisi della rappresentanza, diviene clientelare.
Questa prima parte della storia, quella del galeotto redento, serve a mettere in chiaro che è vera solo in parte l’affermazione di Giuseppe Pignatone, uno che di mafie ne ha conosciute avendo diretto le indagini a Palermo e Reggio Calabria, secondo la quale il giro d’affari delle cooperative che fanno capo a Buzzi è cresciuto vertiginosamente con la giunta Alemanno.
Colombo racconta che il primo salto di scala avviene sotto l’amministrazione Veltroni, nei primi anni zero. Poi Alemanno vince (inaspettatamente) le elezioni, cerca di fare piazza pulita della rete di relazioni che fa capo a Buzzi. Ma la destra al contrario del mondo cattolico è priva di un insediamento nel mondo della cooperazione sociale. E decide di arrivare a un accordo con l’ingombrante Buzzi, il Rosso.
Qui entra in scena il Nero Massimo Carminati, per oliare ulteriormente i rapporti tra amministrazione e Buzzi o come garante all’accordo raggiunto. Dunque, il virus della «mafia» non aggredisce un corpo sano, lo trova già fiaccato dalla corruzione. Che la relazione tra la mafia capitale e la politica sia tutt’altro che lineare è confermato dalla risposta alla seguente domanda, inevitabile. Se l’organizzazione di Buzzi e Carminati, i boss rinchiusi al regime duro del 41 bis, è davvero un nuovo tipo di criminalità organizzata come mai il Comune non è stato sciolto per mafia? Per capirlo bisogna distinguere le due fasi proposte dagli inquirenti: nella prima, risalente alla giunta Alemanno, il ruolo di Carminati è preponderante e si può parlare a buon diritto di mafia.
Nella seconda, corrispondente appunto al periodo della giunta Marino, il Rosso e il Nero restano mafiosi, ma i loro ganci nell’amministrazione sono soltanto corrotti. Ecco perché la politica pensa di assolversi agitando lo spettro della mafia: una volta fatti fuori gli uomini di Carminati dalle posizioni nevralgiche, basterebbe limitarsi a tagliare qualche ramo secco dal quale penzola qualche mela marcia.
Subculture territoriali
Il Rosso e il Nero hanno buon gioco a intessere relazioni con una politica che è guerra permanente, nella quale non valgono strategie di lungo periodo o visioni ampie. Il ruolo di Carminati si comprende risalendo la storia del gangsterismo fascista e le diramazioni dell’inchiesta.
Dai rapporti di Carminati e dei suoi con la Banda della Magliana, si arriva alla galassia nera e al maxitruffatore Gennaro Mockbel, a reti d’interesse e copertura che arrivano fino al servizi segreti e a Finmeccanica. La Mafia Capitale cambia il verso nel «movimento del malaffare».
La mafia tradizionale «parte dalle subculture territoriali per condizionare gli apparati statali». In questo caso, osserva Colombo, si «parte dai palazzi del potere per dominare pezzi di società».
Così, l’inchiesta allarga il suo spettro alla ricerca dei gangli del business, dai palazzi del potere alla città delle periferie abbandonate, le «centralità» del Piano regolatore di Veltroni, usate come grimaldello dall’eterno potere dei cementifica tori, il sistema dei trasporti ingolfato dagli sprechi, i Grandi eventi come espedienti per proclamare stati d’emergenza e spingere l’asticella sempre più in alto, il disastro della linea C della metropolitana. Da questa prospettiva, la città nella quale «tutti hanno paura di vincere» si mostra ingovernabile.

Corriere Roma 3.6.16
Bus e metro, domenica rischio disagi: 850 tra autisti e macchinisti ai seggi

Bus e metro a rischio, soprattutto domenica, per i permessi elettorali a 850 fra autisti, macchinisti e manovratori dell’Atac che dovranno ricoprire il ruolo di rappresentanti di lista nei seggi di Roma e provincia. A loro si dovrebbero aggiungere 400 dipendenti dell’Ama (fra i quali 300 operatori su strada). Secondo una stima non ufficiale fra due giorni potrebbero esserci problemi su una corsa su quattro. Per questo motivo il dg di Atac Marco Rettighieri ha sospeso i permessi sindacali da oggi a lunedì e la stessa decisione sarà adottata dal 17 al 20 giugno in caso di ballottaggio. Sono invece 20 gli scrutatori provenienti dall’Atac sorteggiati al computer dal Comune (69 quelli di Ama), rispetto ai circa 2 mila della precedente tornata elettorale.

Corriere 3.6.16
Lo strano zelo civico dei dipendenti Atac che si sono impegnati ai seggi della Capitale
di Paolo Fallai

I dipendenti dell’Atac, l’azienda romana di trasporti, hanno un solo pensiero, un’unica fissazione, un singolo dovere: difendere la democrazia. Dove la trovate, in tutta Italia, un’altra azienda in cui oltre 850 dipendenti, su 11.871 totali, saranno impegnati nei seggi elettorali romani come presidenti, scrutatori, segretari o rappresentanti di lista? E la maggior parte di loro, circa 600, sono proprio autisti di autobus o macchinisti della metropolitana, essenziali per il funzionamento del servizio. Tanto che il direttore generale dell’Atac, Marco Rettighieri, per cercare di garantire il possibile, ha stabilito di sospendere nei giorni elettorali di questo primo turno (e del ballottaggio) tutti gli «altri» permessi, in particolare quelli sindacali. Che all’Atac nel 2015 hanno raggiunto 111.664 ore e quest’anno si prevede possano arrivare a 131.000. Una delle conseguenze di questo straordinario impegno civico sarà il rischio di una diminuzione del servizio di autobus e metropolitane nel giorno più importante, quello del voto, domenica 5 giugno. Festivo in cui, di norma, le presenze sono già ridotte della metà. Ma l’aspetto più interessante è un altro: a Roma servono 10.400 scrutatori, il commissario Tronca ha giustamente preteso di sorteggiarli e posto un limite per i dipendenti delle partecipate. Così sappiamo che saranno solo 20 i dipendenti Atac scelti come scrutatori. Quanti potranno essere i presidenti di seggio, scelti dalla Corte d’Appello? E i segretari, nominati dal presidente di seggio? Diciamo altrettanti. Restano sempre circa 800 dipendenti che hanno chiesto e ottenuto di esercitare il ruolo democratico (e gratuito) di rappresentante di lista. Ecco, vorremmo sapere per quali partiti. Magari gli stessi che hanno proclamato proposte mirabolanti sul futuro del trasporto pubblico. È una curiosità democratica, mentre aspettiamo l’autobus.

Corriere 3.6.16
Il rilancio della cultura che manca nei programmi
di Emmanuele F. M. Emanuele

Caro direttore, lo dico da cittadino, e la uso come metafora per il Paese perché la questione non riguarda solo le città: ma si può impostare una campagna elettorale a Roma, la città più bella ed emblematica del mondo, puntando come obiettivo massimo alle proposte per cercare di affrontare argomenti come le buche stradali, il traffico, i rifiuti da raccogliere e gli allagamenti da evitare quando piove? Buche, traffico, rifiuti e allagamenti sono purtroppo lo specchio del fallimento di chi ha amministrato sinora, ma non possono costituire l’orizzonte reale del futuro della città che ha metà del patrimonio culturale italiano che, a sua volta, è il 40 per cento del patrimonio culturale mondiale censito dall’Unesco.
Insomma: le buche vanno colmate, il traffico va regolato, i rifiuti vanno raccolti e smaltiti e gli allagamenti almeno circoscritti ma l’unica prospettiva vera per la città, per i suoi giovani (e anche per i suoi meno giovani) è una sola: farla diventare la capitale mondiale della cultura, la sede naturale dell’arte e degli artisti di tutti il mondo, il crocevia del confronto fra le civiltà, le identità e le religioni, documentando al massimo livello l’osmosi con le culture anche lontane che ci circondano e dalle quali siamo influenzati. Non per concessione di qualche organismo internazionale ma per decisione consapevole della sua classe dirigente, tra cui bisogna annoverare anche quella che si candida a guidarla.
So di proporre una visione totalmente alternativa sia rispetto alle priorità nazionali, sia rispetto a quelle locali, ma dobbiamo sapere che l’asset principale della nostra Italia è uno solo, è la cultura: nel 2013 (ultimi dati disponibili) il prodotto interno culturale diretto è stato di 80 miliardi di euro, quello comprensivo dell’indotto di 213 miliardi.
Parliamo dunque del 16 per cento del prodotto interno lordo di un Paese che non ha più grandi industrie e perde costantemente terreno, nonostante il made in Italy sia oggetto di desiderio nel mondo, nella classifica dei Paesi più industrializzati; che dipende dall’estero per i grandi approvvigionamenti agricoli; che ha un welfare che si sta sfaldando; che non ha, salvo casi singoli, isolati, strutture a livello industriale nella ricerca; che discute tuttora se e chi deve occuparsi di banda larga, mentre nel mondo nei prossimi 4 anni (orizzonte da piano industriale di un’azienda e non da scenario fantascientifico) le persone che useranno la rete raddoppieranno, passando da 3 a 6 miliardi.
La cultura è dunque il vero patrimonio italiano, da Venezia a Palermo, ad altri mille siti dove a giugno non si vota. Ma è a Roma cui dobbiamo chiedere uno scatto di reni: non possiamo accettare dai candidati il contentino di aver messo sotto la voce cultura nei propri programmi piccole idee di manutenzione, di decoro urbano, di quartieri periferici «adottati» dalle istituzioni culturali del Comune o finanche l’impegno per la gestione cristallina dei fondi pubblici per la cultura (ci mancherebbe il contrario). Bene ha fatto il Corriere della sera a sollecitare alcune risposte ai candidati, ma il fatto è che in esse manca la percezione della cultura come fattore di svolta e punto primario e fondamentale di ogni programma di rilancio.
Per questo dobbiamo rovesciare le priorità di chi si candida a guidare la città separando quella che è ordinaria amministrazione, buche o anche decoro urbano spacciato per intervento culturale, dai grandi progetti che definiscono il futuro: Roma non ha il Louvre che da solo fa più visitatori di tutti i musei italiani messi insieme, ma ha le Scuderie del Quirinale, uno spazio di incredibile bellezza e storia da cui guardare tutta la città, commissariate da tre anni.
Ripeto, commissariate da tre anni. Uno spazio che, grazie all’attenzione dichiarata del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la cultura, potrebbe comprendere anche eventi espositivi nello stesso palazzo del Quirinale, facendone in pochi anni quel grande riferimento che manca. Nessuno dei candidati ne ha idea.
Roma dovrebbe aprirsi a quel Mediterraneo che è il suo mare, ma preferisce mantenere chiuso il Museo dell’Africa Orientale perché non ha i soldi per gestirlo e rifiuta il contributo dei privati, anche di quelli non profit. Lo stesso vale per alcune Biblioteche del territorio.
Roma, ma dubito che i candidati lo sappiano, ha un quartiere che si chiama Tormarancia dove la domenica vi sono più visitatori italiani che al Colosseo, un quartiere rinato a nuova vita grazie agli artisti mondiali della street art mobilitati dalla Fondazione Terzo Pilastro, la stessa che per la prima volta ha avuto il coraggio provocatorio di chiudere Banksy in un museo per rendere omaggio ai suoi murales.
Potrei continuare a lungo ma chiudo con un ultimo esempio: qualcuno sa quanti visitatori in più, e quindi quanto reddito aggiuntivo, ha generato l’ Icaro caduto lasciato nella piana di Segesta in Sicilia dopo la mostra di uno dei grandi dell’arte contemporanea, Igor Mitoraj, oggi a Pompei (per inciso, sempre per volontà della Fondazione Terzo Pilastro e del suo Presidente) con trentasei sculture che rafforzano incredibilmente la suggestione della città romana? Qualcuno sa che uno dei luoghi d’elezione dello scultore polacco era Roma, e che quindi si può costruire un filo rosso di grandiosa bellezza tra Pietrasanta, dove ha vissuto e lavorato, Roma, Pompei e la piana di Agrigento? Quanto vale questo percorso in termini di Prodotto interno culturale?
C’è una pre-condizione fondamentale: la volontà di lavorare insieme ai privati non profit, riconoscendone il ruolo ed esaltandone la collaborazione. Altrimenti, le risorse scarse o nulle che lo Stato e i Comuni destinano alla cultura (la nostra spesa per abitante è la metà di quella greca, un primato negativo su cui riflettere) saranno appena sufficienti per mantenere la burocrazia della cultura e non per lo sviluppo di quella che io chiamo l’«energia pulita» dell’Italia. Spero, come ho chiesto da tempo, che si torni a studiare storia dell’arte a scuola e voglio credere, per il Paese e per Roma, che ci siano persone illuminate che sappiano guardare oltre le buche e i rifiuti per rendere disponibile al mondo la bellezza, evitando di collocare anche il nostro patrimonio culturale su quel lungo piano inclinato dove il filosofo Emanuele Severino ha visto scivolare le identità e i valori dell’Occidente. Purtroppo, a Roma e in Italia, non ne abbiamo altri.

Repubblica 3.6.16
L’offensiva contro Grillo
di Stefano Folli

IL BRACCIO di ferro fra Renzi e i Cinque Stelle è ormai il filo conduttore di una fase che comincia fra un paio di giorni con il voto amministrativo nelle città, si prolunga oltre l’estate con il fatidico referendum costituzionale e si proietta poi verso le elezioni di fine legislatura.
Chi si stupisce che la rincorsa alla consultazione di ottobre sia cominciata con oltre cinque mesi d’anticipo, dovrà abituarsi presto al fatto che il vero traguardo conclusivo sono le urne del 2018 (salvo un possibile anticipo al 2017). Solo così si spiega il teorema enunciato dal presidente del Consiglio: «Se al referendum vince il No io vado a casa e cambio mestiere; ma se vince il Sì i Cinque Stelle dovranno dichiarare il loro fallimento». Sottinteso: avranno difeso inutilmente un vecchio impianto costituzionale molto costoso, mentre la riforma Boschi taglierebbe le unghie a quella “casta” contro cui era nato il M5S. Come si vede, il referendum d’autunno resta lo strumento di uno scontro politico senza esclusione di colpi, ben al di là del merito della riforma. La personalizzazione nei fatti.
È il segno che il movimento grillino resta la minaccia più insidiosa al disegno renziano, benché non sia ancora un’alternativa credibile di governo. Quel che è certo, il M5S è l’unico contenitore capace al momento di raccogliere il malessere e la frustrazione sociali in percentuali pari o superiori al 25 per cento — almeno secondo i sondaggi. Così la campagna anti-Cinque Stelle si presenta come l’unico tema politico-elettorale di rilievo ora e nel prossimo futuro. Del resto, gli amici di Grillo sono gli unici a gradire un sistema elettorale, l’Italicum, che piace anche a Renzi e che altrove raccoglie parecchie critiche. I Cinque Stelle lo interpretano come un regalo della sorte perché potrebbe consentire loro di imporsi al ballottaggio del 2018 (o 2017) e di acchiappare il premio di maggioranza. Punto dolente che Renzi non sottovaluta in cuor suo. Quindi, da un lato difende la legge da lui stesso voluta e imposta; dall’altro prova a vedere se i Cinque Stelle si possono ridimensionare prima delle elezioni politiche.
Riuscire a metterli in crisi entro la fine dell’anno vorrebbe dire tenersi l’Italicum così com’è, opzione molto gradita al premier. Altrimenti egli dovrà forse cedere a chi gli consiglia di rivedere la legge, aprendo la strada alle coalizioni. Ecco perché Renzi parla di «fallimento» dei grillini nel caso di vittoria del Sì. In realtà nessuno dei Cinque Stelle ha mai dato tanta enfasi al referendum. A questo pensa invece Renzi, proprio perché il suo obiettivo è individuare il varco attraverso cui screditare il movimento anti-politica e anti-casta. Egli tenta di appropriarsi di alcuni temi grillini e di girarli contro i loro inventori, nella speranza di schiacciarli sul fronte conservatore.
Vedremo presto se l’operazione ha prospettive di successo. Di sicuro, il passaggio delle amministrative conta parecchio. Non è un caso che il presidente del Consiglio si sia speso in prima persona per Giachetti. Ha visto che la campagna del candidato Pd a Roma finisce in crescendo e che il passaggio al secondo turno è plausibile. Perciò la battaglia per il Campidoglio entra a pieno titolo nei piani di guerra contro i Cinque Stelle, cosa che non pareva possibile all’inizio. Del resto, il fronte Grillo sembra un po’ sottotono. In primo luogo a Roma, benché Virginia Raggi rimanga più che favorita nel ballottaggio. Ma anche nel resto d’Italia l’esercito degli antagonisti dà l’idea di aver perso un po’ di smalto. Può essere un’impressione sbagliata ovvero il segno di una transizione in atto, tale da provocare perdita di identità.
Nel calcolo di Renzi, se Giachetti va al secondo turno e si gioca una bella partita con Virginia Raggi, il duello può essere proiettato su scala nazionale e prefigurare lo scontro referendario. Dove al premier servirà un nemico vero: non bastano gli innocui “gufi” della maggioranza, strattonati ogni giorno. I Cinque Stelle sono l’avversario ideale su un terreno — appunto il referendum — che Palazzo Chigi ritiene idoneo alla vittoria. Almeno sulla carta.

La Stampa 3.6.16
Il ceto medio dimenticato e il populismo
di Massimo Gramellini

Il 2 giugno del 1946 si votò per il referendum Monarchia-Repubblica, ma anche per l’Assemblea Costituente, e l’Uomo Qualunque di Giannini ottenne un successo clamoroso che gli permise di eleggere trenta deputati.
Il suo programma, ostile ai partiti e alla grande industria e incentrato sulla difesa del ceto medio, suonava la stessa musica degli attuali movimenti anti-establishment. Però all’epoca il nasone sopraffino di Alcide De Gasperi fiutò l’aria. Fece suoi molti degli umori e dei malumori di Giannini e nel giro di un paio d’anni la spinta dell’Uomo Qualunque venne completamente assorbita dalla Democrazia Cristiana. Oggi mancano i De Gasperi e le condizioni per esserlo, ma sta di fatto che le classi dirigenti di tutto il mondo ignorano o scherniscono le richieste del ceto medio impoverito dalla crisi e stanno consegnando la democrazia a forze autoritarie di natura opaca che non puntano più all’alternanza, ma allo scardinamento del sistema.
Le élite economiche, politiche e giornalistiche sembrano incapaci di reagire e persino di capire cosa stia succedendo. Si brinda allo scampato pericolo di un presidente reazionario in Austria, come se quei milioni di voti fossero scomparsi il giorno dopo le elezioni: mentre restano lì, pronti ad aumentare la prossima volta. I sondaggi sul referendum inglese di giugno vedono in testa i sostenitori dell’uscita dall’Europa, quelli francesi danno Marine Le Pen nettamente favorita alle presidenziali del 2017. In America le brigate rozze di Trump avanzano come caterpillar, impermeabili a ogni scandalo. Se il Washington Post che affossò Nixon scatenasse oggi un nuovo caso Watergate contro il candidato repubblicano, «the Donald» non perderebbe neanche un voto perché chi lo appoggia non si fida più dei mezzi di informazione: li considera asserviti agli interessi finanziari di una micro-casta, esattamente come i politici. Per cogliere l’aria che tira anche da noi, l’altra sera su Sky si è svolto un confronto tra i candidati alla poltrona di sindaco di Roma. L’avvocato Virginia Raggi dei Cinquestelle, tutta smorfie di disgusto e sguardi di degnazione, era simpatica come un cubetto di ghiaccio infilato lungo la schiena, eppure nel sondaggio seguito al dibattito è risultata di gran lunga la preferita dai telespettatori.
Di fronte a questa rivoluzione rumorosa che rischia di cambiare in senso reazionario la geografia politica del pianeta, gli eredi dei partiti che settant’anni fa si opposero vittoriosamente al nazifascismo appaiono non solo impotenti, ma ottusi. Si baloccano con i numeri freddi dell’economia, parlano di crescita e di riforme, ma continuano a ignorare l’urlo di dolore che sale dai tinelli della piccola borghesia che giorno dopo giorno si vede trascinare in basso nella scala sociale. Operai, insegnanti e impiegati che non riescono più a mandare i figli all’università. Che vedono il lavoro andare all’estero e poi ritornare con stipendi da fame. Che vivono in quartieri periferici dove non si sentono più a casa propria per la presenza sproporzionata di extracomunitari. A queste persone interessa poco che i migranti portino un punto e mezzo di Pil in più l’anno, perché non ne vedono le ricadute nella loro vita quotidiana. Sono offese, rabbiose, sgomente, spaventate. E da sempre la paura porta con sé la richiesta dell’uomo forte in grado di trovare soluzioni facili a problemi complessi.
Si tratta ovviamente di un’illusione, perché il mondo è complicatissimo e il cambiamento non si può fermare. Però lo si potrebbe ancora governare. Se le classi dirigenti si rendessero finalmente conto che tra un’azienda di alta tecnologia e una mensa di poveri - l’alfa e l’omega della globalizzazione - esiste la sterminata terra di mezzo di quei cittadini che, sentendosi ignorati dalla politica, cominciano a pensare di potere fare a meno della democrazia.

Corriere 3.6.16
L’ascensore sociale si è fermato
di Dario Di Vico

L’ascensore sociale è fermo. Non sale più. Anche perché sono diminuiti i piani alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuato da tempo come una delle principali manifestazioni della disuguaglianza italiana ed è anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazionale.
L’ ascensore sociale non sale più anche perché sono diminuiti i piani alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuato da tempo come una delle principali manifestazioni della disuguaglianza italiana ed è anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazionale. Gli studiosi concordano che la causa prima dell’ascensore bloccato risieda nella malattia della bassa crescita che affligge da circa un ventennio l’economia italiana. L’ultimo rapporto Istat ci ha dato anche qualche elemento in più sottolineando lo stretto legame che intercorre tra mancata mobilità e disuguaglianza perché un’economia stagnante tende a perpetuare le condizioni acquisite e quindi esalta il peso di quella che viene chiamata «ereditarietà economica». La famiglia nella quale si nasce condiziona fortemente il successivo ciclo di studi e di lavoro e causa la «trasmissione intergenerazionale delle condizioni economiche» e l’Italia risulta tra i Paesi Ue più conservatori. La rendita di posizione dei cittadini con status sociale di partenza elevato (genitore laureato e manager, casa di proprietà) rispetto a quelli con status di partenza basso (casa in affitto e genitori con bassa istruzione) è più ridotta in Francia (37%) e in Danimarca (39%) mentre è molto forte nel Regno Unito (79%), Italia (63%) e Spagna (51%). E dove la rendita è più alta il merito conta meno.
Se questo, con gli ultimi aggiornamenti, è il quadro delle cose che sappiamo in materia di mobilità sociale i lavori di Antonio Schizzerotto, docente all’Università di Trento, ci permettono di andare oltre. Sostiene il sociologo che nel nostro Paese nei primi 60 anni del Novecento le dimensioni della classe superiore — imprenditori, liberi professionisti, dirigenti e occupazioni intellettuali svolte alle dipendenze di terzi — sono rimaste molto contenute. Successivamente e per altri 40 anni invece si sono espanse a ritmi sostenuti. È solo nell’ultimo decennio che questa crescita si è arrestata ed è iniziata una discesa. L’ascensore non può arrivare ai piani alti perché ce ne sono pochi o comunque meno rispetto alle aspettative dei potenziali passeggeri. Il risultato è che la mobilità ascendente dei nati tra il 1970 e il 1985 è stata di cinque punti più bassa rispetto ai loro fratelli maggiori nati tra il 1954 e il ’69 e la mobilità discendente è cresciuta di 7 punti. Per arrivare a questi numeri gli studiosi lavorano a lungo su un’ampia serie di indagini campionarie e di conseguenza registrano spostamenti di lungo periodo, ma se potessimo immettere in questo schema i millennials è molto probabile che la forbice si allargherebbe ancora di più. Le cause storiche della carenza di piani alti risalgono ad alcune peculiarità della nostra economia che pur avendo vissuto «un incisivo e lungo processo di industrializzazione» non è riuscito a dar vita a un numero sufficienti di medie e grandi imprese e ha vissuto una «terziarizzazione si è concentrata su settori marginali e poco innovativi». Il risultato è quello che Schizzerotto definisce «un fenomeno di saturazione» dei posti disponibili nelle classi superiori e la riduzione delle chance di mobilità viene pagata interamente dalle nuove generazioni. Non solo dai figli di operai ma anche dalla prole degli imprenditori, dei liberi professionisti, dei dirigenti e dei colletti bianchi. Anche costoro oggi per rimanere nelle classi di origine fanno più fatica dei fratelli maggiori e dei padri quando anche loro avevano un’età compresa tra i 20-35 anni. Stiamo rischiando di entrare in un regime di mobilità discendente: l’ascensore scende invece di salire e a segnalare il danno sono soprattutto i figli degli impiegati direttivi e di concetto che, oltre a pagare il blocco, devono sopportare i costi derivanti dal venir meno delle protezioni dai pericoli di discesa sociale.
Se mettiamo sotto osservazione il sistema delle imprese, per capire a monte i fenomeni fin qui descritti, viene fuori che il primo fattore negativo risiede nella struttura delle piccole imprese focalizzate attorno alla figura del proprietario, senza un’adeguata articolazione dirigenziale e delle competenze. Sono poche le Pmi che hanno almeno un dirigente. Il secondo fattore rimanda alle dinamiche della globalizzazione e al fenomeno delle concentrazioni societarie. Spiega Stefano Scabbio, amministratore delegato di Manpower: «Le fusioni che riguardano compagnie operanti nello stesso business comportano una riduzione da 4 a 1 delle posizioni per top e middle manager. Basta pensare al settore bancario per averne una conferma immediata. In Europa le cose vanno così e sono i processi di consolidamento a fare da padroni, in altre aree accanto alle concentrazioni si sviluppano anche nuove opportunità e business che non conoscevamo». Aggiunge Max Fiani, partner di Kpmg, società che monitora il mercato delle acquisizioni: «Le aree professionali nelle quali si taglia sono finanza, amministrazione e controllo, si salvano il commerciale e la logistica. Ci sono stati anche di recente casi nell’industria del cemento e negli elettrodomestici che hanno portato a razionalizzare siti produttivi e headquarter». E le riduzioni di posizioni pregiate è stimato tra il 20 e il 30%. C’è poi da tener presente che in caso di shopping di nostre imprese da parte di multinazionali c’è il rischio di spostamenti del quartier generale fuori dall’Italia e in questi casi è chiaro — fa notare Fiani — che avere lo stesso passaporto dell’azionista dà maggiori chance di conservare il posto. Gli effetti di queste operazioni interessano a catena anche la filiera di fornitura dei servizi professionali che si accentra sulla casa madre. Tutti questi movimenti vanno nella stessa direzione perché fanno diminuire le posizioni alte a disposizione dei giovani manager italiani.
Per completare il quadro occorre tenere presente che gli anni della Grande Crisi sono stati anche anni di profonde ristrutturazioni che hanno reso le organizzazioni aziendali più piatte. Dal 2008 a fine 2014, secondo dati diffusi da Manageritalia, i dirigenti del settore privato italiano sono diminuiti del 5% a fronte però di un aumento consistente del numero dei quadri, incremento che almeno in parte copre un trend di mobilità discendente. Commenta l’economista industriale Enzo Rullani: «Ci mancano le piramidi, abbiamo tante unità di base e poco ceto medio dirigenziale. O diventi imprenditore o hai poche chance di promozione perché resti escluso da macchine organizzative rigide». Ma tutto ciò avviene secondo Rullani nel lavoro esecutivo non in quello «generativo» reso possibile dall’Internet 4.0. «Può partire una nuova mobilità sociale che non si basa più sulla cooptazione dall’alto ma sullo spirito di intraprendenza. Le organizzazioni avranno crescente bisogno di persone che sappiano risolvere i problemi e siano disposte a investire su di sé e a incorporare il rischio del fallimento». Da qui può ripartire la meritocrazia, si tratta di vedere però quanti posti sarà capace di mettere in palio.
(3 - segue)

il manifesto 3.6.16
Referendum sociali a quota 300 mila firme: «In giugno raccolta straordinaria»
I banchetti. Il Comitato promotore lancia una mobilitazione per ottenere le altre 200 mila sottoscrizioni necessarie: i quesiti vertono su scuola, inceneritori, trivelle e servizi pubblici. In campo anche la Flc Cgil

I referendum «sociali» hanno già totalizzato 300 mila firme: lo ha comunicato ieri il Comitato promotore, che ha lanciato contemporaneamente una mobilitazione straordinaria di raccolta in giugno. «Ne servono altre 200 mila», spiegano il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, il Movimento per la scuola pubblica e la Campagna «Stop devastazioni» per i diritti ambientali e sociali. «Con quel risultato la primavera prossima potremo andare al voto».
«La mobilitazione per abrogare gli aspetti peggiori della legge 107 (la cattiva scuola di Renzi) per bloccare il piano nazionale che prevede la costruzione di altri 15 inceneritori sul suolo italiano, per evitare la concessione di nuove trivellazioni in mare o in terra e per raccogliere centinaia di migliaia di firme contrarie alla direttiva della ministra Marianna Madia volta a privatizzare i servizi pubblici – spiegano gli organizzatori entrando nel dettaglio dei quesiti – ha già ricevuto un’ottima risposta dagli italiani e dalle italiane. Fra i molti – aggiungono – ringraziamo Luciano Canfora, che ha firmato per i referendum sociali al Salone del libro di Torino, e don Luigi Ciotti, che lo ha fatto a Villafranca Tirrena. I loro e gli altri 300 mila nomi sui nostri moduli ci danno la spinta per affrontare quest’ultimo mese di raccolta firme, fiduciosi di uscirne vittoriosi».
Ecco alcuni luoghi dove si potrà firmare grazie a iniziative speciali, ricordando che i banchetti sono già presenti in tutta Italia e che i moduli si possono trovare con certezza in tutti i municipi: a Roma oggi e domani un banchetto sarà ospitato anche da Repubblica delle Idee, l’evento organizzato dal quotidiano presso il MAXXI. Ci sono poi il mercato dei produttori locali di Fano, i mercati rionali di Bologna e le scuole di tutta Italia. «Il 12 e 13 giugno cadrà anche il quinto anniversario del referendum sull’acqua pubblica, il cui esito vittorioso è sempre più lontano dall’essere rispettato – ricorda il Comitato – Noi invece non lo dimentichiamo e ne rafforzeremo il messaggio con una serie di iniziative per raccogliere le firme, come un dibattito pubblico a Ferrara la sera del 10 giugno».
Impegnata nella raccolta firme è anche la Cgil, e in special modo la Flc, che ha aderito in particolare ai quattro quesiti sulla scuola (si aggiungono a quelli promossi dalla stessa Cgil su licenziamenti, appalti e voucher): il segretario generale Domenico Pantaleo ieri ha invitato tutti i cittadini all’iniziativa «100 piazze per quattro firme», messa in piedi in occasione della Festa della Repubblica. I quattro quesiti, ricorda la Flc Cgil, sono relativi «al potere discrezionale dei dirigenti scolastici per la chiamata diretta e per l’attribuzione unilaterale di quote di salario ai docenti, al cosiddetto bonus scuola per le private (in palese contraddizione con la Costituzione) e all’obbligatorietà delle ore minime di alternanza scuola-lavoro».

La Stampa 3.6.16
Referendum, la corsa di Renzi per battere il giudizio sull’Italicum
Il premier vorrebbe votare il 2 ottobre prima della sentenza della Corte
di Fabio Martini

È partito con un anticipo inaudito, ma ora Matteo Renzi ha fretta. In vista del referendum istituzionale che si terrà in autunno, il presidente del Consiglio ha lanciato la campagna elettorale più lunga della storia della Repubblica, partendo con sei mesi di anticipo e martellando quotidianamente sul tema. Ma al tempo stesso Renzi punta a celebrare il referendum il prima possibile: «Spero si voti il 2 ottobre», ha detto l’altra sera, partecipando all’ultima puntata di «Virus», il talk show di Raidue, che è anche la prima trasmissione cancellata, dalla dirigenza renziana della Rai. dal palinsesto del prossimo anno.
Non è la prima volta che Renzi allude al 2 ottobre, ma stavolta ha accompagnato l’indicazione di quella data con un auspicio. Renzi spera vivamente che si voti nella prima domenica di ottobre, anziché il 16, o il 23, come pure era stato fatto trapelare. A palazzo Chigi puntano decisamente sul 2 ottobre, una data che consentirebbe al governo di celebrare il referendum prima di due appuntamenti ritenuti influenti: il 4 ottobre si riunirà la Corte Costituzionale per l’esame di costituzionalità di alcune parti della nuova legge elettorale, mentre entro il 15 ottobre il governo è tenuto a presentare in Parlamento il disegno di legge di Stabilità, passaggio proverbialmente critico per tutti i governi.
Nel caso della Consulta non è detto che le decisioni che verranno assunte, nella seduta convocata a partire dal 4 ottobre, debbano necessariamente «macchiare» la campagna referendaria del governo, ma la possibilità esiste. La prima decisione dei giudici della Corte riguarderà l’ammissibilità o meno del ricorso, a suo tempo presentato da Felice Besostri, già protagonista della battaglia contro il Porcellum, poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Dei 13 motivi di incostituzionalità proposti, sei sono stati fatti propri dal giudice nell’ordinanza di rimessione, ma ancor prima del merito, la Corte dovrà dirimere una questione preliminare: i ricorsi infatti sono stati presentati prima della data di applicazione dell’Italicum, il primo luglio 2016, e dunque la Consulta dovrà pronunciarsi anzitutto sulla ammissibilità del ricorso, se esista o meno un difetto di rilevanza. Certo, se la questione fosse superata e la Corte dovesse poi definire alcuni profili di incostituzionalità dell’Italicum, la data di celebrazione del referendum avrebbe una sua rilevanza. Una pur parziale bocciatura della Consulta di una delle leggi «renziane» pochi giorni prima della consultazione referendaria, potrebbe avrebbe effetti di immagine sulla campagna elettorale del «sì». E oltretutto, per quanto Renzi abbia dimostrato qualità speciali nel confezionare leggi di Stabilità indolori, a palazzo Chigi si preferisce evitare una eccessiva prossimità del voto referendario con la presentazione della Finanziaria.
Dunque, mission 2 ottobre. Ma per votare in quella domenica, bisognerà fare le corse, mettendo sotto stress tutto «l’indotto» istituzionale. Entro il 15 luglio dovranno essere formalizzate le richieste di referendum sulla riforma costituzionale. A questo punto entrerà in gioco la corte di Cassazione chiamata a valutare il soddisfacimento formale dei requisiti e decidere l’ammissibilità. L’ufficio centrale per il referendum dell’organo giurisdizionale ha un mese di tempo per esprimersi e potrebbe consumarlo tutto, considerando la quantità delle richieste e l’obbligo di verificare ogni singola firma.
Ma se la Cassazione si dovesse prendere tutto il mese concesso dalla legge, il timing auspicato dal governo potrebbe saltare. Se la Cassazione trasmetterà il suo via libera a metà agosto, a quel punto il consiglio dei ministri sarà chiamato a proporre una data per la celebrazione del referendum nei successivi 50-70 giorni. Con questa tabella di marcia si rischierebbe di by-passare il 2 ottobre: ecco perché si può immaginare che venga esercitata dal governo una informalissima moral suasion sulla Cassazione, affinché assolva il suo compito nel minor tempo possibile.

Il Fatto 3.6.16
Renzi conferma Il Fatto:
“Spero si voti il 2 ottobre” Prima della Consulta
di Ma. Pa.
qui
https://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_p3_aa47329097d997

il manifesto 3.6.16
Quelli del No sulla riva dell’Arno
Firenze. «Il futuro della Repubblica, 70 anni di vita civile». In un cinema strapieno, gli avversari della riforma costituzionale mettono in tavola gli argomenti per contrastare nel merito il progetto del governo. L’iniziativa sotto le insegne di Libertà e Giustizia organizzata da Sandra Bonsanti che l’ha condotta assieme alla direttrice del manifesto
di Riccardo Chiari

«Noi oggi siamo qua per dire che non resteremo in silenzio. Evviva la Repubblica, evviva la Costituzione così com’è». Tomaso Montanari, storico di un’arte da difendere contro l’asservimento al «mercato», parla in un cinema Odeon strapieno. Tocca a lui, partigiano civile di una Repubblica nata dalla Resistenza al nazifascismo, dare il via a una festa che Sandra Bonsanti (e Maria Rosaria Bortolan) hanno organizzato con cura certosina. Un appuntamento «di alto valore simbolico», ricorda Bonsanti, fondatrice di Libertà e Giustizia, che con Norma Rangeri tiene le fila della discussione.
Anche di alto valore pratico: all’ingresso della splendida sala nel palazzo dello Strozzino c’è la fila per firmare i referendum. Tutti, da quello costituzionale a quello sulla legge elettorale, e poi quelli su jobs act, «buona scuola», privatizzazione dei servizi pubblici. Un gruppo di volontarie si sacrifica: per loro «Il futuro della Repubblica. 70 anni di vita civile» resta un’eco indistinta di interventi. E di applausi, fortissimi quando Carlo Smuraglia, Gustavo Zagrebelsky, Maurizio Landini, Marco Travaglio e altri ancora demoliscono la narrazione farlocca, cialtrona – e pericolosa – che gli attuali governanti stanno ammannendo a reti unificate. A un popolo più stanco, e impoverito, che distratto.
«Anche noi abbiamo diritto di parola», ricorda Bonsanti a una platea dove si affacciano anche i giovani, stipati nel loggione e pronti ad appuntarsi le parole di un energico sempreverde di 92 anni, Carlo Smuraglia: «In quel 1946 quasi potevamo toccare il sogno che in Italia nascesse una vera democrazia – ricorda il presidente dell’Anpi – grazie al voto alle donne, alla nascita della Repubblica, all’Assemblea Costituente. Il paese si emancipava». Cosa è rimasto di quel sogno? «Non si è compiutamente realizzato. Così oggi, mentre festeggiamo l’anniversario del voto alle donne, scopriamo con sgomento che ne hanno appena bruciate due».
Ma Smuraglia e i partigiani, come sempre, non si arrendono: «Come possono chiamarla democrazia, quando aumentano da 50 a 150mila le firme per le leggi di iniziativa popolare? E poi si fa una legge elettorale che nel nome della cosiddetta “governabilità”, una balla che ci propinano ogni giorno, fa rimpiangere perfino la legge Acerbo, la “legge truffa”. Ma democrazia è governo di molti, non di pochi. E quando si può vincere, come oggi con il referendum, la regola è che si deve vincere».
Il boato di applausi che saluta Smuraglia accompagna anche l’intervento di Gustavo Zagrebelsky, di cui andrebbe studiato il dialogo con Luciano Canfora sulla «Maschera democratica dell’oligarchia». Il costituzionalista chiede che si faccia ricorso alla ragione: «Vorremmo un dibattito, perché non siamo dei fanatici, non siamo dei dogmatici. Ma, come alla scuola elementare, vorrei chiedere: “Signora ministro, potrebbe spiegarci, con le sue parole, cosa c’è nella legge costituzionale?”».
Al di là del rischio, Zagrebelsky guarda all’opportunità del referendum: “Quello che può accadere potrebbe essere una grandissima occasione per il popolo italiano. Per rivitalizzare la nostra democrazia”. Che non se la passa certo bene: “Guardiamo all’articolo uno della Costituzione, dove, senza pause, è scritto ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’. Dunque non ci può essere un’Italia senza lavoro, senza democrazia, senza Repubblica. Il lavoro deve essere un motivo di emancipazione, i diritti non sono doni ricevuti con il beneplacito del potere, e la Repubblica deve essere fondata non sulla finanza ma sul lavoro”.
Infine Zagrebelsky ricorda le parola di Vittorio Foa: «I veri beni repubblicani spesso sono immateriali, come la scuola, la salute, o i beni comuni». Tutti a rischio oggi, chiosa il costituzionalista, che offre un assist alla direttrice del manifesto quando segnala come, per gli anziani meno abbienti, oggi sia venuta meno anche la possibilità di avere una dentiera. «E sì che ne abbiamo tutti bisogno – annota Rangeri – oggi la Costituzione va difesa anche con i denti».
Applausi, che diventano un’ovazione quando interviene Maurizio Landini: «Per tutte le leggi approvate in questi anni – ricorda il segretario della Fiom Cgil – non è stato chiesto a nessuno cosa ne pensasse. Questo potrebbe essere l’anno in cui ci riprendiamo la parola che ci hanno tolto. Perché l’attacco ai diritti del lavoro e non solo va avanti da tempo. Dalla lettera della Bce dell’agosto 2011, applicata da Monti, da Letta, da Renzi».
A quest’ultimo Landini riserva un cammeo: «Si approva il jobs act, e poi il genio di Firenze lo definisce come “la cosa più di sinistra che ha fatto il governo”. Quando invece offre ai peggiori imprenditori, perché ce ne sono anche di bravi, la possibilità di licenziare chi vogliono. I lavoratori “scomodi” per primi». Quanta differenza con lo Statuto dei lavoratori, «che salvaguardava dai licenziamenti arbitrari, ed è stato approvato con l’astensione del Pci e il voto favorevole di Dc, Psi, Pli e Pri, in un parlamento eletto dal 95% degli aventi diritto». Non come oggi, dove domina l’astensione: «Quella delle persone più povere, che stanno peggio, che non vedono più nessuno che possa rappresentarle». Ma c’è ancora una speranza: «Votare No oggi è l’unica condizione per poter dire “sì” domani al cambiamento, vero, del paese».

Il Fatto 3.6.16
Partigiani, giuristi e studenti: il No “occupa” casa Renzi
A Firenze il comitato contro la riforma ha festeggiato il settantesimo della Repubblica: “Giù le mani dalla Carta”
Gustavo Zagrebelsky: «Il vero oggetto del referendum non è la Costituzione, ma la vittoria politica. Chi vincerà resterà al potere per decenni. Questo deve farci paura»
di Ferruccio Sansa
qui
https://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_p3_aa47329097d997

il manifesto 3.6.16
Tortorella: «Riforme, il sì dei falsi realisti»
Referendum costituzionale. Parla l’ex pci Aldo Tortorella: sbaglia chi dice che bisogna votare turandosi il naso, il premier rottamatore ora cerca di legittimarsi arruolando Berlinguer e Ingrao, ma le loro idee erano incompatibili con una legge ipermaggioritaria
Aldo Tortorella, già deputato, direttore dell'Unità e dirigente del Pci
intervista di Daniela Preziosi

L’arruolamento postumo di grandi uomini del Pci, da Ingrao a Berlinguer, e di grandi donne, come Nilde Iotti, alla battaglia per il sì al referendum costituzionale, ante litteram s’intende visto che si tratta di persone ormai scomparse, non stupisce Aldo Tortorella, a sua volta uno dei comunisti che hanno fatto la storia di questo paese.
Da ragazzo era «il partigiano Alessio», poi fu direttore dell’Unità di Genova, di Milano e di Roma, di lì una lunga storia di dirigente del Pci, nella segreteria di Berlinguer cui resta vicino fino all’ultimo, poi a lungo deputato, contrario alla svolta di Occhetto ma nel «gorgo» del Pds nell’area dei comunisti democratici, e nei Ds fino alla guerra con la Serbia. Poi ha fondato, con altri, l’Associazione per il rinnovamento della sinistra e dirige la nuova serie di Critica Marxista, rivista che vuole «ripensare e rinnovare la sinistra».
Dell’uso dei grandi del Pci da parte del premier rottamatore, dicevamo, Tortorella non è stupito. «È significativo che per giustificare la propria condotta si ricorra a un patrimonio ideale da parte di chi lo ha voluto seppellire come cosa morta. Segno che quel patrimonio è ben radicato nella coscienza di molti. Arruolare Berlinguer e Ingrao per questa riforma, che si deve leggere sempre insieme con la nuova legge elettorale, è grottesco prima che rozzo».
Erano monocameralisti, dicono i renziani. Non è così?
Ma per Berlinguer r Ingrao il monocameralismo e la riduzione dei parlamentari si collegavano al sistema proporzionale, lo stesso per cui è pensata la Carta. E invece il giovane presidente ha fermamente voluto una legge elettorale ipermaggioritaria, l’Italicum. Del tutto incompatibile con la visione di Berlinguer e di Ingrao. E con la Carta.
Perché il premier rottamatore e svoltista oggi ricorre ai classici del comunismo, e a qualche partigiano «vero» secondo la lettura del governo, per legittimarsi?
Perché sente che una parte del paese, della sinistra, e del suo stesso partito non lo segue. Parecchi dei protagonisti di quella storia antica sono viventi, e alcuni sono vicini al Pd o iscritti al Pd, nella parte che si dichiara un po’ più di sinistra. I più anziani sono di cultura togliattiana, come Reichlin, i più giovani berlingueriana, come Cuperlo.
Ma fra gli ex Pci c’è anche il presidente Napolitano che ha messo a disposizione del sì la sua autorevolezza. Anzi: è stato il tutore delle riforme di Renzi.
Il Pci non fu mai un monolite come spesso si pensa. Napolitano ebbe una sua posizione non certo coincidente con quella di Berlinguer e meno che mai con quella di Ingrao. La sua posizione certamente si è affermata. I risultati sono quelli che si vedono. Quanta parte dell’attuale corso istituzionale, che oggi in quanto politico sostiene, corrisponda ai suoi propositi non saprei dire. Toccherebbe a lui dirlo. Massimo Cacciari che ci ha spiegato in sostanza che la riforma è assai malfatta ma bisogna votarla, forse turandosi il naso. Perché è un inizio. Di cosa? Di una democrazia decidente. Lo spettro è quello della Repubblica Weimar. Certo che la democrazia deve essere capace di decidere, questa preoccupazione l’avevano anche Ingrao e Berlinguer, ma c’è modo e modo. La democrazia tedesca fu distrutta dai nazisti usando una norma votata a Weimar che sospendeva la Costituzione in caso di stato di eccezione e dava pieni poteri al governo. Nuove norme costituzionali o si fanno bene o si corrono rischi.
L’argomento di fondo sembra sia la convinzione che la politica viene prima di tutto. Anche prima della Costituzione.
Quando ci fu la crisi della Prima Repubblica le interpretazioni erano due: la prima, che fosse colpa di una democrazia dimezzata, di qui l’idea di Berlinguer e di Moro di completarla rimuovendo la conventio ad excludendum dei comunisti; l’altra, secondo cui era colpa della Costituzione. E quest’ultima idea risale a molto indietro. La sancisce Cossiga, che come presidente avrebbe dovuto difendere la Costituzione, quando nel ’91 in un messaggio alle Camere dice che la Carta è sbagliata perché frutto di un compromesso con un partito antisistema, il Pci. Ma l’argomento è ancora più antico, risale a Scelba quando nel ’50 dice che «la Costituzione non può diventare una trappola», ha troppe garanzie. Ed è logico che ve ne fossero: perché nasceva in un momento storico in cui era fresca la memoria della tirannide e ciascuna parte temeva l’altra ed entrambe si garantivano. Da qui anche la posizione dell’Anpi: le garanzie andavano rafforzate, non indebolite proprio oggi, di fronte a questo assalto delle forze xenofobe, razziste e autoritarie che riguarda non solo l’Italia, ma l’Europa. L’Ungheria e la Polonia non sono lontane. E l’Austria è al confine.
Dunque i fan del sì si riferiscono a Scelba quando dicono che questa riforma è attesa da decenni?
C’è chi aspetta una riforma in senso autoritario da sempre. E non solo i conservatori e i reazionari. Per Edgardo Sogno, un uomo della Resistenza di parte diversa dalla nostra, serviva un colpo di stato per cambiare la Costituzione.
E in questa vicenda Renzi che ruolo ha?
Nella satira dei tempi antichi c’era la figura del politico burattino e del suo burattinaio. Ma non è così, il nostro presidente ci mette del suo. Ha un eloquio fluente, sa usare le slide e i tweet. È un convinto propagandista di una posizione politica che viene da lontano, dalla Trilaterale, e recita così: nelle Costituzioni dei paesi dove ci sono stati movimenti di ispirazione socialista c’è un eccesso di democrazia e di potere legislativo rispetto all’esecutivo. Il documento della JP Morgan del 2013 lo dice apertamente: sbarazzatevi delle Costituzioni antifasciste.
Renzi ha anche un altro ruolo storico: chiudere la stagione, certo tormentata, del centrosinistra attraverso l’Italicum. Una legge elettorale molto maggioritaria i cui frutti non è neanche certo che li raccolga lui e il suo Pd.
Infatti, il sistema delle garanzie doveva essere rafforzato proprio per il rischio della vittoria di una destra restauratrice e reazionaria. Non credo che dipenda dalla mia tarda età il ritenere che questo pericolo venga sottovalutato. Anche per questo non voglio dare per chiuso il rapporto fra le sinistre. Nel Pd c’è ancora una parte che si ispira a sentimenti e idee di sinistra. Certo, la sua capacità di incidere è modesta, la sua voce è tenue, la sua tenuta è fragile, ma non andrebbe isolata. So bene che l’idea di uno schieramento ampio di sinistra è indispensabile e insieme molto difficile. Servirebbe una sinistra, ma bisogna prima intendersi su cosa si possa essere oggi una sinistra. Nel secolo passato di sinistre ce n’erano due. Una era quella della proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, praticamente fallita nella sua esperienza sovietica. La variante era il Pci con la sua politica riformatrice, in sé ardua, e impossibile in un paese solo e marginale. Poi c’era la sinistra dello stato sociale, la socialdemocrazia. In crisi profonda perché contraddittoria nelle sue premesse. Lo stato sociale è indissolubilmente legato al ciclo economico. Quando viene la crisi ciò che sembrava costruito, frana. Hollande ora è al disastro. Schroeder fece qualcosa di simile alla Thatcher.
Renzi si sente l’erede dei riformisti e socialdemocratici.
Forse lo è, ma dei socialdemocratici di destra, quelli di Blair che è un fallito. Egli, non da solo, professa una sorta di liberismo di stato in cui si privatizzano i profitti e si pubblicizzano le perdite. Lo stato diviene una funzione del mercato o, meglio, del capitale finanziario. In ogni caso la difesa dello stato sociale non basta. L’intuizione antica secondo la quale bisognava chiedersi a quale fine e come produrre e consumare torna di piena attualità. Un nuovo pensiero critico viene nascendo in tante esperienze e riflessioni. Bisognerebbe tendere a dare una qualche elaborazione unitaria a questo pensiero. La sconfitta fu culturale e antropologica e non c’è tattica di potere che la risolva. Servirebbe abbandonare la caricatura dello storicismo in base a cui chi vince a ragione. E bisognerebbe farla finita con il volontarismo di chi pensa di poter piegare il mondo a piacimento. Il pensiero critico non vale se non dà vita a un nuovo realismo, dopo il fallimento di quelli che anche nel Pci hanno scambiato per realismo l’accondiscendenza al mondo così com’è.

il manifesto 3.6.16
Cassa di risonanza
Comitato del No al referendum costituzionale

Grandi mezzi ma poche idee, si direbbe. Dopo aver deciso di raccogliere le firme (essenzialmente per rubare la scena ai comitati del No), Matteo Renzi ha lanciato l’appello dei 250 per il Sì sulla scia di quello promosso dal Comitato per il No, che numerose personalità della cultura, dell’università e dello spettacolo hanno firmato già a marzo e che quasi 200mila cittadini hanno sottoscritto e continuano a sottoscrivere su change.org (al quale si è poi affiancato il documento promosso da 56 costituzionalisti, in pratica quasi tutti i maggiori studiosi ed esperti della materia).
La differenza? A parte tutto il resto, non ci sembra di ricordare che il quotidiano La Repubblica abbia dato all’appello promosso dal Comitato del No lo stesso spazio e la stessa risonanza di cui può godere, invece, l’appello degli «scienziati» di Renzi.
Per fortuna che c’è la raccolta delle firme, che costituisce un momento straordinario per contattare le persone e informarle.
Momento che conoscerà uno slancio particolare nel weekend dell’11-12 giugno con un firma day straordinario promosso con Anpi e Arci e durante il quale saranno organizzati incontri, dibattiti, letture e happening musicali in tutta Italia.
Ma intanto questo weekend si vota per le amministrative e ai candidati consiglieri e sindaci il Comitato referendario ha chiesto di esprimersi sulla riforma e in diversi lo hanno già fatto.
Come Sara Visintin, candidata sindaco (Rimini in Comune – Diritti a Sinistra): «Ho letto la vostra lettera e la condivido in ogni suo punto. Provengo da una precedente esperienza amministrativa in maggioranza con il Pd. Mi sono dimessa un anno fa in contrasto con la scelta fatta dal Pd e dal resto della giunta di affidare la gestione del servizio idrico integrato al privato, disattendendo la volontà popolare espressa nel referendum del 12 e 13 giugno 2011».
O come Maria Cristina Ariano, candidata nel Municipio VII di Roma Capitale, con il Movimento 5 Stelle: «Vi ringrazio per il lavoro che state facendo: il grande valore che risiede nella Carta Costituzionale italiana non può essere ridotto né stravolto al fine di prestare il fianco a futuri e sinistri scenari».
Per il No si sono schierati anche:
Antonio Di Luca (Napoli); Antonio Perillo (Napoli); Chiara Guida (Napoli); Daniela Pongiglione (candidata sindaco a Savona); Daniele Maffione (Napoli); Elena Coccia (Napoli); Federico Mantille (Napoli); Ferruccio Diozzi (Napoli); Marco Esposito (Napoli); Maria Teresa Iervolino (Napoli); Salvatore Galiero (Napoli);Alberto Rossi (candidato sindaco Busto Arsizio); Cinzia Cappelletti (Roma I municipio).
Iniziative e banchetti
Padova: domenica banchetti 10-13 e 16-20 Piazza delle Erbe e Piazza dei Signori.
Gavorrano: venerdì 10, ore 21, pista polivalente del parco pubblico (Bagno) incontro pubblico con Pancho Pardi.
Monaco di Baviera: giovedì 9, dalle 9 alle 12, si può firmare presso il consolato, via Moehlstrasse 3.
Suvereto (Li): oggi ore 21.00, Sala Bassa del Ghibellino, dibattico con Donatella Loprieno, Giuliano Parodi, sindaco di Suvereto, Rossano Pazzagli.
Lucca: domani ore 17.30, Palazzo Ducale incontro con Nadia Urbinati.
Quarrata (PT): 9 giugno,, ore 21.00, incontro pubblico con Fabrizio Amato (magistrato) e Francesco Baicchi.
Battipaglia: sabato 11, ore 17,30, in Piazza della Cultura e Cittadinanza Attiva, incontro pubblico con Gaetano Azzariti.
Palermo: giovedì 9, ore 10,30, presso l’Aula Magna della facoltà di Lettere e filosofia dell’università (Viale delle Scienze), dibattito pubblico con Alessandro Pace e raccolta firme.
L’elenco completo su iovotono.it e referendumitalicum.it

Corriere 3.6.16
Boldrini: sul referendum no agli scontri di parte
intervista di Monica Guerzoni

La presidente della Camera Laura Boldrini al Corriere : il referendum costituzionale di ottobre non è sul governo, no a scontri di parte.
ROMA Novecento ragazzi nell’aula di Montecitorio, tra studenti, scout e volontari del servizio civile. E quando la cerimonia del 2 Giugno finisce parte l’assalto dei giovani per scattarsi un selfie con Laura Boldrini. La chiamano per nome, le chiedono di voltarsi o di sorridere, neanche fosse un’attrice sul tappeto rosso della Croisette di Cannes e non la terza carica dello Stato. Una piccola prova di resistenza per la presidente della Camera, che riemerge dall’onda provata, ma contenta per come è andata: «C’è una Italia positiva, costruttiva, che è migliore di quanto noi a volte avvertiamo, perché non fa notizia. Sono assolutamente d’accordo con il presidente Sergio Mattarella».
I ragazzi hanno ricevuto una copia della Costituzione, lei pensa che sia ancora la «più bella del mondo»?
«Questi ragazzi hanno lavorato sulla Costituzione, sono modelli davvero positivi. Dedicano ore del proprio tempo a chi ne ha bisogno, si occupano di ambiente, del sociale e vanno valorizzati per questo. Da due anni apro Montecitorio il 2 giugno per dare un riconoscimento a tutti coloro che decidono di occuparsi del Paese e a loro dico, “anche voi siete la Repubblica, voi traducete i valori della nostra Carta in azioni concrete”».
I 70 anni del voto alle donne sono stati celebrati con grande commozione. Eppure l’astensione dalle urne è al massimo storico.
«Al 1946 siamo arrivate non per gentile concessione, ma grazie a tante donne straordinarie che hanno combattuto con perseveranza per quel risultato. E anche grazie a uomini come il deputato mazziniano Salvatore Morelli, che nel 1867 presentò una proposta di legge contro la schiavitù domestica, il divorzio e per il voto alle donne. Quasi gli farei fare un busto, qui alla Camera».
Un busto per Morelli?
«È lui il mio eroe maschile. Per le sue idee si condannò al pubblico ludibrio. Nei resoconti parlamentari dei suoi interventi in Aula si legge “ilarità, risatine, sommovimenti”. La satira lo ritraeva vestito da donna... Un uomo molto avanti e dalla parte delle donne. Ne abbiamo bisogno anche oggi, di uomini così. Ecco, vorrei mandare un messaggio forte e chiaro agli uomini».
Si riferisce all’omicidio di Sara, ai tragici, ultimi femminicidi?
«Sì, mi riferisco a questo. Agli uomini che, come noi, sono inorriditi, voglio chiedere di non lasciarci sole in questa battaglia di civiltà. Ai violenti voglio dire rassegnatevi, fatevene una ragione, perché noi donne e le nostre ragazze non rinunceremo mai ai nostri diritti, mai limiteremo la nostra libertà. Nulla, nemmeno i metodi violenti, ci faranno tornare indietro».
Non crede che anche la politica usi a volte toni troppo accesi?
«Bisognerebbe abbassare i toni del dibattito pubblico. C’è chi usa un modo aggressivo e sprezzante di esprimersi, specialmente verso le donne, pensando sempre di delegittimarle. E questo ha un peso. Chi ha responsabilità politiche dovrebbe stare attento due volte, sennò rischia di innescare un sistema di emulazione. Anche la pubblicità e la tv dovrebbero evitare di esporre la donna rendendola oggetto. E bisognerebbe cambiare il modo di parlare alle donne e di guardarle. Evitando, quando non si è d’accordo, di rivolgersi a loro con epiteti sessuali».
Lei sprona gli italiani a votare. Vale anche per le amministrative, visto che il governo sembra puntare molto più sul referendum?
«Sì, per me è un valore sempre. Io l’ho detto in occasione del referendum sulle trivelle, lo dico adesso per le amministrative e lo dirò per la riforma costituzionale. Non cambio idea a seconda dell’appuntamento».
L’astensione è al massimo storico...
«La democrazia non si alimenta da sola, se la lasciamo andare cade, come quando si va in bicicletta. Bisogna pedalare per rimanere in sella. Il voto è un diritto e anche un dovere. Non è un dono, è una conquista. Tanti si sono sacrificati per questo, sono morti o hanno dato gli anni migliori della giovinezza. Anche chi non si sente pienamente rappresentato ha comunque il dovere di esprimersi con il voto, altrimenti perde il diritto di lamentarsi».
La nostra democrazia è in pericolo?
«Non direi proprio. Allo stesso tempo però ritengo che il minimo che il cittadino deve fare è andare a votare. E comunque non basta, bisogna regalare tempo ed energie al bene comune. Se ognuno di noi regalasse un’ora alle persone sole, agli anziani, a recuperare uno spazio verde non vivremmo in un Paese diverso? Invece a volte rischia di prevalere l’individualismo, abbiamo bisogno di più spinta ideale per cambiare le cose».
Se passa il referendum, la Costituzione cambierà. Da una parte c’è il governo, che spinge per il sì e ne fa uno spartiacque tra il prima e il dopo. Dall’altra il fronte del no e quanti chiedono che non sia un «armageddon».
«Bisogna stare ai fatti, senza caricare questo voto di altri significati. Noi come italiani ci dovremmo esprimere sul merito della riforma, che è la Costituzione. Il referendum di ottobre non può diventare un test sul governo, non è nelle cose. Stiamo parlando della Costituzione italiana. E qui anche i giornalisti dovrebbero riuscire a non schierarsi, sforzandosi di mettere i cittadini in condizioni di comprendere il merito».
Vede il rischio di dividere l’Italia tra chi vuole cambiarla in meglio e chi vuole che tutto resti com’è?
«Durante l’iter parlamentare tutti i partiti condividevano la necessità di rivedere la Carta e la legge elettorale. C’era chi si batteva per ridurre anche il numero dei deputati, chi sosteneva che fosse meglio abolire il Senato e chi spingeva perché i senatori fossero eletti direttamente. È stato un confronto tra posizioni diverse, non tra chi voleva cambiare e i conservatori. Nessuno voleva che il bicameralismo paritario restasse com’è. Il Parlamento ha approvato la legge e ora il testimone passa agli italiani».
Condivide gli appelli ad abbassare i toni dello scontro politico?
«La Costituzione non la cambi a ogni legislatura, ma quando è strettamente necessario e spesso passano tanti anni tra un intervento e l’altro. E quindi, come ha scritto il direttore Luciano Fontana sul Corriere , giù i toni e no alle tifoserie. Anche perché gli effetti delle riforme si capiscono fino in fondo solo quando vengono messe in atto».
«O cambio l’Italia, o cambio mestiere», ripete il premier. Se vince il no, Matteo Renzi deve dimettersi?
«Io non credo che la questione vada messa in questi termini, per me il quesito è sulla Costituzione e lì mi fermo. Non si dovrebbe caricare di significato politico questo referendum. Non si dovrebbe legare la revisione della Carta al futuro politico di chi oggi è al governo».

Il Fatto 3.6.16
Concorsi pilotati
Dopo Barbera ecco i nuovi nomi, tutti pro-riforma Boschi
Nell’inchiesta altri 13 prof del Sì
“Anche Amato faceva pressioni
di Antonio Massari e Valeria Pacelli
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_p4_6d59b8e03150d4?workerAddress=ec2-54-165-135-29.compute-1.amazonaws.com


Corriere 3.6.16
«Madre surrogata? La troviamo noi» La promessa (illegale) dell’agenzia Usa
Una giornata in incognito in un hotel romano: l’incontro, i colloqui, i moduli da firmare
di Monica Ricci Sargentini

L’appuntamento è all’una a Palazzo Montemartini, un albergo a 5 stelle proprio di fronte alla stazione Termini. Mario Caballero, direttore e fondatore dell’agenzia per la maternità surrogata Extraordinary Conceptions , è arrivato apposta da San Diego in California per incontrare le coppie che vogliono ricorrere all’utero in affitto. Una pratica vietata dalla legge 40 che punisce con la reclusione fino a due anni «chiunque realizza, organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità».
«Sono qui - dice — perché voglio aiutarvi ad ottenere quello che volete nel minor tempo possibile e al prezzo più economico. Vogliamo avere più clienti in Italia. Per questo sto anche girando un documentario con il producer italiano Stand by me ».
In tutto siamo cinque coppie, tutte eterosessuali. Ma altre ne arriveranno. La lista della tappa romana ne conta più di una decina. Oltre agli appuntamenti previsti per domani a Firenze, sabato e domenica a Milano. Caballero rompe il ghiaccio raccontando la sua storia personale: «Mia moglie si è sottoposta a 7 inseminazioni artificiali e 13 fecondazioni in vitro. Abbiamo speso 300mila dollari e buttato via otto anni prima di avere due gemelli con una madre surrogata». E qui evoca Dio: «Una gravidanza extrauterina è stato il segnale mandato dal Signore per dirci che dovevamo cambiare strada». Capelli brizzolati e spettinati, camicia a righe e giacca, Caballero ci tiene a stabilire con noi un contatto emotivo. «Interrompetemi quando volete — dice —, non voglio che usciate di qui con dei dubbi».
Ma sul fronte legale tentenna e cerca di svicolare. «Qui in Italia questa pratica è vietata, cosa ci garantisce che potremo registrare il figlio come nostro?» chiede uno dei mariti. «Ci sono tre avvocati italiani che si occupano di tutto — assicura —, in 10 anni non abbiamo mai avuto un problema. Giusto qualche giorno fa è tornata qui a Roma una donna che ha avuto due gemelli. E poi c’è quell’italiano.Come si chiama... Aspettate un attimo». Mario si ferma, va nell’altra stanza e riappare con un block notes. «Nichi Vendula» esclama trionfante. «Ah sì Vendola» lo correggiamo. «Ecco sì Vendola lui ha avuto un maschietto e ora è qui a Roma. Felice». Inutile parlare di stepchild adoption e spiegare che non sarà così automatico per l’aspirante madre essere registrata come tale dato che per la legge italiana il figlio è di chi lo partorisce e non di chi lo commissiona.
A questo punto Caballero tira fuori una mappa degli Stati Uniti d’America e cerca di aprirla, in modo un po’ maldestro, sulla parete di fronte a noi. Punta il dito sulla costa est e annuncia trionfante che Extraordinary Conceptions ha aperto un nuovo ufficio proprio per noi europei. Dove? «In Carolina del Nord perché la California — ci spiega — è invasa dai cinesi che stanno facendo levitare i prezzi. Prendono anche tre surrogate contemporaneamente per avere quattro o cinque figli alla volta. Li vogliono tutti rigorosamente maschi». «Ma cosa ci fanno con tutti questi bambini? Non avete pensato che potrebbero poi venderli?» chiede una donna stupita. «Assolutamente no, noi incontriamo tutte le coppie, se non ci piacciono le scartiamo. Per esempio a un uomo che aveva 93 anni abbiamo detto di no».
E le madri surrogate? Chi ci assicura che non cambieranno idea? «No, una volta firmato il contratto — dice — non è possibile. Alla portatrice facciamo anche fare un test psicologico che attesta che è sana di mente così non può appellarsi a un giudice e dire che non sapeva quello che faceva». Per tutta la gravidanza le madri vengono seguite da una psicologa «perché devono capire — spiega Caballero — che questo è un business, non devono essere emotive devono pensare al business. Io glielo dico sempre».
A noi non resta che andare su sito dell’agenzia, scegliere la potenziale madre surrogata e la donatrice. Poi si redige il contratto e «allora, solo allora — ci tiene a precisare Caballero dovrete pagare una prima rata». Quanto costa in totale il percorso? «Io non parlo mai di soldi però rispetto ai cinesi vi faccio pagare 15mila dollari in meno». Perché? «Ve l’ho detto! Vogliamo espandere il business qui in Italia». Tornati in redazione i conti li facciamo noi: tra i 130mila e i 160mila dollari da pagare in quattro rate al netto dei regali previsti per le madri surrogate: da una serie di massaggi (2mila dollari) a un viaggio per tutta la famiglia della gestante( dollari). «Perché la surrogata deve ricevere tante attenzioni — precisa Caballero — e a ogni progresso della gravidanza una somma di denaro».
Monica Ricci Sargentini
L’appuntamento è all’una a Palazzo Montemartini, un albergo a 5 stelle proprio di fronte alla stazione Termini. Mario Caballero, direttore e fondatore dell’agenzia per la maternità surrogata Extraordinary Conceptions , è arrivato apposta da San Diego in California per incontrare le coppie che vogliono ricorrere all’utero in affitto. Una pratica vietata dalla legge 40 che punisce con la reclusione fino a due anni «chiunque realizza, organizza o pubblicizza la surrogazione di maternità».
«Sono qui - dice — perché voglio aiutarvi ad ottenere quello che volete nel minor tempo possibile e al prezzo più economico. Vogliamo avere più clienti in Italia. Per questo sto anche girando un documentario con il producer italiano Stand by me ».
In tutto siamo cinque coppie, tutte eterosessuali. Ma altre ne arriveranno. La lista della tappa romana ne conta più di una decina. Oltre agli appuntamenti previsti per domani a Firenze, sabato e domenica a Milano. Caballero rompe il ghiaccio raccontando la sua storia personale: «Mia moglie si è sottoposta a 7 inseminazioni artificiali e 13 fecondazioni in vitro. Abbiamo speso 300mila dollari e buttato via otto anni prima di avere due gemelli con una madre surrogata». E qui evoca Dio: «Una gravidanza extrauterina è stato il segnale mandato dal Signore per dirci che dovevamo cambiare strada». Capelli brizzolati e spettinati, camicia a righe e giacca, Caballero ci tiene a stabilire con noi un contatto emotivo. «Interrompetemi quando volete — dice —, non voglio che usciate di qui con dei dubbi».
Ma sul fronte legale tentenna e cerca di svicolare. «Qui in Italia questa pratica è vietata, cosa ci garantisce che potremo registrare il figlio come nostro?» chiede uno dei mariti. «Ci sono tre avvocati italiani che si occupano di tutto — assicura —, in 10 anni non abbiamo mai avuto un problema. Giusto qualche giorno fa è tornata qui a Roma una donna che ha avuto due gemelli. E poi c’è quell’italiano.Come si chiama... Aspettate un attimo». Mario si ferma, va nell’altra stanza e riappare con un block notes. «Nichi Vendula» esclama trionfante. «Ah sì Vendola» lo correggiamo. «Ecco sì Vendola lui ha avuto un maschietto e ora è qui a Roma. Felice». Inutile parlare di stepchild adoption e spiegare che non sarà così automatico per l’aspirante madre essere registrata come tale dato che per la legge italiana il figlio è di chi lo partorisce e non di chi lo commissiona.
A questo punto Caballero tira fuori una mappa degli Stati Uniti d’America e cerca di aprirla, in modo un po’ maldestro, sulla parete di fronte a noi. Punta il dito sulla costa est e annuncia trionfante che Extraordinary Conceptions ha aperto un nuovo ufficio proprio per noi europei. Dove? «In Carolina del Nord perché la California — ci spiega — è invasa dai cinesi che stanno facendo levitare i prezzi. Prendono anche tre surrogate contemporaneamente per avere quattro o cinque figli alla volta. Li vogliono tutti rigorosamente maschi». «Ma cosa ci fanno con tutti questi bambini? Non avete pensato che potrebbero poi venderli?» chiede una donna stupita. «Assolutamente no, noi incontriamo tutte le coppie, se non ci piacciono le scartiamo. Per esempio a un uomo che aveva 93 anni abbiamo detto di no».
E le madri surrogate? Chi ci assicura che non cambieranno idea? «No, una volta firmato il contratto — dice — non è possibile. Alla portatrice facciamo anche fare un test psicologico che attesta che è sana di mente così non può appellarsi a un giudice e dire che non sapeva quello che faceva». Per tutta la gravidanza le madri vengono seguite da una psicologa «perché devono capire — spiega Caballero — che questo è un business, non devono essere emotive devono pensare al business. Io glielo dico sempre».
A noi non resta che andare su sito dell’agenzia, scegliere la potenziale madre surrogata e la donatrice. Poi si redige il contratto e «allora, solo allora — ci tiene a precisare Caballero dovrete pagare una prima rata». Quanto costa in totale il percorso? «Io non parlo mai di soldi però rispetto ai cinesi vi faccio pagare 15mila dollari in meno». Perché? «Ve l’ho detto! Vogliamo espandere il business qui in Italia». Tornati in redazione i conti li facciamo noi: tra i 130mila e i 160mila dollari da pagare in quattro rate al netto dei regali previsti per le madri surrogate: da una serie di massaggi (2mila dollari) a un viaggio per tutta la famiglia della gestante( dollari). «Perché la surrogata deve ricevere tante attenzioni — precisa Caballero — e a ogni progresso della gravidanza una somma di denaro».

Repubblica 3.6.16
La protesta in rosso e le donne da proteggere
di Chiara Saraceno

ANCORA una volta ci si mobilita contro la violenza e il femminicidio. Con l’hashtag #saranonsarà e #rossopersara, è stata lanciata l’iniziativa dei drappi rossi: vestiti, sciarpe, bandiere rosse da appendere a finestre, balconi, panchine, perché governo e Parlamento considerino il femminicidio non un fatto emergenziale ma strutturale, che avvelena la nostra società e i rapporti tra i sessi e che va affrontato in modo non episodico.
In effetti, a settant’anni dall’accesso delle donne al voto, quindi alla piena cittadinanza politica, la lunga serie di violenze sulle donne e di femminicidi come quello di Sara ci ricorda che per le donne il diritto civile fondamentale, l’habeas corpus, il diritto alla propria integrità fisica e psichica, persino alla vita, è uno dei diritti più insicuri, meno garantiti non solo nello spazio pubblico, ma proprio là dove le donne a lungo sono state relegate, lo spazio delle relazioni private. Non è un fenomeno nuovo, dovuto alla emancipazione femminile, all’accesso alla cittadinanza civile e politica.
È vero che ci sono uomini che non accettano che una donna — una moglie, una fidanzata, una figlia, una sorella — li lasci o abbia una propria professione, proprie amicizie, propri spazi. Ma ci sono anche uomini che fanno violenza, e talvolta uccidono, le proprie mogli o fidanzate anche quando queste accettano di essere sottomesse, vuoi perché non corrispondono comunque alle loro aspettative di uomini- padroni, vuoi perché fare violenza ad una donna è per loro un modo di affermarsi come maschi. La sopraffazione in questi casi si alimenta della stessa subordinazione femminile, della rassegnata accettazione con cui molte donne subiscono le prepotenze degli uomini con cui vivono, che sperino di cambiarli, abbiano paura di lasciarli e/o denunciarli, o pensino che è ciò che loro tocca in quanto donne.
Dire, come si fa spesso, che la violenza maschile e il femminicidio sono la conseguenza negativa e drammatica della maggiore libertà acquisita dalle donne è quindi semplicistico e persino un po’ fuorviante. Anche quando le donne erano (e dove ancora sono) più sottomesse e i ruoli di genere più nettamente distinti (e asimmetrici) c’erano altrettanti, se non più, femminicidi e violenze fisiche contro le donne. Attribuire la causa della violenza degli (o meglio di alcuni) uomini sulle donne alla maggiore libertà femminile rischia, inoltre, di presentare quest’ultima come una perdita secca per gli uomini-maschi e non come una possibilità anche per loro: per sviluppare modelli di maschilità diversi, più ricchi e articolati e meno dipendenti dalla contrapposizione più o meno prepotente alla alterità femminile.
È una consapevolezza che molti uomini hanno. Va al di là della accettazione della libertà femminile, coinvolgendo, appunto, un ripensamento sul maschile. Ci sono anche molti uomini che partecipano all’iniziativa dei drappi rossi. Ma non è ancora diventata consapevolezza socialmente condivisa, tanto meno prevalente. Vi si oppone una nostalgia del buon tempo antico più o meno mitizzato, quando gli uomini erano “uomini veri”, tutti d’un pezzo, l’autorità maschile riconosciuta e legittimata dalle leggi civili e da quelle psicoanalitiche. Con differenze di classe sociale e ceto per quanto riguarda gli spazi e le risorse concretamente disponibili, ma dove la divisione del potere e del lavoro lungo le linee della appartenenza di sesso erano chiare.
È una nostalgia che ispira narrazioni talvolta insopportabili. Si pensi al sospetto di debolezza e incompetenza maschili con cui si tacciano di “mammi” i padri accudenti, o al modo in cui vengono considerati gli uomini nelle coppie in cui lei ha maggior potere, o al modo spesso sottilmente denigratorio con cui sono presentate le persone omosessuali, specie i maschi. Per questo ha un forte potere deterrente rispetto ad una elaborazione pubblica condivisa di modelli maschili più plurali, meno rigidi, perciò anche non imperniati su un modello di rapporto tra i sessi di tipo asimmetrico e basato su rapporti di potere.
Eppure la socializzazione a modalità di essere maschi diverse da quella basata sulla asimmetria di genere è l’unica strada per sconfiggere la violenza contro le donne e il femminicidio; perché non solo le donne, ma anche gli uomini, possano essere più liberi, non resi ottusi nei propri modi di essere e sentire da corazze identitarie difensive. È una strada lunga, che va intrapresa con sistematicità, in famiglia, a scuola, sui media. Nel frattempo, occorre anche mettere in sicurezza per quanto possibile le potenziali vittime di maschi incapaci di pensarsi altrimenti che come controllori delle donne che hanno scelto. A cominciare dal rafforzamento e finanziamento delle reti di sostegno e dei luoghi protetti che in questi anni le donne hanno costruito, spesso senza finanziamenti pubblici.

La Stampa 3.6.16
Sarà la cannabis a salvare Taranto dal disastro ambientale dell’Ilva
La pianta riesce a bonificare i terreni contaminati dalla diossina
di Gabriele Martini

Il libeccio soffia lieve. Fino a qualche anno fa portava nubi rosse, cariche di polvere di ferro. Oggi non più: l’aria è cambiata, odora di mare. La terra invece no, è ancora carica di diossina. Sul campo della masseria la cannabis cresce sotto il sole d’inizio giugno. Le piante sono alte un metro e mezzo. L’agricoltore punta gli occhi scuri verso le ciminiere dell’Ilva. Dice: «Eccolo il mostro che ci avvelena. Speriamo che la canapa lo circondi e lo soffochi, proprio come fa con le erbe infestanti».
Il mostro d’acciaio
A due chilometri in linea d’aria c’è la più grande acciaieria d’Europa. Un gigante di tubi, altiforni, lamiere, nastri trasportatori e parchi minerali su 15 milioni di metri quadrati. È grande una volta e mezza Taranto. Nel regno del ferro il dominio è delle macchine. L’uomo è residuale, minuto, insignificante. Eppure questa storia è la rivincita dell’uomo. Anzi, di due fratelli: Vincenzo e Vittorio Fornaro. Famiglia tarantina, stirpe contadina, allevatori da tra generazioni. Fino al dicembre 2008, quando la Regione ordina di abbattere le loro 600 pecore perché contaminate dalla diossina dell’Ilva. «È stato il giorno più brutto della mia vita. Quella sera in masseria c’era un silenzio assordante. Eravamo abituati ad addormentarci con il suono del bestiame», racconta Vincenzo. «Il bivio era: andarcene e ricominciare da un’altra parte o rimanere e combattere». Otto anni dopo i Fornaro sono ancora qui. Hanno appeso tre campanacci alla porta della masseria: «Ci ricordano le pecore». Oggi la litania è suonata dal vento.
La moria di animali
Le carcasse degli animali, le lacrime, la rabbia, il divieto di pascolo nel raggio di 20 chilometri dalla zona industriale. Sembrava finita. E invece era l’inizio della seconda vita dei Fornaro. L’intuizione giusta arriva dai ragazzi dell’associazione «CanaPuglia»: convertire i terreni alla cannabis per decontaminare i campi. L’allevatore accetta la sfida e riparte dall’unica certezza che gli resta: l’amore per la sua terra. La prima semina avviene nel 2014, circondata da scetticismo. «Sapevo poco della canapa, non è stato facile», racconta Vincenzo. Ma la salute del terreno migliora. Rispuntano erbe selvatiche. Dopo un anno di pausa, due mesi fa, l’ex famiglia di allevatori è tornata a spargere semi di cannabis.
In principio fu Cernobil. A fine anni Novanta una società americana specializzata in biotecnologia ambientale coltiva canapa per decontaminare i terreni radioattivi zuppi di cesio, plutonio, piombo. Funziona. Sono una decina le piante in grado di svolgere questa funzione, dal girasole al pioppo. Le radici della cannabis si rivelano particolarmente adatte a bonificare i terreni avvelenati dalla diossina. In Italia si inizia a parlare di fitorisanamento nei primi anni Duemila. Partono progetti sperimentali. L’iniziativa più avanzata è quella di Taranto. «È un’operazione di bonifica a bassissimo costo rispetto a quelle tradizionali. Ma per i risultati scientifici serve tempo», spiega Marcello Colao, ingegnere dell’Associazione biologi ambientalisti pugliesi. I Fornaro hanno fatto da apripista, altri agricoltori sono pronti a seguire il loro esempio. E ora il sogno si fa più ambizioso: creare una cintura verde di cannabis attorno all’Ilva.
Conviene sgombrare il campo da equivoci: è tutto legale. La cannabis sativa non è una droga. Il Thc è nel limite dello 0,2% consentito dalla legge. Niente principio attivo, niente sballo. Gli usi sono molteplici, dal tessile alla bioedilizia. Il progetto si chiama «Green». L’obiettivo immediato è ripulire i terreni dalla diossina, quello a medio termine creare una filiera. «Taranto può diventare il distretto della canapa del Sud Italia», spiega Gianni Cantele, presidente di Coldiretti Puglia. «È una coltura rustica che non ha particolari pretese nutrizionali. Diversi imprenditori locali sono pronti a convertirsi alla cannabis». Ma dovranno farlo senza l’aiuto della Regione: «I fondi comunitari all’agricoltura sono destinati per la produzione alimentare», frena l’assessore Leonardo Di Gioia.
L’esasperazione
«Siamo stufi di aspettare la politica», replica Fornaro. «Con una decina di agricoltori siamo pronti a seminare a canapa 150 ettari». A Taranto esiste già un impianto di prima trasformazione (in Italia sono solo due). Un’azienda locale di materiali edili, la Vibrotek, sta testando un prototipo di calce e canapa. Un gruppo di giovani ragazze vuole usare la fibra per produrre piatti.
Dall’altra parte del Mare Piccolo c’è una città dilaniata dall’atroce dilemma: il diritto alla vita o il diritto al lavoro. Due settimane fa a Taranto è iniziato il processo «Ambiente svenduto». Tra i 44 imputati ci sono i Riva e l’ex governatore Vendola. Lo Stato è finito invece alla sbarra a Strasburgo. La Corte europea dei diritti umani accusa l’Italia di non aver protetto la salute dei cittadini. Come la madre dei fratelli Fornaro. «Un tumore se l’è portata via anni fa», racconta Vincenzo. «A me hanno tolto un rene, sono vivo per miracolo. Ma adesso il vento è cambiato, ci riprendiamo la nostra terra. Stiamo vincendo noi».

La Stampa 3.6.16
Se il Bundestag sgambetta la Realpolitik
di Gian Enrico Rusconi

I parlamentari tedeschi che hanno votato, praticamente all’unanimità, la risoluzione che denuncia come «genocidio» lo sterminio della popolazione armena in Turchia negli anni 1915 e 1916, prevedevano le conseguenze immediate del loro pronunciamento? È giusto dire la verità su eventi storici tanto gravi, risalenti a cento anni fa, senza preoccuparsi degli effetti che ne possono derivare?
Oppure - rovesciando il ragionamento - perché mai il potenziale di ricatto di un governo autoritario, come quello turco attuale, dovrebbe impedire di dire la verità?
Non è facile rispondere a questi interrogativi, ma dobbiamo cercare una risposta se vogliamo capire quanto sta accadendo tra Germania e Turchia e di riflesso a livello europeo. Infatti non solo potranno essere interrotte le relazioni diplomatiche, ma potrebbero essere azzerati i tentativi di trovare una soluzione concordata con l’Unione europea per la sistemazione (sia pure temporanea) della massa di rifugiati presenti nella stessa Turchia, con l’imprevedibile acuirsi dei problemi umanitari. Pagheranno ancora altri innocenti.
Da più di un anno il Bundestag tedesco aveva intenzione di prendere posizione sulla questione del genocidio degli armeni. Una posizione legittima e apprezzabile, preceduta del resto da analoghi pronunciamenti di altri Parlamenti (compreso quello italiano), da dichiarazioni di altissime personalità (compreso papa Francesco) oltre che da una ricerca e riflessione storica approfondita. «Genocidio» non è semplicemente la descrizione di un dato di fatto, per qualificare un evento violento, di amplissime dimensioni, perpetrato contro una popolazione. E’ un giudizio etico con specifiche valenze giuridiche: è un «crimine contro l’umanità» e come tale giudicato e condannato. Storicamente il genocidio per definizione è stato quello contro il popolo ebraico in Europa (Olocausto, Shoah). Commesso dai tedeschi, anche se con questa indicazione non si intende affermare una «colpa collettiva» ma si individuano responsabili precisi, cresciuti e maturati in ambienti culturali e sociali ben identificabili, magari in posizioni funzionali apparentemente secondarie (Eichmann).
Questa insistenza sui tedeschi non è casuale per quello di cui stiamo parlando. La dichiarazione dei parlamentari tedeschi infatti è ben consapevole di avere sulle proprie spalle il genocidio degli ebrei.
Ne sente tutto il peso che vorrebbe paradossalmente trasformare in motivo di amichevole raccomandazione ai turchi, perché diventino anche loro capaci di autocritica e di riconciliazione. «La nostra intenzione non è mettere la Turchia sotto accusa, ma riconoscere che la riconciliazione è possibile solamente se i fatti vengono messi sul tavolo», ha detto il capogruppo dei democratici cristiani (il partito di Angela Merkel). Ma forse lo stanno facendo con una qualche inconsapevole ingenuità, facilmente fraintesa, se si sentono dire in faccia da un politico turco che «il modo per chiudere pagine oscure della propria storia (tedesca) non è infangare la storia di altri Paesi con decisioni parlamentari irresponsabili e infondate».
In realtà i tedeschi, ripensando agli anni del genocidio armeno, avanzano addirittura un’autocritica riferita a quel tempo, quando l’impero ottomano era stretto alleato del Reich guglielmino, che ha quindi avuto una certa «corresponsabilità» perché, sapendo cosa stava accadendo, «non provò a fermare questi crimini contro l’umanità».
Ma rimane sempre l’interrogativo del perché il Bundestag ha preso la sua decisione proprio ora, in un momento delicatissimo del rapporto di Ankara con Berlino e Bruxelles?
Ricordiamo brevemente i fatti. Angela Merkel davanti all’eventualità di non saper reggere l’urto della massa dei migranti, attratti dalla accoglienza benevola della Germania, ha pensato di stabilire un’intesa con la Turchia in funzione di contenimento dei profughi provenienti dalle aree mediorientali, in particolare dalla Siria. Dietro all’offerta di un consistente contributo finanziario Angela Merkel fa una scelta politica rischiosa. La cancelliera, da sempre contraria a facilitare l’ingresso della Turchia nell’Unione, perché priva dei requisiti etico-politici e istituzionali indispensabili, è disposta a sacrificare i suoi convincimenti ad un obiettivo considerato di valore superiore. E’ segno di una spregiudicata Realpolitik o al contrario è un implicito riconoscimento della debolezza e vulnerabilità della sua posizione?
La contropartita richiesta da Ankara infatti è pesante: non solo chiede la liberalizzazione dei visti ai cittadini turchi per la Germania, la ripresa dei contatti per una possibile entrata nell’Unione europea e altre facilitazioni economiche, ma esige la non interferenza negli «affari interni» del Paese in un momento di manifesta limitazione e violazione delle libertà politiche e dei diritti umani. Nonostante ciò la cancelliera tedesca riesce a convincere la Commissione europea a far propria l’iniziativa tedesca. Ma non è chiaro quali garanzie gli europei siano in grado di esigere e di ottenere dalla Turchia affinché vengano rispettati i diritti umani e di libertà politica.
Ad un certo punto Erdogan spazientito e pressato da crescenti proteste interne minaccia Bruxelles di rompere il patto. Non c’era momento peggiore perché il Bundestag facesse la sua dichiarazione.
A questo punto non è chiaro chi possa riprendere il controllo della situazione. Non so se Erdogan si limiterà ad alzare la posta in gioco con l’Ue o invece, approfittando della reazione d’orgoglio nazionale ferito, si spingerà ulteriormente sulla strada del rafforzamento del suo potere autocratico.
Se c’è una autorità europea capace e risoluta a Bruxelles, questa è la sua ora.

Il Sole 3.6.16
Berlino, gli armeni e lo schiaffo a Erdogan
di Alberto Negri

Alla cancelliera Angela Merkel sarebbe bastata una Turchia presentabile, da tenere nella sala d’attesa dell’Europa, utile per essere un partner affidabile nella gestione di un paio di milioni di profughi e come alleato nel marasma mediorientale. L’obiettivo forse è destinato a fallire, anche se non è detto che la crisi tra Berlino e Ankara, dopo il riconoscimento del genocidio degli armeni, significhi immediatamente il naufragio dell’accordo sui profughi. Probabilmente si apriranno nuovi contenziosi con Bruxelles. Certo questa intesa, criticata per le sue ambiguità, ondeggia a ogni folata di vento, come il recente siluramento dell’ex premier Davutoglu, e per un semplice motivo: a differenza dei suoi predecessori Erdogan non guarda all’Europa come a una meta da raggiungere
Considera l’Unione non un approdo ma soltanto una sponda per suoi progetti politici. È stato lui stesso qualche giorno fa a proclamarlo davanti a un milione di persone a Istanbul, circondato da bandiere ottomane e comparse vestite da giannizzeri che marciavano al passo dell’oca: «Per capire questa città non si deve guardare all’Europa ma alla Mecca, alla Medina, ad Al Qods (Gerusalemme)». Non solo deve essere seppellito il passato romano e bizantino di Costantinopoli ma Erdogan ha indicato una geopolitica completamente diversa, difficilmente compatibile con l’Unione europea e forse anche con la stessa Nato. Ogni occasione diventa un’opportunità da strumentalizzare in chiave islamica e soprattutto iper-nazionalista per dimostrare l’urgenza dei suoi progetti politici: varare una costituzione sul modello presidenziale e far fuori i curdi in Parlamento, ritenuti un vulnus alla compattezza dell’ideologia panturchista.
La crisi con Berlino per il voto del Bundestag sul genocidio armeno verrà enfatizzata con il richiamo dell’ambasciatore in Germania, come era già avvenuto l’anno scorso con il Vaticano e l’Austria sempre per lo stesso motivo in occasione del centenario del massacro degli armeni del 1915. Allora Papa Bergoglio aveva definito l’uccisione di 1,5 milioni di armeni «il primo genocidio del ventesimo secolo» ed Erdogan aveva accusato il pontefice di dire «stupidaggini». Questa volta le reazioni sono ancora più forti.
La signora Mekel si accorge, giorno dopo giorno, che la sua amicizia con Erdogan è disseminata di ostacoli. In primo luogo per i ripetuti attacchi del “sultano” alla democrazia, ai principi di separazione dei poteri, allo stato di diritto, alla libertà di espressione: la stessa Merkel ha protestato per la cancellazione dell’immunità parlamentare destinata a espellere soprattutto i deputati curdi. Dopo che le era stato rimproverato di sacrificare i valori europei sull’altare dell’accordo con Ankara, questa crisi dovrebbe aprire un nuovo capitolo anche per l’Unione: non più quello della “realpolitik” - chiudere un occhio sull’autoritarismo di Erdogan pur di frenare profughi - ma del “principio di realtà”, cioè prendere atto che la Turchia di oggi è un partner forse ineludibile ma ad alto rischio politico.

Repubblica 3.6.16
Nel Bundestag i demoni della storia
di Bernardo Valli

IL SILENZIO del Bundestag sul genocidio degli armeni poteva apparire una complicità storica dei tedeschi con i turchi. I nostri pensieri non sono sempre lineari. La storia ci insegue e a volte i suoi demoni ci riacciuffano. Mentre undici Parlamenti europei si erano già pronunciati, riconoscendo il genocidio, quello di Berlino taceva. Quasi fosse inchiodato da una specie di omertà, in favore di un vecchio e nuovo alleato, qual è la Turchia. In realtà il sospetto va declassato. Il dubbio era infondato. Non solo perché il voto quasi unanime di ieri ha infine condannato il genocidio, definendolo tale. La Germania si è allineata ai Paesi amici e alleati, come la Francia e l’Italia, riconoscendo che un secolo fa si trattò di uno sterminio pianificato degli armeni, nonostante la Turchia ufficiale e larga parte della società continuino a considerarlo un (semplice) massacro provocato da una guerra civile. I parlamentari tedeschi sanno quanto sia importante assumere e analizzare le proprie colpe, anche quelle lontane nel tempo, comprese quelle condivise passivamente con gli alleati se sono crimini contro l’umanità, e quindi non potevano rinviare più a lungo il voto di ieri.
I Verdi avevano preparato il documento da tempo; pare che la Cancelliera l’avesse approvato già dall’anno scorso, ma che l’opportunità diplomatica ne avesse ritardato la presentazione al Bundestag. Dove, oltre ai Verdi promotori, anche i socialdemocratici dell’Spd, i cristiano democratici e cristiano sociali della Cdu e della Csu, componenti della grande coalizione, erano pronti a sottoscriverlo. Il presidente della Repubblica, Joachim Gauck, aveva anticipato l’idea nell’aprile 2015, mentre a Erevan, in Armenia, veniva ricordato il genocidio, alla presenza di tanti capi di Stato. Ma poi gli avvertimenti di Ankara, dello stesso presidente Recep Tayyip Erdogan, devono avere provocato qualche crampo. Circa tre milioni di turchi, in gran parte cittadini tedeschi, vivono in Germania. Numerosi sono gli interessi economici, finanziari, industriali, culturali tra i due Paesi. Ed era in gestazione l’accordo sui profughi, firmato nel marzo scorso con l’Europa ed ora in corso. Angela Merkel ne discuteva con Erdogan.
Non si può accusare la Cancelliera di debolezza davanti alle intemperanze dell’interlocutore turco. Lo ascolta, accoglie alcune sue richieste non prive di arroganza, come accettare che un attore tedesco impertinente con lui possa essere giudicato da un tribunale in patria, ma al tempo stesso manda il suo ambasciatore nel tribunale di Istanbul per verificare come vengono processati i giornalisti turchi denunciati da Erdogan. E in visita ufficiale in Turchia riceve e discute con gli oppositori e gli intellettuali che Erdogan detesta. Capita che Angela Merkel si pieghi ma subito raddrizza la schiena.
Ieri tuttavia non era in Parlamento al momento del voto. Né c’era il vicecancelliere, il socialdemocratico Sigmar Gabriel. Né il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Assenze vistose in una seduta del Bundestag in cui era all’ordine del giorno la valutazione di tragici avvenimenti avvenuti un secolo fa, che riemergendo provocano collere e minacce. Come se si trattasse di una plateale, controversa revisione della storia. Non votando personalmente una risoluzione tanto carica di significati, è come se Angela Merkel avesse fatto capire che lei non aderiva del tutto all’iniziativa del suo partito e degli alleati di governo. Ha dunque dovuto subire quel che aveva formalmente approvato, il 31 maggio, durante una riunione del gruppo parlamentare? Il comportamento non era degno della Cancelliera con la schiena dritta. E comunque in questa occasione non una Cancelliera di ferro.
Erdogan ha manifestato la sua stizza richiamando in patria l’ambasciatore a Berlino. E ha annunciato altri gesti di ritorsione. Ritirò provvisoriamente altri ambasciatori quando i Parlamenti europei votarono per il genocidio. Ma poi li rimandò al loro posto. Lui e il suo governo islamo-conservatore non hanno alcun legame ideologico con i “giovani turchi” promotori del genocidio che fece più di un milione di morti. Ma il nazionalismo, l’orgoglio turco e calcoli di politica interna creano una forte solidarietà con quei predecessori. Anche perché nel Paese persiste l’allergia alle minoranze. Gli armeni di oggi sono i curdi, sia pure in un contesto diverso, perché i curdi al contrario degli armeni nel 1915 e ’16 si difendono, reagiscono. Combattono.
Redatto da Cem Ozdemir, di origine turca e copresidente del gruppo dei Verdi al Bundestag, il documento appena approvato condanna anche il deplorevole ruolo del Reich tedesco, che in quanto principale alleato dell’Impero ottomano non ha fatto nulla per impedire il crimine contro l’umanità. In realtà i tedeschi occupavano posti di rilievo nell’esercito turco impegnato nella Guerra mondiale, quando avvenne il genocidio. Il generale Fritz Bronsart von Schellendorf era vice capo di stato maggiore e firmò ordini di deportazione degli armeni poi massacrati. E altri ufficiali impegnati in Turchia più tardi occuparono posti di rilievo nel Terzo Reich. Rudolf Höss è stato comandante del campo di Auschwitz, e Konstantin von Neurath, che aveva esercitato un comando nella Quarta armata ottomana, negli anni Trenta era Obergruppenführer nelle SS. Nel giugno 1915, l’addetto navale a Costantinopoli, Hans Human, scriveva: «Per il complotto con i russi gli armeni sono più o meno sterminati. È duro ma necessario».
Lo storico Michael Hesemann spiega il comportamento di Pio XII durante la Seconda guerra mondiale con la sua esperienza nel 1915. A quell’epoca il futuro papa Pacelli aveva un importante incarico nella Segreteria di Stato, in Vaticano, e fu testimone dei due interventi di Benedetto XV in favore degli armeni presso il sultano Mehmet V. Il risultato fu che l’eccidio si intensificò. Più di un quarto di secolo dopo Pio XII, ospitò tanti ebrei nelle chiese e istituzioni cattoliche, ma non denunciò lo sterminio nazista nel timore di avere un effetto negativo, come il suo predecessore. Questo dice lo storico, la cui tesi avvalora il fatto che il genocidio degli armeni fu in qualche modo il preludio all’Olocausto. Per questo capita di immaginare i demoni della storia, ieri, nella democratica aula del Bundestag.
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“ Il voto di ieri ha infine condannato il genocidio armeno definendolo tale La Germania si è allineata ai Paesi amici e alleati

il manifesto 3.6.16
Armeni, fu genocidio
Germania. All’unanimità il parlamento tedesco ha approvato il testo sul genocidio armeno. La Turchia ha richiamato ad Ankara l’ambasciatore Husein Avni Karslioglu. E dal Kenya il presidente Recep Tayyip Erdogan ha subito minacciato: «Questo voto avrà un impatto molto serio sulle relazioni tra Turchia e Germania»
di Sebastiano Canetta

BERLINO Una risoluzione del Bundestag scompagina le relazioni con la Turchia e riapre i giochi di strategia dell’Ue sul fronte dei migranti. Ieri quasi all’unanimità il parlamento tedesco ha approvato il testo sul genocidio armeno predisposto da Cdu, Spd e Verdi. Ci è voluto un anno prima di mettere nero su bianco ciò che affermava il presidente della Repubblica Joachim Gauck «Il destino degli armeni esemplifica la storia dello sterminio di massa, la pulizia etnica le espulsioni e persino i genocidi di cui il Ventesimo secolo è segnato in modo così terribile».
Immediata la «rappresaglia» turca: il ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu ha richiamato ad Ankara l’ambasciatore Husein Avni Karslioglu. E dal Kenya il presidente Recep Tayyip Erdogan ha subito minacciato: «Questo voto avrà un impatto molto serio sulle relazioni tra Turchia e Germania», e non solo perché la «guerra sulla Storia» con Berlino rischia di far saltare l’intesa sull’abolizione del visto per i turchi nell’Ue in cambio degli hotspot nell’Odissea dei migranti.
Il testo della risoluzione è poco più che simbolico, tuttavia in aula c’erano religiosi e esponenti della comunità armena che hanno alzato un esplicito cartello: «Grazie». Così, per la prima volta, la Bundesrepublik si allinea ufficialmente agli altri 20 Paesi che stigmatizzano il genocidio armeno come sancito fin dal 1985 dalla Commissione diritti umani dell’Onu e ratificato due anni dopo dall’Europarlamento.
Il documento approvato ieri utilizza esplicitamente il termine tabù in Turchia per il massacro di oltre un milione di cristiani armeni nel 1915 da parte dell’impero ottomano, all’epoca alleato dei tedeschi. Pulizia etnica a cavallo del Caucaso, stragi senza pietà, deportazione dei pochi superstiti. Ciò che restava dell’Armenia venne inglobato nell’Urss alla fine della prima guerra mondiale.
E tutt’oggi la Turchia ammette solo gli «eccessi di patriottismo» ma non transige sulla responsabilità del primo genocidio dell’età contemporanea.
Tant’è che alla vigilia del voto a Berlino centinaia di turchi hanno manifestato con tanto di bandiere nazionali di fronte alla Porta di Brandeburgo, a due passi da parlamento e cancelleria. Fino all’ultimo momento utile il premier Binali Yildirim ha messo in guardia i deputati tedeschi, chiamati nominalmente ad alzare la mano: «Sarà, a tutti gli effetti, un vero e proprio test sull’amicizia dei nostri Paesi».
Ma alla fine si sono fatti convincere solo in due: un contrario e un astenuto. Ed è scattata la «ritorsione»: il vice premier Numan Kurtulmus non ha digerito «un errore storico» mentre Yasin Aktay, influente portavoce dell’Akp, minaccia perfino un contro-voto al Parlamento turco.
Merkel (che a fine aprile era in visita ufficiale nel campo profughi di Gaziantep) non si scompone, come sempre: «C’è molto che lega la Germania alla Turchia e anche se abbiamo una differenza di opinione su una singola questione la solidità della nostra amicizia e dei nostri legami strategici è troppo importante».
Così nella conferenza stampa congiunta con Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, di cui Ankara fa parte. La vera partita però si gioca a Bruxelles. Martin Schulz, presidente del parlamento europeo, gela senza tanti complimenti le speranze del primo passo della Turchia nell’Ue: «La proposta della Commissione Junker per liberalizzare i visti dei turchi è ferma sulla mia scrivania.
Il Parlamento non ne discuterà finché tutte le 72 condizioni richieste non saranno soddisfatte dal governo di Ankara. Sono loro che rischiano di far saltare il patto». Si tratta dello scambio deciso a marzo: finanziamenti dell’Europa per disinnescare l’emergenza migranti con l’offerta di libera circolazione dei cittadini turchi. Come ribadito dal ministro turco per gli affari europei Omer Celik «si tratta di un unico pacchetto: non abbiamo alcuna intenzione di modificare la nostra legislazione anti-terrorismo».
Ma a Bruxelles è decisivo risolvere il problema della rotta balcanica: di qui l’intesa con la Turchia (che sarebbe un «paese sicuro» anche se persegue i curdi, i giornalisti non allineati e i non islamisti) impegnata a riprendere i migranti irregolari in cambio dei profughi siriani in Europa.
Così la risoluzione sul genocidio armeno riaccende la crisi politica. Sul punto, tuttavia, la coalizione tedesca è però perfino più larga, mentre il capogruppo Cdu Volker Kauder fa quadrato intorno alla cancelliera: «Il nostro obiettivo non è mettere sotto accusa la Turchia, ma riconoscere che la riconciliazione è possibile solamente se i fatti vengono messi sul tavolo. E il fatto che la Turchia stia facendo notevoli sforzi per aiutare l’Ue a gestire la crisi dei migranti non cambia il fatto che agli armeni furono imposte sofferenze indicibili».

il manifesto 3.6.16
Un macigno sul Sultano Nato
Genocidio degli armeni. In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice «baluardo orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad esso
di Angelo d'Orsi

Il passato che non passa, torna regolarmente agli onori (o ai disonori) della cronaca. Le scuse o le mancate scuse per i crimini commessi da una nazione ai danni di un’altra (Obama recentemente a Hiroshima per la prima tragica atomica Usa); l’incommensurabile orrore della Shoà, che ci viene ricordato, in ogni modo, quotidianamente; i massacri, le annessioni di territori con la violenza, i misfatti delle potenze coloniali, sono altrettanti capitoli della storia del mondo, davanti ai quali la tentazione è sovente quella giustificazionista (tutti gli Stati sono nati dalla violenza, per esempio), o liquidatoria (ne abbiamo parlato abbastanza).
Oppure, sull’altro fronte, si affaccia la tendenza etico-giurisdizionalistica: condanne di tribunali internazionali (spesso dalla dubbia legittimità, come quello sui crimini della ex Jugoslavia) o di parlamenti nazionali. No, il passato non passa, a meno che non intervenga la storia, come scienza dei fatti accaduti, documentati, a mettere le cose a posto. E la storia ha acclarato, ad esempio, senza alcun ragionevole dubbio, che i campi di sterminio nazisti sono esistiti.
Fra i grandi crimini del Novecento, a dispetto del silenzio dei governi e della società turca, vi è il massacro degli Armeni, avvenuto nel 1915-16, quando l’Europa si dilaniava nel primo conflitto continentale. Quanti furono i morti? Un milione? Un milione duecentomila? Un milione e mezzo? Certo fu un crimine sistematico, organizzato scientemente, anche se non eseguito in modo «industriale» come nelle «docce» e nei forni di Auschwitz. Molti morirono di stenti in marce forzate, di cui ci sono agghiaccianti testimonianze fotografiche. Altri furono passati per le armi nelle loro case, altri impiccati o fucilati un po’ dovunque, in carceri, per strada, in luoghi di deportazione, ammesso che vi arrivassero ancora vivi. Va ricordato che fra i massacratori vi furono anche milizie kurde, ossia espressione di un popolo a cui proprio la Turchia, innanzi tutto, ha negato nazionalità, sottoponendolo a una persecuzione infinita.
Quel massacro, avvenuto con la collaborazione delle autorità del Reich Guglielmino, allora alleato dell’Impero Ottomano (nella cui traiettoria si staglia quella turpe vicenda, in un processo guidato dai cosiddetti «Giovani Turchi»), non ha ricevuto finora i riconoscimenti che gli spettavano.
Fra i primi Stati a riconoscere che di genocidio si è trattato, è stata la Francia, e spesso per le vie di Parigi si assiste a raduni, manifestazioni, capannelli di armeni (un film recente, assai bello, Mandarines, di Zaza Urushadze) evoca gli strascichi attuali di quella vicenda, nella triste guerra del Nagorno-Karabak). Papa Francesco, Obama, il parlamento di Vienna, richiamarono con varia terminologia quell’evento, suscitando la reazione irritata del governo turco, che rispose con il canonico richiamo dell’ambasciatore. Ora che è il Bundestag tedesco a farlo, la reazione è stata ancora più dura, non solo richiamando l’ambasciatore, ma minacciando conseguenze non precisate.
In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice «baluardo orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di organizzazione del contrasto ad esso. Riceve denaro per bloccare i migranti, che in realtà sfuggono e cercano altre vie per l’Europa; vuole aderire all’Ue, ma non si sogna di ottemperare le regole minime ripetute in modo sempre più stanco dai rappresentanti istituzionali dell’Unione. Con l’arrivo al potere di Erdogan mentre si erode la laicità dello Stato – quello costruito, con la violenza, da Ataturk – se ne cancella ogni vestigia di democrazia: oggi raccontare la verità in Turchia significa esporsi al rischio di finire la carriera di giornalista, scrittore, blogger, fotoreporter in galera o peggio. Erdogan spadroneggia, e si permette il lusso di svillaneggiare il papa, di ridicolizzare l’Unione Europea a cui pure pretende di aderire, e senza tanti complimenti chiude ogni voce critica.
E in nome del quieto vivere, nella speranza che quel governo faccia il suo sporco lavoro (contro i migranti), le diplomazie europee tacciono, o al più balbettano. Il passato che non passa è però un macigno anche per le robuste spalle del nuovo sultano di Ankara.

il manifesto 3.6.16
L’ira turca: «È un errore storico, compromessa l’amicizia tra i paesi»
Turchia. Questa crisi potrebbe mettere ancor più in pericolo il controverso accordo sui migranti stipulato con l’Ue
di Giustino Mariano

A nulla sono valse le pressioni esercitate da poco più di un anno da Ankara su Berlino, affinché il Bundestag non approvasse la risoluzione che riconosce come «genocidio» il massacro degli armeni avvenuto nel 1915 ad opera dell’Impero Ottomano. Con un solo voto contrario e un astenuto, la Germania ha infatti approvato la risoluzione dal titolo «Memoria e commemorazione del genocidio degli armeni e altre minoranze cristiane tra il 1915-16«, presentata da un vasto schieramento parlamentare che va dalla coalizione al governo, composta dalla Cdu della cancelliera Angela Merkel e dal Spd, il partito socialdemocratico e dai Verdi, che sono all’opposizione.
Ciò, come era ampiamente prevedibile, ha fatto irritare profondamente Ankara, il cui governo ha subito con veemenza dichiarato che questo riconoscimento è «un errore storico’» e a cui avrebbe dato una adeguata risposta richiamando da Berlino il suo ambasciatore. Il presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, in visita di Stato in Africa, ha commentato con durezza tale decisione dicendo che essa avrebbe «compromesso seriamente i rapporti tra i due paesi» e attraverso il vicepremier Nurman Kurtulmus, ha fatto sapere che al suo ritorno avrebbe formulato una più precisa e puntuale risposta a quella che considera «una gravissima e inaccettabile provocazione, profondamente lesiva della relazione di amicizia tra Ankara e Berlino».
Il neo primo ministro turco Binali Yildirim, proprio poche ore prima del voto al Bundestag, aveva avvertito la cancelliera Angela Merkel che il risultato del voto sarebbe equivalso a una «vera prova di amicizia» tra i due paesi. Secondo alcuni osservatori turchi sarebbe in gioco la stabilita’ dei rapporti bilaterali in campo economico e militare. Ma in realtà Merkel ha subito cercato di gettare acqua sul fuoco dicendo che «l’amicizia tra i due paesi è molto solida» e solidi sono anche i loro legami strategici. La Germania è il paese col maggiore interscambio commerciale con la Turchia; entrambi i paesi sono inoltre membri della Nato. Attorno a questa vicenda storica dolorosa ogni anno si accende un’aspra polemica tra il governo turco, che nega la natura genocidiaria di quell’evento e i paesi che nel mondo la denunciano.
Ad ogni ricorrenza della data di quel massacro, il 24 aprile 1915, la comunita armena reclama il riconoscimento di quello che considera un genocidio. La Turchia di oggi non nega che vi siano stati quei «massacri»; l’anno scorso, l’allora primo ministro turco Ahmet Davutoglu, si era spinto ben oltre le dichiarazioni del presidente Erdogan nel riconoscere l’orrore di quegli eventi e infatti dichiarò: «Le deportazioni degli armeni sono un crimine contro l’umanità». È questa fu una dichiarazione considerata da molti storica, dopo decenni di forte rimozione di quella tragedia. E lo stesso presidente Erdogan aveva riconosciuto l’importanza che il 24 aprile ha per gli armeni.
Aveva descritto quegli eventi storici come «disumani» e aveva presentato le condoglianze ai nipoti di coloro che persero la vita parlando di un «dolore condiviso» e per la prima volta, un anno fa, proprio in occasione del centenario dei massacri, le due comunità, la turca e l’armena, celebrarono gli insieme la memoria dello sterminio. La Turchia rifiuta il termine «genocidio». Sostiene da sempre che non vi era alcuna volontà di genocidio da parte dell’allora governo dei «Giovani turchi»; che non vi era un piano premeditato di eliminazione di un popolo, che si è trattato di massacri e deportazioni da inquadrare all’interno del contesto della prima guerra mondiale.
Oggi della questione armena, di genocidio o massacri, si parla apertamente e sono stati pubblicati libri e prodotti film su questa immane tragedia e le vittime del 1915 vengono commemorate ogni anno il 24 aprile ad Istanbul e in tante altre città della Turchia.
Si tratta di un cambiamento radicale, di una accresciuta consapevolezza di quegli eventi. Alcuni osservatori ritengono che la crisi che si è aperta tra Ankara e Berlino potrebbe mettere ancor più in pericolo il controverso accordo di riammissione dei migranti stipulato tra Unione europea e Turchia il 18 marzo scorso, voluto dalla cancelliera tedesca Merkel. Alla tenuta di questo accordo tiene moltissimo anche Ankara; con esso spera infatti di ottenere entro giugno la liberalizzazione dei visti d’ingresso per i propri cittadini nell’area Schengen. E ciò costituisce per la Turchia un punto fondamentale dell’accordo con l’Ue.
Tale questione si è arenata perché Ankara non ha alcuna intenzione di provvedere a riformare la legge liberticida antiterrorismo come prevista dai 72 criteri inseriti nell’accordo sulla liberalizzazione dei visti e ha minacciato di non rispettare il patto sui migranti se Bruxelles non provvederà ad abolire i visti.
E si teme che la crisi che si è aperta in queste ore tra Berlino ed Ankara possa ripercuotersi sull’accordo riguardante i migranti e che dunque il governo turco potrebbe esercitare un ulteriore pressione su Bruxelles per ammorbidire l’Ue sulla richiesta di riforma della legge antiterrorismo necessaria per procedere nel negoziato.

Il Sole 3.6.16
I tedeschi sono il primo partner commerciale turco .
Tra interessi e realpolitik
di Vittorio Da Rold

Nonostante il richiamo temporaneo dell’ambasciatore turco in Germania per consultazioni dopo il riconoscimento da parte del Bundestag del genocidio armeno ad opera dei turchi nel 1915, lo speciale legame che lega Berlino ad Ankara non si spezzerà.
Sono troppi gli interessi comuni tra i due paesi per arrivare a una crisi di più ampia portata. Ankara non può inimicarsi Berlino, primo partner commerciale con 22 miliardi di euro di interscambio, e principale protagonista dell’accordo sui migranti che porterà 6 miliardi di euro nelle casse turche e l’abolizione del visto Ue per i cittadini turchi se la Turchia rispetterà le condizioni poste da Bruxelles. Condizioni che prevedono la modifica della legge anti-terrorismo turca con cui Erdogan spera di far perdere il posto in Parlamento a molti deputati del partito filocurdo Hdp accusandoli di collusioni con il Pkk, gruppo separatista curdo inserito nella lista dei terroristi da Ue, Usa e Turchia. Una mossa che segue l’abolizione dell’immunità parlamentare, un’altra pericolosa decisione che potrebbe minare il già fragile equilibrio tra poteri nel Paese in favore dell’esecutivo .
Anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, unico rappresentante europeo presente al recente vertice di Istanbul sui migranti, ha un patto di ferro con il presidente Erdogan che gli garantisce la chiusura della via balcanica dopo aver assorbito 1,1 milioni di migranti nel 2015.
Il direttore della Direzione della Commissione Ue per l’Allargamento e le politiche di vicinato, Christian Danielsson, si è recato ad Ankara in questi giorni proprio per discutere le modifiche alla legge anti-terrorismo così da trovare un accordo. Nei giorni scorsi il premier turco Binali Yildirim aveva definito «ridicola» la discussione della risoluzione al Bundestag, per poi riferire i tragici fatti del 1915 a «dinamiche normali in tempo di guerra, avvenuti in qualsiasi territorio che abbia combattuto la 1° guerra mondiale».
Dietro le cautele di Ankara, che ha seguito lo stesso copione con Austria, Vaticano e Brasile quando si sono pronunciati a favore dell’esistenza di un genocidio armeno da parte dell’impero ottomano allora alleato con gli imperi centrali, tedesco e austro-ungarico, c’è anche il timore di richieste di risarcimenti da parte degli eredi degli armeni scampati alle persecuzioni, tra cui il più famoso è il cantante Charles Aznavour, una volta che Ankara dovesse ammettere la responsabilità della tragedia. Ma i conti con il passato, prima o poi, bisogna pur farli.

Repubblica 3.6.16
Antonia Arslan.
“Si rompe il muro di silenzio ora esistiamo un po’ di più”
La scrittrice italo-armena: “È un importante riconoscimento di fatti storici. C’è un parallelismo con la Shoah: in entrambi i casi, complicità tedesche”
di Giampaolo Cadalanu

UN PO’ di sollievo, l’idea che il peso di una tragedia si alleggerisca appena: è questo, per Antonia Arslan, l’effetto delle notizie che arrivano da Berlino. Studiosa e scrittrice, la Arslan ha raccontato al pubblico italiano il genocidio armeno nel romanzo La masseria delle allodole.
Signora Arslan, che significato ha la decisione del Bundestag?
«Il voto tedesco è molto importante, ma non per le conseguenze immediate: questi sono voti di principio, un riconoscimento dei fatti storici. È importante perché la Germania è sempre stata alleata della Turchia, anche ai tempi dell’Impero ottomano. Ci sono sempre stati solidi legami economici, che hanno permesso anche la costruzione della ferrovia Berlino-Bagdad, che hanno usato durante il genocidio. Per la verità, tutte le tecniche usate dal regime nazista per la deportazione degli ebrei erano già state sperimentate dai turchi con gli armeni…».
Che cosa cambia con la presa di posizione della Repubblica federale?
«La Germania resta una grande amica della Turchia, ospita milioni di lavoratori turchi, la cancelliera Merkel ha persino sostenuto Erdogan alle elezioni… Ma questo voto è l’affermazione della volontà di ristabilire la verità storica».
Ma nel concreto, che effetti avrà questa decisione?
«Non c’è un significato materiale, ma in termini ideali è un gesto significativo contro la pesante coltre di negazionismo. La decisione del Bundestag mina una costruzione menzognera che è stata imposta sulla Turchia e rinnovata Parlamento dopo Parlamento».
Ma perché in Turchia questo tema è considerato tabù? Come mai la cultura turca rifiuta persino di prendere in considerazione un ripensamento, a distanza di un secolo dai massacri?
«Questa è una domanda che si pongono tante persone di buon senso. Ma l’intero apparato della repubblica turca è basato su questa bugia. La gigantesca operazione di pulizia etnica ai danni delle minoranze viene completamente negata. Anche l’immagine del Paese costruita da Mustafà Kemal è segnata da travisamenti storici. E tutti devono partecipare a perpetuare questa rappresentazione: dai docenti universitari ai giornalisti, ai centri studi. Perché non si può ammettere la verità: per oltre un secolo abbiamo sostenuto una bugia».
Com’è possibile che nella società turca nessuno mostri imbarazzo per questa rimozione?
«Non è facile . C’è un libro, di cui ho curato da poco l’edizione italiana, che racconta il durissimo cammino verso la presa di coscienza: è firmato da Hasan Cemal, giornalista settantenne e nipote di Cemal Pasha, uno degli esecutori materiali dei massacri. Si chiama proprio: “1915: genocidio armeno”. Racconta la presa di coscienza di una persona cresciuta nell’adorazione del nonno. In questo momento il dibattito delle idee non attraversa una fase favorevole in Turchia, ma ci sono giornalisti e docenti universitari che hanno fatto un percorso di conoscenza ».
È curioso che ci sia questo collegamento con la Germania, un Paese che ha fatto i conti con il suo passato in maniera molto dura. Che ne pensa?
«In effetti c’è un parallelismo fra il “Grande male” armeno e la Shoah. E anche il genocidio armeno è stato compiuto con qualche complicità tedesca. Per questo è importante che oggi la Germania lo riconosca ».
Ma lei personalmente come ha reagito alla notizia del voto? Che cosa cambia, per lei?
«Io sono nata in Italia, non posso che esprimermi in italiano, ma c’è sempre questa consapevolezza di aver fatto parte di una famiglia distrutta. È una ferita mai sanata.Sprezzantemente ignorata. E quando un Paese la riconosce, come ha fatto l’Italia nel 2001, ci si sente un po’ più riconosciuti, si esiste un po’ di più».

Corriere 3.6.16
Antonia Arslan
«Segnale importante. Lo dimostra la reazione furiosa dei turchi»
intervista di Alessandra Coppola

Sono cento e un anno eppure c’è ancora bisogno di ribadirlo: «Non è stata una strage, per quanto grave; non si è trattato di un massacro come pure ce n’erano stati alla fine dell’Ottocento ad opera del Sultano Rosso. Nel 1915 il popolo armeno ha subito un genocidio».
Antonia Arslan, che cosa significa usare questo termine — genocidio — per indicare la morte di un milione e mezzo di armeni sotto l’Impero ottomano?
«Vuol dire che si è trattato di uno sterminio pianificato dall’alto, da un governo. Come poi succederà per gli ebrei, o in Ucraina, o ancora in Ruanda. Lo sterminio di una minoranza per motivi etnici, politici o religiosi». Arslan lo sa per vicenda personale, discendente del giovane armeno che venne a studiare medicina tra Padova e Parigi e si salvò per la guerra che gli impedì di tornare in Turchia. Ma lo ha appreso anche attraverso gli studi confluiti in saggi e nel romanzo, tra gli altri, «La masseria delle allodole» (Rizzoli, 2004), da cui i fratelli Taviani hanno tratto un omonimo film (2007). Della votazione del Bundestag viene a conoscenza in traghetto, in Laguna: «Pensi che sto andando all’Isola degli Armeni (San Lazzaro, concessa nel ‘700 dalla Repubblica di Venezia a un gruppo di monaci in fuga dalla Grecia, ndr ), che bella notizia, la aspettavo».
Che rilevanza ha, a distanza di un secolo, la dichiarazione della Camera tedesca?
«È importante. Il Parlamento europeo ha sancito già tre volte che la Turchia non può entrare in Europa senza riconoscere il genocidio degli armeni. Ma non ha il peso che può avere la Commissione Ue, o un parlamento nazionale. Quello di Berlino in particolare: da 120 anni la Germania è alleata dell’Impero ottomano e poi di Ankara. All’entrata in guerra nel 1914, il Reich mandò truppe per riorganizzare l’esercito ottomano, e siglò accordi commerciali. Sono stati i tedeschi a costruire la ferrovia Berlino-Bagdad, e operai orripilati da quello che stava accadendo salvarono armeni spacciandoli per lavoratori lungo i binari».
Il testo contiene anche una condanna del ruolo del Reich in sostegno agli ottomani…
«Già dopo le importanti parole del Papa (che il 12 aprile 2015 usò apertamente il termine «genocidio» per gli armeni, «il primo del XX secolo», ndr ) il presidente tedesco ne aveva parlato. Ma temevo ci potessero essere intralci tecnici, invece il testo è passato in aula, nonostante le recenti mosse della cancelliera Angela Merkel favorevoli alla Turchia».
Dopo tanto tempo, non è solo un riconoscimento formale?
«È un riconoscimento formale certo, ma la stessa reazione furibonda dei turchi fa capire che è importante. Un segnale forte. Negare il genocidio è un esercizio solo di ossessione. Il 98 per cento degli storici concorda. Dai diari del diplomatico americano Henry Morgenthau, ambasciatore a Costantinopoli tra il 1913 al 1916 (tradotti da Guerini e associati); alle testimonianze di ebrei che osservavano con attenzione e preoccupazione quello che stava accadendo perché temevano potesse succedere anche a loro (nel volume «Pro Armenia», Giuntina). Il termine stesso, genocidio, è stato coniato dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, che negli anni Venti, in anticipo sull’Olocausto dunque, aveva cominciato a studiare i massacri della popolazione armena, il primo genocidio del secolo».

La Stampa 3.6.16
L’Ue ai 28: sbagliato vietare Uber e Airbnb
Il documento della Commissione sulla sharing economy: spetta al consumatore scegliere
di Emanuele Bonini

«Spetta ai consumatori decidere quale servizio è il migliore». Jyrki Katainen, commissario europeo alla Crescita, gioca la carta dell’economia e della sue legge basilari per argomentare la proposta dell’esecutivo comunitario di lasciar spazio alla nuove iniziative di mercato. È la domanda a determinare l’offerta, e se c’è richiesta di Uber è bene non restare sordi, poiché si parla di un’iniziativa rientrante nel campo della cosiddetta «economia collaborativa», che solo nel 2015 ha prodotto redditi lordi complessivi per 28 miliardi di euro in un settore considerato «piccolo ma in rapida crescita».
Uber è la società degli Stati Uniti che offre servizi di trasporto passeggeri analoghi a quelli dei tradizionali taxi, ma a prezzi più bassi e in qualunque momento della giornata. Piace ai clienti, non solo perché low-cost. Le speciali «app» per smartphone permettono di avere il servizio a portata di mano, e le modalità di pagamento on-line risultano pratiche e comode. Gli operatori di sempre lamentano però la concorrenza sleale, e la compagnia americana è stata bandita in Spagna, Belgio e Francia (qui con tanto di proteste degli chaffeurs de taxis), e in Italia limitata all’offerta del solo servizio premium UberBlack a Roma, Milano e Firenze. Il nodo è la licenza che i comuni cittadini dell’alternativa ai tassì non hanno.
L’esecutivo comunitario capisce i problemi, così come le opportunità. La comunicazione intende regolamentare le nuove attività commerciali cui appartengono le iniziative proposte da Uber. Il testo non fa nomi, però dice che i fornitori di servizi «dovrebbero essere obbligati ad ottenere autorizzazioni o licenze dove strettamente necessario, con il divieto assoluto di attività da usare come ultima risorsa». Per chi non avesse capito, c’è Katainen. «Se pensiamo ad Uber, è comprensibile che gli Stati abbiano reagito come hanno reagito, perché devono rispondere alle normative nazionali». Ma ci sono digitalizzazione, nuove tecnologie e nuove richieste, e «i politici devono iniziare a considerare se e come cambiare le nuove regole per permettere nuove attività e nuove opportunità di lavoro».
La comunicazione della Commissione non impone nuove regole, pone un problema: ci sono nuove realtà che sono emerse, e in nome del mercato unico «serve un approccio omogeneo» per evitare ventotto sistemi normativi degli stessi fenomeni. È un qualcosa che va oltre Uber. Il documento «non è legato a una compagnia X o Y», enfatizza la responsabile Ue per l’Industria, Elzbieta Bienkowska. Ci sono altre realtà come BlaBlaCar o Airbnb, per citarne alcune. «Il nostro ruolo è quello di incoraggiare un contesto normativo che permetta ai nuovi modelli imprenditoriali di svilupparsi». È il mercato bellezza, e tu non puoi farci niente.

Corriere 3.6.16
Il referendum e le sue conseguenze sul futuro di Cameron
di Antonio Armellini

Per cogliere il senso del voto a favore o contro la Brexit , è importante partire da quel particolare impasto di identità e separatezza — di nazionalismi radicati e di nostalgie che aiutano le rimozioni — che è alla base dell’idea di britishness . Solo così si possono spiegare alcune posizioni difficilmente comprensibili a chi si trovi al di là della Manica, come l’ostilità verso normative quale quella sull’orario massimo di lavoro, vissute come una conquista sociale importante in tutto il resto del continente e avversate in Gran Bretagna dagli stessi lavoratori che protegge, in nome di un rifiuto aprioristico del dirigismo di élites burocratiche distanti, senza volto e soprattutto non inglesi.
Le argomentazioni dei sostenitori della Brexit scontano un rallentamento temporaneo dell’economia, presto compensato dall’indipendenza nazionale ritrovata, seguita dall’apertura verso un mondo che attende di commerciare con una Gran Bretagna «liberata», dalla soluzione del nodo dell’immigrazione, dal rilancio di una City sciolta dai lacciuoli brussellesi, e così via. A poco vale che tali previsioni vengano regolarmente demolite non solo da analisi ben più credibili, ma anche da tutti i principali partner i quali — dagli Usa in giù sino alla Cina e all’India — dicono senza mezzi termini di volere Londra all’interno dell’Ue. Vale a poco, perché la campagna della Brexit non si rivolge alla mente, ma alla «pancia» irrazionale degli elettori ed è qui che ha il suo vero elemento di forza. Il punto cruciale del costo economico di una fuoriuscita viene circonfuso di una serie di rassicurazioni fantasiose, condite di cifre opinabili quando non fortemente discutibili. Mentre su tutto plana lo spettro di una immigrazione incontrollata, destinata a cancellare identità e sicurezza della Gran Bretagna.
Per un Paese che non fa parte di Schengen — ed è un’isola da sempre ben controllata — rinunciare in via di principio all’apporto di una immigrazione da cui dipende molto del suo benessere potrebbe sembrare singolare. I toni si fanno a volte surreali. Un autorevole campione della Brexit , già membro di vari governi conservatori, ha sostenuto in un recente dibattito che — diversamente dalla Germania, per cui l’Europa ha rappresentato l’occasione imperdibile di una palingenesi democratica dopo l’orrore del nazismo — la Gran Bretagna «che la guerra, invece, l’ha vinta» non ha avuto bisogno di alcuna rilegittimazione e tantomeno ha oggi bisogno dell’Europa. È facile sorridere di simili considerazioni, ma esse trovano un ascolto maggiore di quanto molti, in altri Paesi, immaginano: su di esse ha fatto leva con successo la campagna della Brexit per riportare sul filo di lana una competizione che all’inizio la dava facilmente soccombente.
Il remain è rimasto impigliato in questa logica, da cui fa fatica a districarsi. L’Ue è in primo luogo un progetto politico; i nodi dell’economia e dell’immigrazione dovrebbero essere visti così, operando le mediazioni del caso, ma parlare di «progetto politico» a chi ha sempre rifiutato di vederla in questa chiave, equivarrebbe a una sconfitta certa. Industria, finanza, università si sono espresse a grande maggioranza per il remain , con argomenti cui si è anche riferito il governo per la campagna guidata dal Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne. Quello che obiettivamente dovrebbe essere un punto di forza, potrebbe però paradossalmente rivelarsi di debolezza: gli appoggi vengono tutti o quasi da quell’ establishment di cui la «pancia» diffida, mentre riscopre la seduzione trasversale della contrapposizione di classe.
La campagna della Brexit ha avuto buon gioco nel sostenere che il remain è espressione di interessi assai lontani dalla massa della popolazione, chiamata a sopportare per l’ennesima volta in silenzio l’ingordigia rapace delle classi dominanti. I suoi sostenitori sentono il fiato sul collo dell’avversario e hanno capito — forse non troppo tardi — che devono mettere la sordina ad argomenti razionali e puntare sull’avversione della «pancia» del Paese per i salti nel buio, per indurla a votare contro il cambiamento. È un gioco di paure incrociate che ha funzionato in extremis per il referendum scozzese e potrebbe farlo di nuovo. Ma non è detto.
Da qui al 23 giugno la partita si giocherà sulle percezioni, prima che sui fatti, e l’incertezza è reale. I bookmaker s, che in Gran Bretagna spesso ci colgono più dei sondaggi, continuano a dare la Brexit perdente e c’è da sperare. Resta il fatto che, nel giro di due anni, David Cameron ha messo due volte a repentaglio il suo governo, con referendum che si potevano, se non evitare, gestire meglio; prima sulla Scozia e ora sull’Europa. Comunque vadano le cose, il suo futuro politico appare tutt’altro che brillante.

Il Sole 3.6.16
Madrid. Non accadeva dal 2010
Disoccupati, la Spagna scende sotto i 4 milioni
di Luca Veronese

Il numero dei disoccupati è sceso in Spagna sotto i quattro milioni per la prima volta negli ultimi sei anni. La ripresa spagnola continua a rafforzarsi e potrebbe dare qualche vantaggio nella campagna elettorale a Mariano Rajoy in vista delle elezioni del 26 giugno. «Per la prima volta dal 2010 i disoccupati sono meno di quattro milioni. Il percorso che abbiamo scelto è quello giusto. Continuiamo così», ha commentato il premier conservatore su twitter. Nonostante i progressi del mercato del lavoro il tasso di disoccupazione resta altissimo al 21%, il più elevato in Europa se si esclude la Grecia. Mentre - secondo l’Ufficio nazionale di statistica - il 28,6% degli spagnoli è a rischio di povertà ed esclusione sociale.
Nel mese di maggio il numero complessivo di spagnoli iscritti agli uffici di collocamento è sceso a a 3,89 milioni: quasi 120mila in meno rispetto ad aprile. Un recupero senza precedenti per lo stesso mese. E i risultati positivi si confermano anche se si prende in considerazione il dato destagionalizzato. Del resto, a maggio, tradizionalmente un mese favorevole per il mercato del lavoro, è migliorato anche il dato sull’occupazione: secondo il ministero del Lavoro, la previdenza sociale ha ricevuto l’iscrizione di 198mila lavoratori raggiungendo così il totale di 17,7 milioni, un altro massimo dal 2010. «Sono dati positivi per i cittadini spagnoli. Sono numeri da rimarcare - ha detto il ministro spagnolo del Lavoro, Fatima Banez - perché dimostrano che lo sforzo di tutta la società spagnola sta aprendo una nuova era di occupazione e speranza. La Spagna sta andando avanti e l’occupazione sta migliorando».
Nel primo trimestre dell’anno l’economia spagnola è cresciuta dello 0,8% spinta soprattutto dai consumi delle famiglie. La Spagna sta mantenendo un ritmo di ripresa sostenuto e costante che solo a fine anno, secondo gli analisti, potrebbe cominciare a calare gradualmente. Secondo la Commissione europea, il Pil del Pese iberico dopo l’incremento del 3,2% raggiunto nel 2015, dovrebbe aumentare del 2,6% quest’anno e del 2,5% nel 2017. Più positive le stime del governo uscente che confida in una crescita più solida anche per rimettere in ordine il bilancio pubblico.
Gli ultimi sondaggi realizzati da Metroscopia per il quotidiano El Pais segnalano una situazione ancora di stallo: il voto di fine giugno potrebbe dunque modificare di poco gli equilibri tra i partiti che non sono riusciti a formare una maggioranza e un governo negli ultimi sei mesi. Il Partito popolare di Rajoy conquisterebbe il 29,9% dei consensi; l’alleanza di sinistra tra Izquierda e gli indignati di Podemos raggiungerebbe invece il 23,2% superando il Partito socialista al 20,2 per cento; mentre l’altro movimento nuovo, il centrista Ciudadanos, otterrebbe il 15,5 per cento.
Rajoy di nuovo punta tutto sulla ripresa economica e ha già promesso un taglio delle tasse sul reddito se sarà confermato al governo. E questo nonostante il deficit pubblico sia al 5,1% e il debito abbia superato il 100% del Pil.

il manifesto 3.6.16
Si apre la Conferenza di Parigi su Israele e Palestina, Netanyahu è contro
Medio Oriente. I rappresentanti di una trentina di Paesi occidentali e arabi si riuniscono oggi nella capitale francese per fissare i parametri di futuri negoziati tra israeliani e palestinesi. Netanyahu considera l'incontro una minaccia. Proteste in casa palestinese. Il Fplp accusa Abu Mazen di fare tutto da solo senza consultare l'Olp
di Michele Giorgio

GERUSALEMME In una Parigi piegata dal maltempo, con la Senna pericolosamente in piena e un Francois Hollande al minimo dei consensi per il Jobs Act che ha fatto infuriare i lavoratori, i rappresentanti di circa 30 Paesi occidentali e arabi (Italia e Usa compresi) si riuniscono oggi per un incontro internazionale sulla questione israelo-palestinese. Mancheranno proprio loro, israeliani e palestinesi. L’idea della Francia è che questo summit diventi il primo passo per arrivare il prossimo autunno a una Conferenza internazionale, questa volta anche con israeliani e palestinesi, che apra la strada alla soluzione dei Due Stati. Hollande e il suo governo si aspettano che dal vertice escano i “parametri” su confini, sicurezza, profughi palestinesi, lo status di Gerusalemme, le colonie ebraiche costruite nei Territori palestinesi occupati e lo sfruttamento delle risorse naturali. Parametri che dovrebbero segnare il percorso di ogni futura trattativa diretta tra israeliani e palestinesi, insieme ad un timing preciso per un accordo.
Non sorprende che Benyamin Netanyahu si sia scagliato contro il summit. Il premier respinge a muso duro la possibilità che la questione israelo-palestinese sia affrontata anche nel quadro di incontri internazionali e non più soltanto con l’inutile negoziato bilaterale, mediato dagli alleati americani, che in 20 anni ha solo prodotto fallimenti. «Se i Paesi riuniti a Parigi – ha protestato Netanyahu – vogliono far avanzare la pace, dovrebbero unirsi al mio appello al presidente palestinese Abu Mazen per arrivare a trattative dirette. Questa è l’unica strada per la pace, non ci sono alternative». Una posizione non condivisa dall’Autorità nazionale palestinese schierata a favore dell’iniziativa francese che, pensa il presidente Abu Mazen, rappresenta, forse, l’ultima possibilità per arrivare ad un accordo. Una posizione che non tutti i palestinesi condividono. Il Fronte Popolare (Fplp), la più importante delle formazioni della sinistra, chiede manifestazioni di protesta ovunque, anche all’estero. Il Fplp spiega che queste iniziative non mirano a realizzare i diritti palestinesi bensì a negarli, a cominciare da quello al “ritorno” nella loro terra dei profughi. Il Fronte popolare inoltre denuncia il “monopolio” dell’Anp che non ha presentato la proposta di partecipazione al vertice in Francia davanti all’Olp, per essere discussa da tutte le forze politiche palestinesi. Oggi è prevista la liberazione di una deputata e leader del Fplp, Khalida Jarrar, detenuta per oltre un anno da Israele.
Da settimane Tel Aviv tenta di ostacolare l’iniziativa francese. Netanyahu ha persino ripescato il Piano arabo di pace del 2002 che Israele non ha preso in considerazione per 14 anni, pur di sparigliare le carte. A nulla sono serviti gli sforzi di Parigi per convincerlo ad appoggiare l’incontro. Il ministro degli esteri Jean-Marc Ayrault, il premier Manuel Valls e l’inviato speciale di Hollande Pierre Vimont sono giunti in diverse occasioni a Gerusalemme, dove però si sono trovati davanti a un muro. La presenza oggi nella capitale francese del Segretario di stato Usa John Kerry, letta inizialmente da alcuni osservatori come uno schiaffo dell’Amministrazione Obama a Netanyahu, in realtà avrebbe il fine di evitare che l’incontro vada “troppo avanti” nella formulazione dei “parametri” di un eventuale negoziato. Indiscrezioni circolate nelle ultime ore dicono che Usa e Israele hanno avuto consultazioni su come affrontare insieme questa (piccola) sfida lanciata da Hollande per rilanciare la trattativa israelo-palestinese.

il manifesto 3.6.16
Gaza, il cemento-fantasma e la ricostruzione che non c’è
Gaza. Come funziona la ricostruzione? L'Onu si è inventato un sistema complesso, un fiume da cui partono tre torrenti. Ma è a secco: Israele blocca da mesi i materiali edili. Solo 2mila case ricostruite su 19mila
di Chiara Cruciati

GAZA Una donna guida tre capre dentro il perimetro dell’asilo. Prende un pallet di legno, lo appoggia all’ingresso di una delle aule e la trasforma in un piccolo recinto. Approfitta dello stop ai lavori per la ricostruzione della scuola distrutta durante Margine Protettivo dalle bombe israeliane: da settimane l’ingresso di cemento dentro la Striscia di Gaza è bloccato dalle autorità israeliane, convinte che non arrivi ai legittimi destinatari ma finisca nelle mani di Hamas per la ricostruzione dei tunnel sotterranei. Come tanti altri progetti anche questo, l’asilo di Umm al-Nasser, comunità a nord di Gaza, è fermo.
Sono trascorsi quasi due anni dalla fine dell’operazione militare che nell’estate del 2014 devastò come mai prima la Striscia di Gaza. In mezzo la promessa mai mantenuta della comunità internazionale di donare 5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione e un sistema di distribuzione dei materiali edili che differenzia tra progetti infrastrutturali di Qatar e Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati palestinesi), progetti delle organizzazioni non governative e ricostruzione di abitazioni da parte di privati. Ideato dalle Nazioni Unite e dall’inviato per il Medio Oriente Robert Serry, è stato immaginato come un fiume da cui partono tre torrenti diversi. Ma il fiume è quasi a secco.
I progetti di ricostruzione delle ong internazionali per rimettere in piedi scuole, cliniche, pozzi, reti idriche sono alimentati dal primo torrente e dal cosiddetto Grm (Gaza reconstruction mechanism): «Il Grm è l’ente che gestisce l’ingresso di materiali di ricostruzione a Gaza – spiega al manifesto Mitia Aranda, architetto dell’ong italiana Vento di Terra, impegnata nella ricostruzione dell’asilo di Umm al-Nasser – È formato da tre soggetti: il Ministero degli Affari civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, il governo israeliano e l’Unops, agenzia Onu che monitora il materiale introdotto».
«La procedura da seguire è la stessa per tutte le organizzazioni: si presenta il progetto e si seleziona una compagnia locale riconosciuta come legittima dallo Stato di Israele. Progetto strutturale e architettonico e contratto con la ditta locale vengono portati al Ministero di Gaza, con l’indicazione delle quantità e la natura di materiale necessario ai lavori. A quel punto il progetto  viene iscritto nel Grm. La ditta locale chiede lo sblocco delle quantità di materiali edili che saranno consegnati al distributore, anche questo locale e anche questo approvato da Israele. Il cemento viene quindi portato in cantiere e l’Unops ne monitora l’utilizzo».
Oggi di operai nel cantiere di Umm al-Nasser non ce ne sono. Il cemento non entra da settimane: la data prevista per l’inaugurazione dell’asilo (entro inizio luglio, la fine del mese sacro di Ramadan) potrebbe restare un miraggio.
Poco più a sud, nel campo profughi di Beach camp, gli operai si muovono veloci nel cantiere della scuola dell’Unrwa: a piano terra spostano i sacchi di cemento, al primo piano fissano le reti di metallo a protezione delle finestre. Il 72% dell’edificio è stato completato, si prevede di finire i lavori ad agosto, prima dell’inizio dell’anno scolastico. L’ingegnere Abdul-Karim Barakat ci fa visitare la scuola, un edificio di 42 classi a forma di U: «Oggi [19 aprile] abbiamo ricevuto una comunicazione dall’Access Coordination Unit dell’Onu che ci ha assicurato l’ingresso del cemento. Per il resto della Striscia l’accesso è stato bloccato, ma non per i progetti infastrutturali di Nazioni Unite e Qatar, che proseguono».
La ricostruzione è in stand by solo per le abitazioni civili e i progetti delle ong, qui si continua a lavorare perché Onu e Qatar hanno accordi bilaterali direttamente con Israele: il secondo torrente. Ma non mancano gli ostacoli: «Siamo comunque in ritardo di due mesi – ci spiega Barakat – a causa del lento afflusso dei materiali che Israele considera a doppio uso, metalli, legno, acciaio. Ovvero materiali che Tel Aviv reputa utilizzabili anche per la costruzione dei tunnel sotterranei. Per questo dobbiamo chiedere un permesso speciale, che richiede tempo. Le reti per le finestre, ad esempio, non arrivano da mesi». Per il resto il sistema è apparentemente lo stesso del Grm: si presenta il progetto, si indice la gara d’appalto e si indicano i materiali necessari. La compagnia locale assunta dall’Unwra, obbligatoriamente registrata alla Palestinian Union Contractors, gestisce poi i subappalti per le diverse attività di costruzione, dalla falegnameria all’idraulica.
A monte sta la linea diretta che dal 2010 collega le autorità israeliane all’Unrwa e che permette l’accesso di materiali edili senza grossi intoppi per i progetti infrastrutturali: «Il cemento non entra per la ricostruzione delle abitazioni civili – ci spiega il vice direttore dell’ufficio Unrwa della Striscia, David de Bold – perché Tel Aviv ritiene ci sia una ‘perdita’ nel sistema di distribuzione. Questo rallenta la ricostruzione delle case distrutte e danneggiate, seriamente provata anche dalla mancanza di fondi: secondo la Banca mondiale del denaro promesso dalla comunità internazionale è arrivato solo il 20%. L’Unrwa aveva chiesto 700 milioni, ne abbiamo ricevuti 270. Con quel denaro possiamo ricostruire 2mila case su un totale di 7mila di proprietà di rifugiati. Ciò significa che dobbiamo investire fondi per sostenere le famiglie sfollate: distribuiamo denaro alle famiglie rifugiate per pagare l’affitto, per un totale di due milioni ogni mese. Denaro che potrebbe essere usato per ridare loro una casa».
Case fantasma e decine di migliaia di gazawi ancora schiacciati dal peso dello sfollamento: ad oggi le unità residenziali ricostruite sono meno di 2mila su un totale di 12.576 abitazioni totalmente distrutte e 6.455 gravemente danneggiate, quindi inabitabili. Fuori, oltre il muro che assedia Gaza, c’è Israele che, dopo aver distrutto, oggi gestisce tempi e modi della ricostruzione. Mettendo in piedi un ingente giro d’affari: «Il 70% del costo di un edificio va per i materiali da costruzione – ci spiega J. A., cooperante che segue da vicino il sistema della ricostruzione – Dopo il golpe in Egitto il 2013, tutto il materiale entra da Israele. Fate da soli il calcolo, quanto incassa Israele con il business della guerra».
Sullo sfondo restano i privati, le famiglie di Gaza, individuate dal Grm come beneficiarie ma che di cemento ne vedono ben poco: è il terzo torrente, ma di acqua non ce n’è. «Mentre l’Unrwa ha condotto un censimento sulle case dei rifugiati demolite, il Ministero dei Lavori Pubblici di Gaza si è occupato delle abitazioni dei non rifugiati. 9mila i primi, 3mila i secondi: un totale di 12mila case. Cosa deve fare una famiglia per avere il cemento? Si registra al Ministero e viene inserita in una delle liste dei donatori, quella dell’Unrwa, quella del Qatar e quella del Kuwait, i due paesi che hanno messo sul tavolo il denaro per la ricostruzione dei privati. Entra quindi nel sistema del Grm, con la quantità di materiale accordata. Alla famiglia viene comunicato l’arrivo dei materiali e il distributore dove ritirarli. A monitorare il tutto è l’Unops che, con telecamere in ogni compagnia di distribuzione, controlla le consegne ai beneficiari».
Fuori dal sistema restano quelle famiglie che vorrebbero ampliare la propria casa o costruirne una nuova, vista la naturale crescita della popolazione. Hanno bisogno di cemento ma non rientrano nel sistema Grm: «È qui che entra in gioco il mercato nero: alcuni distributori bypassano i controlli e rivendono i materiali destinati ai beneficiari a chi beneficario non è, a prezzi molto più alti del previsto – continua J. A. – Se il Grm ha stabilito un prezzo di 520 shekel [120 euro circa] a sacco di cemento, ovvero 50 kg, sul mercato nero viene rivenduto a 1.500-2000 shekel [350-470 euro]».
La mancanza di cemento crea un gap, un vuoto dove le famiglie beneficarie restano invischiate: in molti chiedono prestiti per iniziare a ricostruire, aspettando di ricevere la donazione. Ma la donazione non arriva e ci si ritrova indebitati con banche e privati e con una casa ricostruita a metà. Chi può prova a fare economia del cemento che riceve: «Se il Grm ti riconosce 100 tonnellate di cemento, la quantità media per un’abitazione di 100 m², la famiglia ne usa di meno, risparmia un 5-6% del totale per rivenderlo poi sul mercato nero».
A Gaza il sentimento che prevale è la rassegnazione. Solo così, ci dicono, possono spiegarsi i 30 casi di tentato suicidio e i 5 di suicidio da gennaio, numeri impressionanti che raccontano la frustrazione di chi è stato spogliato della propria dignità. Sharif Hamad vive a Beit Hanoun, ha perso la sua casa (un palazzo di 8 appartamenti, dove vivevano 8 famiglie) e oggi vive in affitto. Da un anno è stato inserito nella lista del Kuwait insieme ad altre 1.150 famiglie ma ad oggi non ha ricevuto nemmeno un sacco di cemento: «Israele ha raggiunto il suo obiettivo – ci dice – Dall’ultima operazione voleva ricavare una tregua di 15-20 anni e l’avrà. Ci ha lasciato nel limbo della ricostruzione, o meglio della non ricostruzione, impegnati a garantirci un tetto sulla testa invece che a pensare ai nostri diritti di popolo sotto assedio. Lavorano sulle frizioni interne alla società, tra chi riesce a costruire e chi no, tra chi sfrutta il mercato nero per arricchirsi e chi è ancora sfollato. E Israele fa affari: qui a Gaza un sacco di cemento è venduto a 520 shekel, in Cisgiordania costa 380. Dove va la differenza? In tasca a Tel Aviv».

il manifesto 3.6.16
Solo il 3% dell’acqua di Gaza è idonea al consumo umano
Territori Palestinesi Occupati. Non rispetta i parametri internazionali anche l'acqua filtrata distribuita da società private e che beve gran parte della popolazione. L'allarme dell'Autorità Palestinese dell'Acqua: servono subito impianti di dissalazione ma i progetti procedono lentamente anche per l'embargo israelo-egiziano di Gaza
di Michele Giorgio

GAZA «Vieni avanti…parcheggia a destra. Il serbatoio dell’acqua è da quel lato». Tareq Yazji indica dove fermarsi all’autista dell’autobotte. L’uomo ferma l’automezzo e con gesti rapidi allunga un tubo e lo aggancia alla cisterna dell’abitazione. Più indietro i figli di Tareq si preparano a riempire tre grosse taniche. «Va avanti così da anni – ci spiega l’uomo – non abbiamo l’acqua potabile e dobbiano rifornirci con le autobotti. I bombardamenti (israeliani del 2014) hanno aggravato la situazione. In questa zona, tra Nusseirat e Khan Yunis, le autorità non sono ancora riuscite a riparare completamente la rete idrica. In ogni caso – aggiunge – quella che esce dai rubinetti serve solo per lavare, non si può bere». Tareq, sua moglie e i figli, come gran parte dei palestinesi di Gaza, bevono acqua filtrata. Circa l’85% degli abitanti della Striscia fa riferimento ai 150 impianti privati che filtrano l’acqua troppo salata di Gaza e la rendono potabile, o meglio “quasi” potabile. Studi recenti effettuati da Ong che operano a Gaza hanno messo in luce che il 46% dell’acqua filtrata è impura a causa di microrganismi presenti nelle autobotti
e un altro 20% a causa dei serbatoi vecchi e malandati usati dalle famiglie. Ciò che resta presenta altre impurità.
Tirando le somme, gli studi dicono che i palestinesi di Gaza hanno solo il 3% di acqua idonea al consumo umano. Bevono quella filtrata ma impura perchè non possono farne a meno. Poche centinaia di famiglie hanno la disponibilità economica di comprare ogni giorno l’acqua minerale per dissetarsi. Altre possono farlo occasionalmente , le rimanenti bevono l’acqua distribuita dalle autobotti. Il mese scorso Mazin Gunaim, capo dell’Autorità Palestinese per l’Acqua (Pwa, Palestinian Water Authority), ha rivelato che già alla fine di quest’anno la falda acquifera di Gaza non sarà più sfruttabile a causa della concentrazione di sale, dovuta in gran parte allo sfruttamento che per anni è andato oltre le possibilità, per le infiltrazioni di acqua di mare e per l’inquinamento. Un suo collega, Ahmad al Yacouby, ci avverte che la situazione è gravissima. «L’acqua a Gaza è un problema enorme e con molte facce», ci dice accogliendoci nel suo ufficio a Gaza city «c’è la questione dell’acqua da bere largamente insufficiente per 2 milioni di persone, poi quella dell’acqua filtrata non del tutto sicura, quella dei pozzi inquinati e naturalmente c’è la questione delle acque reflue non trattate legata alla poca energia elettrica disponibile e al funzionamento intermittente dei depuratori. 90 milioni di litri di acque non trattate o parzialmente trattate si riversano ogni giorno nel mare di Gaza. Senza dimenticare che 120.000 abitanti sono ancora scollegati dalla rete idrica pubblica e il 23 per cento della Striscia non è collegato alla rete fognaria».
L’anno scorso le Nazioni Unite avevano avvertito che Gaza potrebbe essere inabitabile entro il 2020. Questa condizione in realtà è già visibile in un territorio teatro di tre grandi offensive militari israeliane e di altre “minori” dal 2006 al 2014, con decine di migliaia di sfollati, “bloccato” da Israele ed Egitto, con livelli di disoccupazione tra i più elevati al mondo, senza risorse e con una popolazione che presto supererà i 2 milioni. «Il problema più immediato è l’acqua» ricorda Ahmad al Yacouby «al quale occorre dare una risposta rapida: servono almeno 200 milioni di metri cubi all’anno. Se teniamo conto che i 55 milioni di metri cubi di acqua della falda acquifera di fatto sono inutilizzabili, che l’acqua piovana non riusciamo per vari motivi a raccoglierla e che molti pozzi sono inquinati, è evidente che l’unica strada percorribile è quella della costruzione di più impianti di dissalazione e di dover trattare e purificare le acque reflue per utilizzarle in agricoltura o in altri settori».
Non è facile però raccogliere donazioni e finanziamenti per centinaia di milioni di dollari in un quadro politico complesso che vede la maggior parte dei Paesi occidentali boicottare il governo di Hamas che amministra Gaza. Inoltre il blocco israeliano all’ingresso di materiali che, sostiene Tel Aviv, potrebbero essere utilizzati dal movimento islamico a scopo militare, rende ardua la realizzazione di progetti minori ma ugualmente importanti per la popolazione civile. Secondo EWASH, una coalizione di ong e associazioni non governative, 30 progetti per l’acqua a Gaza sono a rischio per la carenza di attrezzature. Tareq Yazji non si fa illusioni. «L’acqua sarà sempre poca a Gaza – perché il governo (di Hamas), quello di Ramallah e gli occidentali promettono e non mantengono. Io so soltanto che oggi ho i soldi per comprare almeno l’acqua filtrata e che la mia famiglia può bere, quando non li avrò la mia famiglia morirà di sete».

La Stampa 3.6.16
Cogito, il robot poliziotto che smaschera i terroristi
Inventato in Israele, interroga i passeggeri e ne scopre le intenzioni
di Ariela Piattelli

Che cos’è? Da dove sarà venuto mai? Si chiama Cogito ed è il RoboCop che stana i terroristi. Viene da un’azienda israeliana, la Suspect Detection Systems Ltd, il robot poliziotto, che fa domande ai sospetti terroristi, ne analizza il comportamento e scongiura gli attentati. Ha il 95% di margine di infallibilità ed è già utilizzato in molti Paesi.
Un’invenzione complessa, ma duttile, semplice ed immediata nell’utilizzo. «La tecnologia di Cogito consiste in due sistemi diversi -. Spiega a La Stampa il Ceo dell’azienda Shabtai Shoval, che in passato ha servito l’esercito israeliano e ha lavorato nell’intelligence -. Cogito 4M è un sistema automatico che pone domande alla persona sospetta. Per esempio: siamo in un aeroporto e sottoponiamo al sistema un immigrato che viene dalla Siria. Cogito gli chiederà se è entrato illegalmente, se fa parte dell’Isis e se viene nel nostro Paese per fare un attentato o per altri motivi».
La persona sospetta, se è un terrorista, mentirà sicuramente, ma qui entra in gioco la tecnologia: «Dalla risposta il robot analizza le reazioni del sospetto ed i suoi comportamenti, come il livello di sudorazione, la voce e tutto il resto, per rivelare se sta mentendo». Le domande sono calibrate sul profilo del sospetto, il Paese di provenienza, la destinazione e su altri fattori. Negli aeroporti all’avanguardia, come il Ben Gurion di Tel Aviv, c’era già il personale addetto che interrogava i viaggiatori, ma il robot esclude l’errore umano, si spinge dove l’uomo non può arrivare, e ci offre scenari che anche nel film di fantascienza di Paul Verhoeven e nei libri di robotica di Asimov erano inimmaginabili. Il robot prende la temperatura a distanza dei viaggiatori.
Il calore che tradisce
«Il secondo sistema si chiama Cogito 3000 - continua Shoval -. Consiste in una telecamera termica, registra a distanza la temperatura corporea del sospetto, che è ovviamente diversa da quella di un normale viaggiatore, se ha con sé una bomba e sa che morirà nei prossimi cinque minuti. Questo sistema si usa negli aeroporti, negli stadi, all’entrata della metropolitana».
Ci sono voluti quattro anni per dare vita a Cogito, che prende il nome dalla filosofia cartesiana (Cogito ergo sum) ed è già attivo in Israele, Russia, India, America Latina, Panama, e in America (è stato finanziato dal Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti).
I sistemi non sono applicati soltanto contro il terrorismo, ma anche per dare la caccia a «semplici» criminali e trafficanti di droga. Nessun Paese europeo ha ancora acquistato il poliziotto tutto robot. «Questo perché gli europei sentono molto il tema della violazione della privacy, e Cogito legge nella mente - conclude Shoval -. Forse dovrebbero ripensare, alla luce degli attentanti di Bruxelles e Parigi, questo tema. Perché se si ha il sospetto che qualcuno stia per uccidere i tuoi figli, fargli domande per fermarlo è il minimo che tu possa fare».
Ricerca continua
Sono molte le aziende israeliane che hanno inventato robot antiterrorismo, in varie forme. La Magna BSP Ltd ha messo a punto un radar ottico capace di individuare droni: il sistema è impercettibile, non entra in conflitto con l’attività di altri strumenti, e non ostacola la comunicazione fra torre di controllo e aerei. È già in uso in molti aeroporti l’invenzione dell’azienda Farkash Security Technology, il software di riconoscimento facciale di un individuo in movimento che è capace di ricostruire un’identità in un istante. Così i robot poliziotti, che ci chiedono chi siamo, ci provano la febbre, e disegnano il nostro profilo, forse ci salveranno per davvero.

La Stampa 3.6.16
Hillary: “Non possiamo affidare le nostre atomiche a Trump”
La candidata democratica: è pericoloso, votarlo sarebbe un errore storico
di Pao. Mas.

Mandare Donald Trump alla Casa Bianca sarebbe «un errore storico». Hillary Clinton si è tolta i guanti ed è andata all’attacco del candidato presidenziale repubblicano, nel discorso più duro pronunciato dall’inizio della campagna elettorale: «Non è la persona cui possiamo dare i codici nucleari».
L’intervento di ieri a San Diego era stato presentato come una riflessione sulla politica estera, ma in realtà ha rappresentato l’inizio della sfida di novembre, segnando un netto cambiamento nella strategia di Hillary. Mentro lo Speaker della Camera Ryan annunciava di aver sciolto le riserve e di essere pronto a votare Trump, lei lo ha dipinto come un instabile: «È pericolosamente incoerente. Le sue idee non sono neppure idee. Non è in grado di fare il lavoro del presidente, non ha il temperamento della persona a cui possiamo affidare i codici nucleari. Ci trascinerebbe in guerra, solo perché qualcuno gli sta antipatico».
Hillary ha elencato le idee inaccettabili proposte da Trump: «Ha detto che più paesi dovrebbero avere le armi atomiche, inclusa l’Arabia Saudita. Vuole abbandonare la Nato, cioè gli alleati che ci aiutano a combattere il terrorismo. Promette di gestire la nostra economia come uno dei suoi casinò, portandoci al fallimento. Favorisce la tortura, anche per le famiglie dei terroristi, nonostante sarebbe un crimine di guerra. Dice che non ha bisogno di ascoltare generali e diplomatici perché ha un buon cervello, e che i prigionieri di guerra come John McCain non sono eroi. Elogia dittatori come Putin, e insulta alleati come il premier britannico Cameron, la cancelliera tedesca Merkel, e anche il Papa. Sostiene di avere esperienza di politica estera, perché ha organizzato Miss Universo a Mosca». Clinton ha accusato Donald di non avere idea di come affrontare il Medio Oriente: «Prima ha detto che non andrebbe mai in Siria, e la lascerebbe all’Isis. Poi non ha escluso di usare l’atomica contro lo Stato islamico, facendo quindi vittime civili in massa». Non ha «la minima idea di cosa sia il programma nucleare iraniano», e ha detto che se «la Corea del Nord vuole fare la guerra, si accomodi pure e si diverta». Per tutte queste ragioni Trump «non merita di guidare gli Usa, che non ha capito. Ci trascinerebbe lungo un sentiero molto pericoloso». A novembre la scelta sarà chiara: «Da una parte una visione dell’America dominata da paura e risentimento, e dall’altra una basata su fiducia e ragione».

il manifesto 3.6.16
In California tra Bernie e Hillary solo due punti
Primarie Usa. Un ex studente dell’università di Los Angeles, in pieno giorno, nel campus della Ucla, ha sparato al proprio professore di meccanica e ingegneria aerospaziale e poi si è suicidato
di Marina Catucci

NEW YORK Con il voto del 7 giugno finiranno queste lunghe primarie, ma la sensazione è quella di non essere ancora del tutto a riva. Mentre tra i repubblicani non è rientrato lo sgomento per avere Trump come candidato, il miliardario ha tenuto una conferenza stampa nella sua Trump Tower a New York, per rendere pubblica la propria donazione ai veterani, messa insieme durante la raccolta fondi a cui aveva partecipato invece che presentarsi al dibattito organizzato da Fox, durante l’inverno.
L’incontro è stato lo spunto per un nuovo attacco ai media statunitensi; Trump, circondato da reduci di guerra, ha accusato i giornalisti di non essere imparziali nei suoi confronti, chiamandoli «gente orribile, disonesti». Ma i dispiaceri per lui non erano finiti: poco dopo durante una tavola rotonda organizzata da Cnn si sono alzate voci di veterani non dalla sua parte, che hanno affermato di non gradire quei soldi e di non voler essere reificati e strumentalizzati ai fini politici di Trump. Nelle stesse ore si è anche diffusa la notizia della denuncia per truffa della defunta Trump University, di cui sono state rese note testimonianze e documenti, ed infine è arrivato un attacco di petto di Obama.
Il presidente durante un discorso tenuto in Indiana, ha dichiarato: «Se ciò che vi preoccupa è chi difenderà gli interessi dei lavoratori e sosterrà i ceti medi, ebbene allora non c’è neppure discussione. Se la mia presidenza non ha risolto tutti i problemi questa è una ragione in più per rieleggere i democratici e proseguire nel rilancio della crescita. I repubblicani invece abbasseranno i salari, elimineranno le protezioni per i lavoratori, taglieranno gli investimenti nell’istruzione, indeboliranno l’assistenza sociale, toglieranno a molti la sanità e lasceranno che sia la Cina a dettare le regole dell’economia globale». Secondo i sondaggi di Nbc, Wall Street Journal e Marist, il distacco tra Sanders e Clinton in California, lo stato chiave dell’ultimo giro di votazioni di martedì 7, è di due soli punti, 49% a 47%.
Oltre a ciò il senatore Bernie Sanders sta anche raccogliendo supporti tra superdelegati e al momento siamo a quota tre. Giovedì il vice presidente de partito democratico e senatore del New Hampshire, Martha Fuller Clark, si è aggiunta a Tim Vandeveer, presidente del partito della Hawaii e Elaine Harris del West Virginia, a dichiarare il proprio impegno a sostenere Sanders nel loro ruolo di super delegati. Questa raccolta di super delegati non porta Sanders nemmeno vicino al numero di quelli di Hillary, ma ne rafforza ulteriormente il peso politico specifico da portare alla convention per influenzare il programma elettorale democratico.
E mentre in California si giocavano le ultime mosse delle primarie, proprio da li è arrivata una notizia che ha ulteriormente evidenziato le differenza tra tutti gli attori in gioco, quella della 186esima sparatoria in una scuola americana negli ultimi quattro anni. Un ex studente dell’università di Los Angeles, in pieno giorno, nel campus della Ucla, ha sparato al proprio professore di meccanica e ingegneria aerospaziale e poi si è suicidato. Questo avvenimento ha riportato, ancora una volta, il tema del controllo delle armi al centro dell’attenzione con la consapevolezza che, un presidente democratico, opposto ad un partito repubblicano mai tanto debole, forse, nella prossima amministrazione potrebbe, finalmente, riuscire a portare un minimo di regolamentazione delle armi.

Corriere 3.6.16
I fan dello «Stato illiberale» che usano i migranti e rileggono la pax americana
di Massimo Franco

I cantori delle virtù di uno «Stato illiberale» si stanno moltiplicando: perfino in Occidente. E disegnano quella che è stata definita «rinascita autoritaria»; a volte vistosa, altre strisciante. Le tracce sono ben evidenti prima e oltre il 2015, anno spartiacque della grande migrazione in Europa; e prima di questi cinque mesi del 2016 con le nuove ondate di disperati. Hanno dunque a che fare solo in parte con il tema dei profughi mediorientali e africani. Semmai, confermano come il fenomeno sia diventato uno dei catalizzatori della deriva che minaccia di sgretolare la solidarietà e le istituzioni europee. C’è chi ricorda un discorso fatto nel luglio del 2014 a Baile Tusnad, in Romania, dall’attuale primo ministro ungherese, nel quale Viktor Orbán teorizzò appunto l’esigenza di costruire un nuovo «Stato illiberale».
Mettendo insieme in modo un po’ improprio Cina, Russia, Singapore, India e Turchia, Orbán spiegò che nella crisi finanziaria del 2008 il modello democratico aveva funzionato peggio di quello dei sistemi autoritari. Contro la tempesta economica si erano rivelati vincenti, a suo avviso, «sistemi che non sono occidentali, né liberali, che non sono democrazie liberali, e forse nemmeno democrazie». Allora, le sue parole sembrarono il delirio di un populista pericoloso e isolato. Due anni dopo, Orbán si è rivelato l’avanguardia di un’offensiva contro una democrazia europea in affanno; e contro le istituzioni che la riflettono, soprattutto. La sfida, dunque, va oltre la delusione e il logoramento che pervadono le politiche dell’Ue e degli Stati Uniti.
La filosofia alla base di questa deriva e del suo successo crescente è l’idea che a essere «illiberale» sia l’Europa odierna, «Bruxelles» intesa come sede del potere continentale. Di qui la voglia di rivincita degli Stati; il «no» a qualunque coordinamento con l’Ue nella vita dei governi nazionali, subito interpretato come ingerenza; e il tentativo di costruire sotto-alleanze che si affiancano a quelle tradizionali, cercando insieme di eroderne il potere e di svuotarle dall’interno.
Lo confermano i vertici ristretti di alcuni Paesi dell’Europa orientale in polemica con «la globalizzazione e i valori occidentali», che puntano il dito contro Commissione Ue, Bce e Fmi. Ma lo dimostra anche la tentazione di alcune nazioni del Nord protestante di costruire un nucleo «duro e puro» in funzione anti-mediterranea.
In questo schema, le ondate migratorie per terra e per mare sono un ottimo pretesto per accelerare processi in atto da anni; e per ridisegnare alleanze che non sono più scontate. Così, il Vecchio Continente si ritrova spaccato tra filoamericani polacchi, e filorussi come l’ungherese Orbán.
Ma Putin attira nella sua orbita anche la leader del Front National francese Marine Le Pen e il leghista Matteo Salvini: tutti accomunati dalla diffidenza verso le istituzioni occidentali, considerate corrotte dalle oligarchie finanziarie; e dalla riscoperta del nazionalismo in chiave autarchica e isolazionista, sospinto dalla crisi economica e dalla paura dell’immigrazione soprattutto islamica.
Secondo Michael Boyle, un analista dell’istituto di ricerca sulla politica estera di Filadelfia, sono vagiti di un «illiberal order» in arrivo: un modello che rifiuta i principi democratici come li abbiamo conosciuti finora. In un saggio sull’ultimo numero di Survival , il bimestrale dell’International Institute for Strategic Studies di Londra, la minaccia posta alle singole nazioni dai partiti populisti è descritta come un pezzo della crisi; ma non la più inquietante. Il timore è che siano destabilizzate e piegate al nuovo «credo» autoritario le istituzioni sovranazionali. Il contraccolpo che si teme è «un rigetto dell’ordine internazionale costruito dagli Stati Uniti alla fine della Seconda guerra mondiale. Il destino interno e internazionale del liberalismo sono legati più di quanto si pensi».
In fondo, le istituzioni che negli ultimi decenni hanno cercato di stabilire un ordine mondiale riflettevano i sistemi che le avevano promosse. Gli architetti delle Nazioni Unite nate nel 1945 a San Francisco su impulso dell’allora presidente Harry Truman «importarono» una parte del sistema democratico statunitense. Ma quello che si intravede adesso è un mondo multipolare, additato dal leader russo Vladimir Putin già nel 2007, che come contraccolpo sull’Europa e sull’Occidente implicherebbe anche un declino dei principi su cui si basava. Si tratta di una sfida tra un sistema di valori e un altro, favorito dagli errori dell’Occidente a guida statunitense. E per paradosso, il modello viene importato dal mondo non democratico e non occidentale.
D’altronde, lo stesso fenomeno di Donald Trump è il prodotto dei limiti della presidenza di Barack Obama e della radicalizzazione del Partito repubblicano. Il magma europeo sembra destinato non tanto a creare un nuovo ordine, quanto a restaurarne uno «che da tempo era solo in sonno», per dirla con Michael Boyle. Il risultato è di rendere i legami e le alleanze internazionali più volatili e intercambiabili; di fatto, più instabili.
Per gli Stati Uniti, in particolare, «la crescente ambiguità nella scelta sia degli alleati che dei nemici rappresenta un cambiamento sgradito rispetto alla prevedibilità della Guerra fredda». E l’Europa, con le sue contraddizioni e soprattutto con i suoi nazionalismi, sta diventando il laboratorio dell’«ordine illiberale» e della «rinascita autoritaria».
Fino a qualche anno fa, era chiaro da che parte stessero le ragioni e i torti. La novità è che oggi la narrativa definita «populista» e quella bollata come «elitaria e tecnocratica» si affrontano con un peso politico quasi uguale, perché ognuna ritiene di rappresentare i veri interessi del popolo europeo contro dinamiche disgregatrici. E il sospetto crescente è che, in assenza di una ricostruzione su basi nuove dell’identità e della strategia del Vecchio Continente, possa prevalere il modello del passato: con conseguenze delle quali già si avvertono i primi sintomi conflittuali.

Corriere 3.6.16
Attuale anche negli Usa l’idea del salario minimo
di Massimo Gaggi

Troppe diseguaglianze di reddito tra l’America ricca delle professioni innovative e i lavoratori impoveriti dei settori divenuti vulnerabili e poco remunerativi a causa di automazione e globalizzazione. Rabbia, democrazia in pericolo. Che fare? I politici impegnati nella campagna presidenziale danno risposte demagogiche, disancorate dalla realtà: a destra Trump è per lo stop agli immigrati in un Paese fondato sull’immigrazione e non certo sotto stress come l’Europa inondata di profughi dall’Africa e dal Medio Oriente. Poi c’è il no unanime di tutti i candidati al «free trade» col nuovo trattato commerciale Usa-Paesi del Pacifico, fortemente voluto dalla Casa Bianca. Serve qualcosa di più organico e gli esperti hanno cominciato a parlare - prima timidamente temendo di passare da neostatalisti, poi in modo sempre più convinto - di una sorta di salario minimo garantito, ribattezzato Ubi: «unconditional basic income». Se ne parla anche in Europa per via del referendum svizzero di domenica prossima: la proposta di salario minimo sarà quasi certamente bocciata, ma già il fatto che si discuta apertamente (e si voti) su un argomento fino a ieri tabù, dà l’idea dei rapidi cambiamenti in atto. Certo, c’è da chiedersi come farebbe Bill Clinton, l’«uomo dell’economia» nella Casa Bianca di Hillary secondo i piani della ex first lady , a rimangiarsi la sua riforma del «welfare» di 20 anni fa che legò il sostegno agli indigenti alla ricerca del lavoro. Ma poi tornano alla memoria gli anni Settanta quando un presidente repubblicano come Nixon andò molto vicino al varo di un piano universale di assistenza ai poveri. Ostacoli e controindicazioni sono enormi: oltre agli alti costi (più tasse e debiti) e al rischio di disincentivare la ricerca di un impiego, ci sono anche quello di alimentare frustrazioni (oltre al reddito, il lavoro garantisce un ruolo nella società) e, perfino, quello di un «welfare» concesso selettivamente, in modo più o meno consapevole, su base razziale. Negli Usa gli studiosi notano che gli Stati già oggi più generosi con i poveri, Oregon e Vermont, sono non solo progressisti, ma anche massimamente bianchi e bianchi sono la grande maggioranza dei percettori di sussidi. Mentre il sostegno è minimo in Stati come Louisiana e Arkansas dove l’indigenza colpisce soprattutto neri e ispanici. Tutto molto controverso, ma l’inazione può essere ancor più pericolosa.

Corriere e The Dallas Morning 3.6.16
Texas, la giustizia dei due pesi per i minorenni
La giustizia minorile che fa indignare. Due casi in Texas con sentenze diametralmente opposte. Ne discute Mike Hashimoto sul Dallas Morning News . Nel primo un sedicenne ruba della birra, guida ubriaco, travolge e uccide due persone che cercavano di aiutare un automobilista in difficoltà. Il giudice decide per la libertà vigilata. In una situazione quasi analoga i minorenni colpevoli sono finiti in carcere. La differenza, si chiede il quotidiano, è una sola: nel primo caso il responsabile proveniva da una famiglia ricca.

Corriere e La Tercera3.6.16
Cile, i cittadini saranno «genitori» della Costituzione
Una riforma che parte dal basso. Quella della Costituzione cilena. Lo sottolinea Felipe Harboe su La Tercera . Il processo di modifica vedrà coinvolti anche i cittadini con un processo inverso rispetto alla tradizione. Prima il parere del popolo, poi la stesura del testo da parte delle istituzioni. Il Cile fa i conti con una Carta che mostra i segni e l’usura del tempo. Un Paese che ha attraversato momenti difficili per la sua democrazia e che una nuova Costituzione ridarà slancio nel solco del valore delle idee che possono cambiare il Cile.

Corriere 3.6.16
L’Ucraina in guerra contro i giornalisti
di Francesco Battistini

Come faccio a sapere ciò che penso, finché non vedo ciò che dico? Il giornalismo è l’arte di fare domande e basterebbe girarne una semplice, questa di Edward Morgan Forster, che già cent’anni fa scriveva i suoi romanzi come fossero reportage, per chiedere conto dell’ultima censura al giornalismo e al buonsenso: come faremo d’ora in poi a raccontare la guerra ucraina se basterà essere andati nelle zone di guerra per passare da spie?
Da un mese è quel che accade a Kiev. Dove un sito web vicino al governo ucraino è entrato nella banca dati del nemico e per tre volte ha hackerato gli elenchi dei 7 mila giornalisti di tutto il mondo che sono andati nelle regioni dell’Est: terre occupate dai russi, che ovviamente richiedono un pass rilasciato dai filorussi. La pubblicazione del sito ha un titolo chiaro: «Canaglie». E ci sono dentro praticamente tutti, testate europee e americane, perché è così che lavora ogni inviato in ogni crisi ed è così anche laggiù: prima ci s’accredita a Kiev per coprire il fronte ucraino poi a Donetsk per seguire i territori occupati dai russi.
Tutti canaglie, dunque, spioni colpevoli d’aver «collaborato coi membri di un’organizzazione terroristica» e passibili d’espulsione dall’Ucraina per i prossimi dieci anni.
Tira una brutta aria per l’informazione, a Kiev. Le superiori ragioni della guerra spingono molti all’autocensura.
L’anno scorso, lo stesso sito web additò un paio di giornalisti che, due giorni dopo, furono trovati uccisi. E ora la pubblicazione delle liste, ripresa su Facebook dal ministro dell’Interno, ha ricevuto subito 3 mila «like», mentre è partita una petizione al presidente Poroshenko per bandire dall’Ucraina tutti i media che «collaborano col terrorismo».
Corsi & ricorsi: ai tempi della rivolta di Maidan, il governo filorusso di Yanukovich stabilì che bastava «diffamare su internet» le autorità per rischiare due-tre anni di galera. La piazza allora si rivoltò e sappiamo come finì: Yanukovich sui poster coi baffetti alla Hitler e, poche settimane dopo, in esilio. Stavolta, no: il nemico da combattere è ancora e solo chi sta con Putin. Il nemico esterno e interno. L’odiato Zar. Che i giornalisti, guarda un po’, li tratta allo stesso modo.



La Stampa 3.6.16
Il sacrificio dei Rosselli torna a parlare
Ripulito il monumento eretto in Francia sul luogo dove furono assassinati nel ’36
di Mario Baudino

Un altissimo monolite che sale verso il cielo, come una fiamma di marmo, in ricordo di Carlo e Nello Rosselli, assassinati il 9 giugno 1937, a Bagnoles-de-l’Orne, da una squadraccia di fascisti francesi, i «cagoulard», probabilmente su mandato di Galeazzo Ciano. Quel delitto politico scosse l’Europa, i funerali dei due leader di Giustizia e Libertà raccolsero a Parigi una folla immensa. Forse, commenta Valdo Spini che ai due eroi ha dedicato, oltre a varie pubblicazioni, il suo lungo impegno per il Circolo Rosselli fiorentino, fu l’ultima manifestazione internazionale contro le dittature europee.
I due fratelli vennero sepolti a Parigi (e in seguito traslati a Firenze). Ma all’indomani della liberazione si decise di ricordarli nel luogo del sacrificio, la località termale normanna. L’incarico fu affidato allo scultore Carlo Sergio Signori, che decise di rompere con la tradizione celebrativa, realizzando nel ’48 la sua prima opera astratta, e forse la prima di questo genere in Europa. Signori ha avuto ragione. Il suo linguaggio artistico non è affatto «invecchiato». La pietra, invece, sì. L’anno scorso Valdo Spini si accorse che necessitava di una profonda ripulitura.
Lanciò un appello, e la risposta venne dallo stesso laboratorio di Carrara che aveva eseguito l’opera: l’impresa Nicoli si fece carico, con l’assistenza del comune di Bagnoles, di riportare il marmo alla sua «luce» originaria e rendere leggibile l’epigrafe che ricorda i due eroi morti «sous le poignard de la cagoule». Domani l’inaugurazione, mentre oggi a Parigi Spini presenta il nuovo libro, a sua cura, Carlo e Nello Rosselli, testimoni di Giustizia e Libertà (ed. Clichy), biografia con immagini di un’eroica stagione. «Giustizia e Libertà e il socialismo liberale sono fra le poche cose che possiamo portare con noi nel XXI secolo», dice. Non è un bagaglio leggero.

il manifesto 3.6.16
Lezione d’antifascismo
Verona. Un’insegnante scrive agli studenti
di Patrizia Buffa

VERONA
Care ragazze e cari ragazzi,
l’anno scolastico volge al termine, eppure sento il bisogno di scrivervi perché vi ho sempre considerati soggetti di diritto e mai semplicemente studenti. Mi rivolgo a voi perché questo, dopo tanti anni d’insegnamento, è il mio modo naturale di situarmi nel mondo, perché è a voi che ho cercato di trasmettere, nel tempo, quel senso permanente di scomodità che consiste nel non sentirsi mai a proprio agio, nell’avvertirsi sempre un poco fuori posto o, come sosteneva Adorno, nell’interpretare la forma più alta di moralità non sentendosi mai a casa, nemmeno a casa propria.
Non ho mai avuto quel pudore che induce buona parte degli insegnanti a rimanere dietro un’impenetrabile coltre, in nome di una presunta neutra «professionalità». Sono sempre stata – oggi direbbe qualcuno – «politicamente scorretta». D’altronde vi ho sempre insegnato che non esistono narrazioni fattuali oggettive, ma che dietro ogni narrazione c’è una soggettività che rimanda a un preciso orizzonte valoriale. La memoria è oblio, direbbe Le Goff: quando ricordiamo, facciamo selezioni.
Dietro i «non-detti» ci sono i nostri «detti».
Provate a scrivere la vostra biografia in dieci righe e scoprirete che dietro la vostra narrazione si nascondono tagli e amnesie più o meno consapevoli perché nessuna narrazione potrà mai espungere la soggettività, nemmeno nella scuola delle «competenze». E se è vero che ogni nostro atto è implicitamente espressione dell’intera personalità di chi lo compie, comunque, con voi, mi sono sempre dichiarata apertamente: «ragazzi, la vostra insegnante, prima di essere insegnante, è antifascista».
In questa dichiarazione, declinata in una specie di patto d’aula, era ed è compresa la mia assunzione di responsabilità e di tensione morale nei vostri confronti. Era ed è un modo per ri-orientare l’azione didattica verso uno sforzo comune di giustizia, un impegno collettivo volto a realizzar-ci attraverso e non contro l’altrui dignità, fuggendo così dal rischio delle ovvietà e delle sclerotizzazioni. (…). Nel continuo fare riferimento ai valori della Resistenza e dell’antifascismo, volutamente sono stata con voi anti-commemorativa, poco ieratica, laica, fedele alla lezione di Calvino.
Ho inteso la Resistenza come «educazione in atto», come processualità in corso, mai come agiografia. Non mi sono mai piaciute le celebrazioni, né i «tre minuti di silenzio» dopo il suono della campanella: sono troppo museali, servono, ma solo apparentemente, a emendare coscienze.
La moralità nasce dal conflitto, non dalla paralisi, né dalle pacificazioni o dalle omologazioni. Non possiamo sottrarci a una storia comune, ma possiamo e dobbiamo discernere. Eppure, è inutile nasconderci – lo avverto incrociando lo sguardo di qualcuno di voi – quell’azione didattica, declinata sul «paradigma antifascista», sembra oggi un pezzo di antiquariato.
Certo, quel paradigma da troppo tempo è in crisi. E a questa crisi hanno magistralmente contribuito la pretesa di una pacificazione fondata sull’indistinzione, la smobilitazione delle coscienze critiche, l’atteggiamento bulimico nei confronti della memoria, che ha aperto la strada alle memorie in concorrenza e al revisionismo, rendendo tutto uguale e, dunque, tutto neutro. E mentre tutto ciò accadeva, nel subconscio dei meno attenti, passava, senza particolari azioni di contrasto, l’idea di essere parte di un progetto globale declinato su nuovi leaderismi.
Nel frattempo, mentre si consumava il processo di sdoganamento del fascismo, le parole cambiavano di senso e gli antifascisti diventavano gli «antagonisti»: una mutazione genetica che si ricapitola all’interno di ciò che Calvino avrebbe efficacemente definito «antilingua». (…).
L’antilingua è ciò che ci allontana dal senso, dalla familiarità, dai fondamenti. Così stiamo perdendo lo status di antifascisti e stiamo diventando gli antagonisti, i perturbatori, i destabilizzatori, almeno per le vestali del dettato di J. P. Morgan e dei liquidatori a buon mercato delle Costituzioni antifasciste.
Non è stato poi così difficile partorire questa mostruosità: l’antifascismo, in questo paese non si è mai costituito quale reale nervatura della nostra memoria collettiva. (…). Il risultato è che, a colpi di revisionismo, abbiamo superato anche le omologazioni tra vittime e carnefici: i nuovi fascisti che fanno marcette su Roma diventano i «bravi ragazzi» e gli antifascisti diventano gli «antagonisti», con tutta la carica semantica di negatività che il termine comporta per i media mainstream.
Chiudo questa lettera, cercando di neutralizzare l’amarezza con una bellissima metafora di Bloch: «il bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Io continuerò, per quanto mi sarà possibile, a fare l’orco. Continuerò a interpretare il mestiere d’insegnante sollecitandovi a non agire mai in nome di un presunto «Befehl ist Befehl» e, a settembre, quando incontrerò nuovi studenti, per prima cosa dirò loro: «ragazzi, la vostra insegnante, prima di essere insegnante, è antifascista».
Patrizia Buffa, insegnante al liceo «Girolamo Fracastoro» di Verona


La Stampa 3.6.16
Tutti insieme retoricamente
Da Ulisse a Obama, l’arte oratoria attraverso i secoli in uno studio di Adriano Pennacini: le ricette per avvincere e convincere, infiammare e commuovere
di Alberto Sinigaglia

C’è un collegamento tra Odisseo che si presenta nudo a Nausicaa e Matteo Renzi che si presenta in cravatta al Senato? C’è, sicuro. E c’è tra Pericle e Beppe Grillo, tra Demostene e il Pontefice, tra Cicerone e il presidente degli Stati Uniti. È la retorica, la tecnica della comunicazione persuasiva. «Vero impero, più vasto e più tenace di qualsiasi impero politico», dice Roland Barthes. «Ha digerito regimi, religioni, civiltà. Moribonda fin dal Rinascimento, impiega tre secoli a morire e non è certo se sia morta». Infatti non lo è, se arriva a protagonisti d’oggi l’antologia delle Edizioni dell’Orso di Alessandria, nella quale Adriano Pennacini scandaglia Discorsi eloquenti da Ulisse ad Obama e oltre con una giunta fino a papa Francesco (pp. 597, € 50).
Giusto cominciare dal re di Itaca e da Omero, che ne cantò la sagacia oratoria. Sull’isola dei Feaci è solo un naufrago «coperto di salso, orribile». Si copre i genitali con un ramo, avanza «come un leone», le «fanciulle dai bei capelli» fuggono. Solo la figlia di Alcinoo rimane. L’eroe decide di parlarle da lontano, pronuncia «un discorso dolce e accorto: «Ti abbraccio le ginocchia, signora, sei dea o mortale? (...) Sono scampato al mare color del vino ed era il ventesimo giorno da che le onde e le tempeste impetuose mi trascinavano dall’isola Ogigia; ora mi ha gettato qui un demone, perché anche qui io soffra sventure».
L’Italia «arrugginita»
Passa il tempo e il 24 febbraio 2014 a Roma il presidente del Consiglio incaricato non abbraccia le ginocchia ai senatori, ma si rivolge loro «in punta di piedi, con il rispetto profondo, non formale, che si deve a quest’Aula (...), con lo stupore di chi si rende conto di essere davanti a un pezzo di storia». Chiede la fiducia per guarire «un Paese arrugginito, un Paese impantanato, incatenato da una burocrazia asfissiante».
Stessi ingredienti: utilità, ossequio, adulazione, pietà (Odisseo per la sua sventura, Matteo per l’Italia incatenata). Ma ben altro scopre la lente di Pennacini, professore emerito dell’Università di Torino, traduttore per Einaudi delle Guerre di Giulio Cesare e dell’Istituzione oratoria di Quintiliano. Scienziato della lingua e dell’eloquenza, disseziona i testi, ne soppesa il lessico, l’esordio, l’epilogo, le tecniche seduttive.
Dall’Antigone di Sofocle sceglie il discorso ingannatore di Creonte. Dalle Storie di Erodoto, quello minaccioso di Alessandro I agli Ateniesi. Da Tucidide l’epitafio di Pericle per i caduti della guerra del Peloponneso.
Poi Lisia contro Eratostene superstite dei Trenta Tiranni, Ippocrate e l’importanza dell’educazione, Demostene sulla pace, Catone il vecchio dalla parte dei Rodiesi in Senato, Cicerone contro Gaio Verre e a favore di Milone. Non mancano Cesare, De bello gallico, con il discorso del nobile Critognato ad Alesia assediata, né Sallustio, Bellum iugurthinum, con l’orazione di Gaio Mario all’assemblea popolare.
Il «grido di dolore»
Dall’allocuzione di Attila agli Unni si può balzare al discorso breve e concreto che Napoleone rivolse in italiano ai rappresentanti della Repubblica Cisalpina. O a quello di Cavour al Parlamento Subalpino per l’abolizione del foro ecclesiastico. O al «grido di dolore» di Vittorio Emanuele II. O al proclama di Garibaldi che sta per salpare con i Mille e si rivolge agli «Italiani» perché non lascino i siciliani insorti a combattere da soli «i mercenari del Borbone, (...) quelli dell’Austria e quelli del Prete di Roma».
Grida Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, annuncia alle «camicie nere della rivoluzione» che il maresciallo Badoglio ha conquistato Addis Abeba. Prega Yitzhak Rabin firmando la Dichiarazione di principi con Arafat alla Casa Bianca nel 1993: «Lasciate che dica a voi, Palestinesi, che siamo destinati a vivere insieme sullo stesso suolo. (...) Basta col sangue e le lacrime. Basta. Non abbiamo desideri di vendetta... non nutriamo odio nei vostri confronti. Noi, come voi, siamo gente... gente che vuole costruire una casa, piantare un albero, amare, vivere al vostro fianco con dignità, in affinità, come esseri umani, come uomini liberi (...). Preghiamo che arrivi il giorno in cui tutti noi diremo addio alle armi».
Metafore e anafore
Tra lingue originali e traduzioni, connessioni e simmetrie, metafore, anafore, Pennacini scopre le trame oratorie anche di Lenin, Einaudi, Pertini, Berlusconi. Si sofferma sugli impeti grillini e sulle sfumature dei tre ultimi Papi. Decritta i segnali per avvincere e convincere, infiammare e commuovere. Provvidenziale giacimento di esempi e di note per gli studiosi, guida i comuni lettori a capire perché certi discorsi siano passati alla storia e a capirla meglio.

La Stampa 3.6.16
Nelle segrete di Palermo le vite spezzate dei rinnegati
Le celle dell’Inquisizione nel complesso monumentale dell’Università raccontano le pene di chi si convertiva per forza e per calcolo all’islam
di Laura Anello

È il carcere segreto dell’Inquisizione spagnola, con le pareti delle celle ricoperte di graffiti, dipinti, preghiere dei prigionieri. Il testimone di una gigantesca macchina di malagiustizia che - dal Cinquecento alla fine del Settecento, tempi in cui la Sicilia faceva parte del Regno di Spagna - stritolò almeno 6500 uomini e donne. Tra loro, centinaiadi rinnegati, cioè cristiani passati dall’altra parte della barricata, nel mondo musulmano: un esercito di uomini che giuravano fedeltà ad Allah dopo essere stati presi in schiavitù dai corsari «barbareschi» o in perfetta libertà.
Un popolo sospeso tra due mondi, rimpallato da una sponda all’altra del Mediterraneo - la Sicilia e la costa africana - e costretto a cambiare religione due, tre, anche dieci volte nella vita. Bastava, da cristiani, diventare schiavi dei «turchi» per proclamarsi musulmani recitando la formula rituale e accettando la circoncisione. Ma bastava riapprodare sulle sponde dell’odierna Europa per finire nelle grinfie del Tribunale dell’Inquisizione di Palermo, accusati di eresia.
Tra Allah e Gesù Cristo
Un ping pong continuo tra cristianità e islam. C’erano vite che in cinquant’anni si dividevano a metà tra abluzioni rituali e preghiere a Gesù Cristo, tra divieto di bere vino e rispetto cattolico dell’astinenza dal mangiar carne il venerdì. Di che religione erano? Difficile rispondere. E la domanda è tanto più inquietante adesso, in tempo di estremismi e rigide contrapposizioni.
Gli ultimi studi considerano che nel XVI secolo, il «periodo d’oro» dei rinnegati, oltre trecentomila cristiani saltarono il fosso, tanto che ad Algeri arrivarono a costituire quasi la maggioranza della popolazione. Appena tre secoli fa era il mondo musulmano a offrire riconoscimenti e opportunità di crescita sociale ed economica, quel mondo a dare - si direbbe oggi - più possibilità di carriera. E così si proclamava fedeltà a Maometto non soltanto per costrizione.
Il carcere è riemerso nel 2004 nel complesso monumentale di Palazzo Chiaromonte Steri e ancora adesso è un palinsesto tutto da decifrare. Racconta storie straordinarie, come quella di fra Diego La Matina, l’eroe «di tenace concetto» protagonista di Morte dell’inquisitore di Leonardo Sciascia, il prigioniero che il 24 marzo 1657 riuscì a ferire a morte l’inquisitore che lo interrogava. Nel carcere è stato ritrovato il luogo del delitto.
Su una parete intera spicca il disegno di un prigioniero, Francesco Mannarino, catturato a tredici anni mentre pescava sulla costa di Palermo. Un dipinto tracciato con il colore rosso che i prigionieri ricavavano grattando il cotto del pavimento delle carceri. Il suo processo è stato ritrovato negli archivi della Reale Inquisizione di Madrid: a Palermo i documenti furono tutti bruciati, quando nel 1782 il viceré Caracciolo - amico degli Illuministi - decise di abolire il Tribunale liberando le ultime tre donne accusate di stregoneria. Un prezzo politico da pagare, quel rogo, per cancellare i nomi di tutti coloro - spie, delatori, collaboratori - che sul carro dell’Inquisizione erano saliti per averne benefici, prebende e garanzie di impunità.
Una storia emblematica
Ebbene, Francesco Mannarino ha una storia emblematica. Il giovane, rientrato a Palermo, si presenta spontaneamente al Tribunale con il padre: racconta di essere rimasto in cuor suo sempre fedele alla religione cattolica e di essere riuscito a liberarsi dopo aver ucciso il ràis di una feluca barbaresca. È il solito ritornello per evitare l’incriminazione. Ma tre testimoni lo accusano di raccontare il falso. Due sostengono di avergli sentito dire in Berberìa (l’attuale Maghreb) che lì la vita era migliore, e un altro rivela addirittura che Mannarino era fuggito volontariamente dall’altra parte del Mediterraneo. Il ragazzo viene quindi catturato, ma si difende denunciando a sua volta due dei testimoni, che lo accuserebbero per vendetta. Viene creduto e assolto. Come lui altre migliaia.
In senso opposto le conversioni erano molto rare. Pochi, pochissimi musulmani diventarono cristiani. L’unica clamorosa conversione - come racconta Lucetta Scaraffia nel suo Rinnegati - fu nel 1646 quella del principe tunisino Ahmed Khodja, fuggito in Sicilia, battezzato con una cerimonia pubblica e accolto con tutti gli onori. Peccato che qualche anno dopo, incapace di inserirsi nel nuovo mondo, abbia deciso di tornare in patria e alla sua religione. E che più tardi sia stato di nuovo tentato di fuggire nel mondo cristiano, sempre sospeso, sempre inquieto. Vittima, o prigioniero, di due mondi lontani e vicinissimi.

Repubblica 3.6.16
Fra ’500 e ’600 furono tanti i vantaggi per le città che aprivano le porte a chi veniva espulso dal proprio Paese
Quando i migranti erano portatori di ricchezza
di Adriano Prosperi

Questo testo è una sintesi dell’intervento che Adriano Prosperi legge alle 11 di oggi al festival dell’Economia di Trento. Il festival è iniziato ieri e prosegue fino a domenica. Oggi sono in programma, fra gli altri, Christian Dustmann, Federico Rampini, Raffaele Cantone e Carlo Calenda.
Domani Ignazio Visco, Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan e domenica Maria Elena Boschi e Michael Spence

Il contesto in cui viviamo è tale da mettere definitivamente fuori uso ogni residuo di idea della storia come percorso ascensionale, progressivo della cosiddetta civiltà europea. Davanti al mare che inghiotte ogni giorno vite umane e alle folle di migranti che si ammassano davanti ai muri alzati dalla paura della nostra sedicente Unione Europea, gli studiosi del passato sembrano aver poco da dire: come l’angelo di Walter Benjamin, quella che si vede della storia è l’immagine di una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine. E tuttavia dallo studio di altre migrazioni di popoli accadute nel passato emergono constatazioni che possono avere qualche interesse per le discussioni attuali: per esempio quella sui conflitti delle cosiddette “identità”.
C’è stato un tempo in cui il Mediterraneo fu già lo scenario di tragedie simili a
quelle attuali: accadde esattmente all’epoca in cui la formazione delle grandi monarchie nazionali moderne avvenne al prezzo dell’intolleranza religiosa come strumento per formare una “identità”, cioè un sentimento collettivo di appartenenza. La vicenda si può far cominciare dal 1492, con la migrazione di centinaia di migliaia di ebrei dalla Spagna dove l’unificazione di popoli di culture, lingue e religioni diverse sotto un solo sovrano avvenne al prezzo dell’espulsione delle minoranze religiose. Seguì tra il 1607 e il 1614 l’espulsione della ancor più numerosa minoranza dei “moriscos”, nonostante che si fosse piegata al battesimo. Fra queste due date la frattura religiosa dell’unità cristiana aveva intanto obbligato numerose comunità europee a spostarsi verso stati dove fosse possibile praticare la loro religione diventata un’eresia per il luogo dove abitavano. Il principio che legava la religione di un popolo a quella del sovrano territoriale , sancito con la “pacificazione religiosa” di Augusta, risolse il problema di come garantire la sopravvivenza di strutture statali davanti alla diffusione inarrestabile di laceranti conflitti religiosi tra le ortodossie in lotta.
Lo studio di quel che accadde allora nel Mediterraneo e in Europa ha proposto scenari tragici ma con qualche dato a favore di chi ritiene che l’afflusso di gruppi umani in cerca di lavoro e portatori di altre culture possa essere un’occasione positiva e di crescita per le società disposte ad accoglierli.
Nel caso degli ebrei sefarditi come in quello dei “moriscos” ritroviamo molti aspetti delle tragedie attuali: navi affondate o respinte dai porti cristiani con un carico umano esposto alla fame e alla peste, uomini, donne e bambini abbandonati su coste ostili, esposti a finire sui mercati del lavoro schiavile e della prostituzione (allora molto fiorenti). Il numero delle vittime fu altissimo. Quantificarlo è difficile, ancor più di quanto lo sia oggi quello degli annegati nel Mediterraneo.
Ma ci furono alcuni casi in cui si aprirono ai migranti possibilità di insediamento. È noto il caso del duca di Ferrara che aprì le porte del suo stato agli ebrei spagnoli e li tutelò dall’intolleranza religiosa seminata nel popolo dalla Chiesa: ne ricavò così vantaggi economici e regalò alla città e allo stato un grande arricchimento civile e culturale. E anche il granducato di Toscana aprì agli ebrei portoghesi in fuga la possibilità di insediarsi nell’area di Livorno : le leggi “Livornine” (1593) ne garantirono la sicurezza. Livorno ne ricavò uno sviluppo economico e culturale che la rese il porto maggiore del Mediterraneo e una vera capitale culturale aperta alle idee di tolleranza dell’Illuminismo.
Quanto ai“moriscos”, le ricerche storiche hanno individuato alcuni, rari casi di apertura, accanto al prevalente sfruttamento selvaggio della merce umana e a una duplice violenza religiosa che si esercitò contro chi, in quanto battezzato, era apostata per l’Islam però veniva intanto rigettato come apostata dagli stati cristiani. Ma non mancarono tentativi di attirarli per ripopolare aree da bonificare e mettere a coltura o rilanciare attività commerciali. E ci furono forme di insediamento diffuso nella grande città (Napoli) o in aree costiere dove furono pacificamente accolti dalla popolazione.
In tutti questi casi la produzione di identità collettive obbliga- torie da parte dei grandi Stati nazionali e delle rispettive Chiese dette vita a forme di intolleranza e di rifiuto preconcette che non ebbero nemmeno bisogno per alimentarsi della presenza effettiva dell’”altro” (l’ebreo,l’infedele). Invece l’immissione effettiva di immigrati di diversa cultura e/o religione, ben lungi dal creare conflitti sociali e impoverimento, si rivelò fonte di progresso economico e culturale. La regola trova conferma nei movimenti di minoranze religiose interne all’Europa: come quella delle 55 famiglie italiane di Locarno emigrate a Zurigo a metà ‘500 per fedeltà alla scelta religiosa riformata; o quella degli ugonotti francesi che nel ‘600 si spostarono a Ginevra e a Erlangen portandovi un sapere e uno spirito d’iniziativa che dette frutti (si pensi all’industria degli orologi). E ci sono tanti altri casi da prendere in esame per rileggere aspetti poco noti della moderna storia europea e fare i conti con le intolleranze “identitarie” antiche e moderne che la caratterizzano ma anche con gli esperimenti positivi degli innesti che vi furono.
Tutta questa materia si offre oggi come un campo di studio per una storiografia spinta a diventare non più il sapere egoista di culture chiuse ma scienza dell’alterità, “xenologia”.

Repubblica 3.6.16
Habermas insiste “Heidegger? Nazista senza rimorsi”
ROMA.
«Heidegger è stato un nazista privo di rimorsi». È il giudizio senza appello che Habermas ha rivolto al grande filosofo tedesco in un’intervista pubblicata su
Vita e pensiero.
Habermas esprime sorpresa verso «il tentativo di alcuni colleghi di sublimare dal punto di vista della storia dell’essere l’antisemitismo di Heidegger». Ed aggiunge: «Trovo davvero assurdo che i Quaderni neri siano trattati come elemento nuovo ». Vengono ricordate le lettere antisemite del filosofo alla moglie e su alcuni libri, come Introduzione alla metafisica, Habermas dice che sono percorsi dallo “spirito del fascismo”. Resta salva però l’importanza filosofica di Essere e tempo.

Vita e Pensiero è la rivista culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il suo sito è qui
http://rivista.vitaepensiero.it/

Repubblica 3.6.16
Né paure né buonismi L’islam visto da vicino
Il nuovo libro di Lilli Gruber è un viaggio nelle comunità musulmane in Italia
di Lucio Caracciolo

Il nuovo libro di Lilli Gruber è un viaggio nelle comunità musulmane in Italia. Alla ricerca di un’integrazione
L’islam è diventato un’ossessione che imprigiona i nostri pensieri e i nostri comportamenti. Una paura che rischia di farci perdere di vista la realtà e la misura delle cose. Minacciando di spingerci a un catastrofico scontro di civiltà, dal quale usciremmo perdenti. Per questo è importante provare a capire che cosa sia concretamente, nelle sue mille accezioni e interpretazioni, questa religione prescrittiva con la quale, ci piaccia o meno, dovremo fare sempre più i conti nella nostra vita d’ogni giorno.
Il viaggio che Lilli Gruber ha intrapreso nella galassia islamica nostrana, descritto in Prigionieri dell’islam (Rizzoli), è un eccellente antidoto alla paura e un’informata guida alla scoperta delle contraddittorie facce di un mondo che è ormai anche il nostro.
L’inchiesta di Gruber gira attorno al triangolo terrorismo-migrazioni- integrazione: una minaccia permanente, con la quale dovremo abituarci a convivere senza cessare di combatterla; un fenomeno strutturale — non un’emergenza — ricco di opportunità e carico di pericoli; una necessità, per evitare che l’Italia si trasformi in un arcipelago di ghetti, l’uno contro l’altro armati.
Prigionieri dell’islam non è un trattato ideologico. Non pretende di offrire la ricetta definitiva. È un’inchiesta a tappe, che si dipana dagli approdi siciliani dei migranti, esplorati attraverso le voci incrociate di chi arriva e di chi accoglie, alle strutture di sicurezza e d’intelligence che ogni giorno cercano di sventare i progetti dei terroristi, di disarticolarne le reti, alle moschee formali e informali (o segrete) che punteggiano il nostro panorama urbano, alle analisi di chi per professione studia l’islam.
Mentre respinge le terribili semplificazioni dei teorici (pratici) della “guerra santa” all’islam, Gruber si tiene lontana dal “buonismo” che tende a negare i problemi della convivenza e soprattutto dell’integrazione dei musulmani in Italia. In particolare della seconda generazione, quella nata e cresciuta nel nostro paese, che qui cerca spazio, lavoro, identità riconosciuta.
Impressionanti al riguardo le testimonianze raccolte in alcuni luoghi di preghiera islamici, in cui la propaganda wahhabita, finanziata dalle petromonarchie arabe del Golfo, distribuisce il suo verbo repressivo e fanatizzante. Come il libriccino diffuso nella moschea romana di Centocelle, nel quale si descrive come “battere le moglie” che non si assoggettasse alle volontà del marito.
L’importante, conclude Gruber, è liberarsi dal pensiero convenzionale, dai facili slogan. Insomma, disobbedire alle “verità” ricevute che incitano alla violenza per riconquistare la nostra libertà di giudizio e aprire gli spazi dell’integrazione. Senza la quale le conquiste laiche dell’Occidente non potrebbero sopravvivere.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
La seconda generazione, nata e cresciuta qui cerca spazio, lavoro e un’identità riconosciuta
IL LIBRO
Prigionieri dell’islam
di Lilli Gruber ( Rizzoli pagg. 352 euro 19,50) A destra, preghiera in una moschea di Milano

il manifesto 3.6.16
La scienza? Non ammette repliche
Su «Nature» l’allarme: sempre più ricerche non vengono confermate nelle verifiche
di Andrea Capocci

L’ultimo numero della rivista scientifica Nature lancia l’allarme sulla riproducibilità delle scoperte scientifiche. La rivista, la più letta nei laboratori di tutto il mondo, ha pubblicato un sondaggio tra i suoi lettori che denuncia un problema sempre più grave: molti risultati scientifici pubblicati anche dalle maggiori riviste, quando vengono verificati da altri scienziati, vengono smentiti. Si tratta di risultati privi della necessaria riproducibilità, ciò che distingue un semplice dato empirico da un fatto scientifico. Il 70% dei ricercatori che hanno risposto al sondaggio ha dichiarato di non essere riuscito a replicare con successo esperimenti realizzati e pubblicati da colleghi, e il 90% di loro ritiene che nella comunità scientifica vi sia una «crisi» sul piano della riproducibilità.
Il sondaggio, a sua volta, non ha nulla di scientifico in quanto si limita a registrare le opinioni dei lettori, un campione nient’affatto rappresentativo. Oltre la metà delle risposte, ad esempio, proviene da settori «sensibili» come biologia e medicina. Tuttavia, il problema esiste ed era già emerso in altre occasioni. Nel 2015, un team internazionale aveva tentato di replicare 100 esperimenti pubblicati sulle riviste di psicologia più prestigiose, con un tasso di successo pari al 40% dei casi. Nel 2012, anche i ricercatori della Amgen, una società farmaceutica che setaccia le ricerche pubblicate alla ricerca di risultati promettenti verso lo sviluppo di nuovi farmaci, si erano lamentati: su 53 ricerche «interessanti», solo in sei casi i risultati erano stati confermati in laboratorio. In uno studio analogo, alla tedesca Bayer era andata un po’ meglio – una conferma su quattro. Le stime più ottimistiche valutano come replicabili il 50% delle ricerche pubblicate. In ogni caso, il problema esiste e coinvolge studi di grande rilevanza: possibili farmaci dal presunto effetto positivo contro il morbo di Alzheimer, ricerche oncologiche effettuate su cellule contaminate o la scoperta di proteine che (non) svolgono un ruolo importante nelle malattie neurodegenerative.
Da oltre vent’anni, e su basi statistiche molto più solide, la questione è denunciata e analizzata da John P. Ioannidis dell’Università di Stanford (California), oggi il maggior esperto a livello mondiale sull’affidabilità delle scoperte scientifiche. Le cause della «crisi» sono numerose, secondo lo scienziato greco-americano. Le frodi scientifiche vere e proprie rappresentano una minoranza dei casi. Ma non è una buona notizia, perché pone sotto accusa le prassi consolidate della comunità scientifica e riguarda anche i ricercatori più rispettati.
L’uso disinvolto della statistica, invece, è uno dei principali e più diffusi colpevoli. L’analisi dei dati può trasformare piccole variazioni casuali in risultati eclatanti. L’effetto è maggiore in discipline, come la medicina, in cui gli esperimenti coinvolgono campioni statistici relativamente piccoli. Le risposte al sondaggio accusano anche la fretta di pubblicare grandi quantità di articoli scientifici, a discapito della qualità. Si tratta di un effetto collaterale dei criteri di valutazione che oggi vanno per la maggiore, in base ai quali carriere e finanziamenti sono distribuiti soprattutto sulla base del volume delle pubblicazioni dei gruppi di ricerca. Secondo Ioannidis, anche i frequenti conflitti di interesse influenzano negativamente la qualità delle ricerche pubblicate e incoraggiano una «selezione» dei dati a disposizione (è la prima causa dell’irriproducibilità secondo il campione di Nature). Quando una ricerca è finanziata da una società farmaceutica, ad esempio, il ricercatore incaricato può essere spinto a confermare le aspettative del committente nel misurare l’efficacia di un farmaco che deve essere posto in commercio. La pubblicazione di risultati negativi, invece, è un evento raro e costituisce un antidoto debole contro il dilagare della scienza irriproducibile.
Per affrontare il problema, i mezzi messi in campo dalla comunità scientifica appaiono insufficienti. Recentemente i National Institutes of Health statunitensi hanno emesso delle linee guida per i propri ricercatori, incoraggiando i propri ricercatori a divulgare i dati di laboratorio «grezzi» su cui basano le loro analisi e le riviste scientifiche ad adottare standard di controllo più efficaci. Il filtro operato dalle riviste (la «peer review», il parere di due o tre esperti che decidono della pubblicazione di una ricerca) è insufficiente, a fronte di una mole di lavori da valutare che raddoppia ogni 10-15 anni. Ma criteri diversi, come una valutazione aperta a tutti anche dopo la pubblicazione delle ricerche, costringerebbe gli editori a rivedere le proprie regole in materia di copyright, un redditizio business controllato da pochi (quattro) big a livello mondiale.
Visto che la comunità scientifica fatica a riformarsi, c’è chi pensa di subappaltare la valutazione all’esterno. La società privata statunitense «Science Exchange», ad esempio, fornisce un servizio di verifica esterna delle ricerche, rilasciando una certificazione di riproducibilità, in diversi settori della ricerca biomedica. Science Exchange è sostenuto da fondi di investimento, che a loro volta finanziano altre società del settore biomedico. Quindi è ancora più esposto ai rischi di conflitto di interesse. Anche in questo caso, l’outsourcing non è la soluzione.

Repubblica 3.6.16
Escono gli scritti sul cinema del maestro Yasujiro Ozu
Io, regista grazie al riso con il curry
di Yasujiro Ozu

Al giorno d’oggi, per un giovane è difficile riuscire a diventare un regista vero e proprio, ma io sono stato davvero fortunato perché ce l’ho fatta grazie a un piatto di riso con curry. All’epoca degli studi cinematografici di Kamata, ero assistente del regista Okubo Tadamoto. Si comportava come un dio in terra e fare l’assistente sotto di lui era davvero dura, dovevo fare proprio di tutto, al punto che non c’era neanche il tempo di fumare una sigaretta. Avevo sempre fame. L’unico piacere era mangiare.
Un giorno, le riprese andavano per le lunghe e anche quando arrivò l’ora di cena non accennavano a finire. Ero ormai stanco e affamato. Ciononostante, Okubo, trovando sempre nuove motivazioni, non si fermava. Dentro di me mi dicevo che non era poi un film così eccezionale da dover lavorare anche di notte ed ero sempre più irritato.
Finalmente le riprese finirono e arrivò il momento di mangiare. Alla mensa si faceva la fila e poiché chi prima arrivava prima mangiava, mi affrettai a prendere posto.
I piatti fumanti di riso con curry venivano distribuiti seguendo l’ordine dal primo posto occupato. Il piacevole profumo del curry mi arrivava fino alla pancia. Mentre con l’acquolina in bocca mi dicevo che fra poco sarebbe toccato a me, arrivò un regista e si sedette. Il piatto che doveva toccare a me venne messo davanti a lui. Furibondo, esplosi: «Ehi! Rispettate l’ordine!». «L’assistente viene dopo», disse una voce. «Cosa?!» e senza neanche ancora capire chi avesse parlato, mi alzai in piedi pronto per fare a pugni ma qualcuno mi trattenne. Io però continuai a urlare «Portatemi il piatto! Rispettate l’ordine!». Comunque, non si può certo dire che non mangiai un piatto abbondante di curry.
Il mio comportamento venne riferito al direttore degli studi di allora, Kido Shiro. Non so se abbia pensato «Dev’essere un tipo interessante » ma il mese successivo mi disse di provare a fare un film, così cominciai a girare
La spada della penitenza (1927), un jidaigeki (film in costume, ndr) in sei rulli. Non venni apprezzato per la mia intelligenza o la mia bravura. Fu solo grazie a un piatto di riso con curry. Doveva essere più o meno la primavera del 1927.
***
Quando aprivo la porta d’ingresso di una sala cinematografica venivo investito dall’aria calda e soffocante della gente. Una volta le sale non si chiamavano così ma «baracconi delle immagini in movimento» e mi veniva mal di testa già dopo dieci minuti che ero immerso in quell’aria viziata. Ciononostante, quando da una sala cinematografica mi giungeva il suono della piccola banda che accompagnava il film dal vivo, non potevo passarci davanti senza entrare. Quella strana cosa chiamata cinema aveva su di me una sorta di misterioso potere magico.[...] A un certo punto, uscì il film americano Civiltà ( Civilization, 1916) di Ince. Aveva un grosso budget per l’epoca ed era davvero stupendo. Mi impressionò profondamente. Fu proprio in quel momento che mi dissi che volevo diventare un regista. Credo che i miei genitori avrebbero voluto che andassi all’università, ma io non mi curai minimamente delle loro aspettative, non avevo nessuna intenzione di proseguire gli studi. In poche parole, forse a me studiare non piaceva. Ripensandoci adesso, avevo fiducia in me stesso ed ero convinto di riuscire a farcela anche senza laurearmi. Non mi smossi più dalla decisione di diventare regista. Per fortuna, un mio zio affittava un terreno alla Shochiku e, grazie a questo, subito dopo il diploma di scuola media entrai nei loro studi, che erano a Kamata.
Oggigiorno, se dici che fai il regista ti guardano con invidia e puoi anche esserne orgoglioso ma ai miei tempi, quando dicevi che lavoravi nel cinema, sotto sotto il commento era: «Che razza di mestiere!». Io però non me ne curavo affatto. [...] Studiavo come giravano i registi più anziani senza perdermi un solo particolare. È così che trovai il mio modo di mettere in scena e riprendere, facendo dei passi avanti senza imitare acriticamente nessuno. Sarò testardo ma non c’è rimedio, sono fatto così. Per questo non ho maestri. Ce l’ho fatta contando solo su me stesso.
Chi pensa che il mestiere di regista consista nel dirigere le star a proprio piacimento, solo con il megafono in mano, si sbaglia di grosso. Senza dormire neanche la notte, bisognava programmare le riprese e organizzare le varie scene, c’era da dimagrire per la fatica già solo a essere lì a guardare da vicino. Ma così facendo, senza nemmeno rendermene conto, pian piano è venuto fuori il piacere di creare. Il mio istinto di non darmi per vinto mi ha portato a diventare regista, senza mai perdermi d’animo di fronte a nessun ostacolo.
IL LIBRO Scritti sul cinema, di Yasujiro Ozu, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi ( Donzelli, pagg. 250, euro 26). Sopra, Ozu alla macchina da presa. A sinistra, sul set di C’era un padre( 1942) davanti al Grande Buddha di Kamakura

Repubblica 3.6.16
Wenders e gli altri perché tutti oggi lo amano
di Dario Pappalardo

Wim Wenders ha detto: «Se nel nostro secolo ci fossero ancora delle cose sacre, se esistesse qualcosa come il sacro tesoro del cinema, per me questo sarebbe l’opera di Yasujiro Ozu». Per Aki Kaurismaki il nome di Ozu corrisponde a una sfida aperta: «Mi rifiuto di esser sepolto, se prima non ho dimostrato a me stesso che non riuscirò mai a raggiungere il tuo livello, Signor Ozu». E ancora Robert Bresson, Paul Schrader, i fratelli Dardenne: il cinema di Yasujiro Ozu (1903-1963) è nascosto dietro tante immagini occidentali. Nei suoi 54 film – dal 1927 al 1963 – Ozu ha raccontato con tocco gentile il Giappone che cambia, che si occidentalizza. La macchina da presa si avvicina a i personaggi con discrezione, quasi li incornicia. I primi piani sono vietati. È un cinema essenziale e per questo invecchiato bene. Tanti titoli, restaurati, sono finalmente in dvd e adesso oggetto di rassegne in tutto il mondo. A partire da quel Viaggio a Tokyo (1953) – trasmesso anche in streaming sul sito di Repubblica – che compare costantemente nelle classifiche dei capolavori di tutti i tempi. Ozu detestava le grammatiche, non era un teorico della sua arte come Ejzenstejn, Scorsese, Truffaut. E per questo appare prezioso il lavoro compiuto da Tanaka Masasumi, scomparso nel 2011, che ha messo insieme gli scritti, le interviste sul cinema del maestro giapponese e persino le lettere inviate quando l’autore combatteva sul fronte cinese negli anni Trenta. Scritti sul cinema a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi (Donzelli) permette di entrare nell’universo dell’umile, ma consapevole Ozu. Che è amato dai registi di oggi perché diceva: «Forza, nuovi registi originali, venite fuori!».