La Stampa 9.6.16
Uto Ughi
“Suonare a memoria suonare con l’anima”
Il violinista parla del rapporto tra musica e ricordo “Oggi santificano un boxeur e ignorano Menuhin”
intervista di Sandro Cappelletto
Uto
Ughi, 72 anni è uno dei più celebri violinisti italiani viventi Di
Busto Arsizio ha diretto a lungo l’ Orchestra dell’Accademia Nazionale
di Santa Cecilia Nel 1997 è stato nominato Cavaliere della Gran Croce
dal presidente della Repubblica
Una volta l’ho persa,
la memoria. Durante un concerto ho dimenticato due variazioni della
Ciaccona di Tomaso Vitali, e mi sono fermato. Mi ha aiutato il pianista:
non si è scomposto, ha ricominciato a suonare dall’inizio e a quel
punto la memoria mi è tornata». Uto Ughi è tra i protagonisti della
prima edizione del Memoria Festival, che si inaugura oggi a Mirandola,
la cittadina emiliana patria di Giovanni Pico, l’umanista dotato,
appunto, di prodigiosa memoria e di altrettanto inesauribile volontà di
conoscere. Domani pomeriggio, il nostro violinista parlerà
dell’importanza della memoria nella sua formazione, come persona, come
artista e come vigile cittadino.
Maestro, da dove viene, dove si nasconde, la memoria?
«Viene e rimane dal cuore. Memoria significa ricordo e la parola ricordo nasce da cuore. Per me la memoria è ispirazione».
Può approfondire questa immagine?
«Se
penso alle esecuzioni di Yehudi Menuhin, al suo modo di suonare, alla
sua gigantesca personalità, questa memoria mi ispira, mi spinge a dare
il meglio di me. Una memoria spirituale».
Lei spesso suona a memoria, senza spartito. Uno sforzo immenso. Come si fa?
«Un
musicista ha tre tipi di memoria: tattile, cioè il movimento delle
braccia e delle dita sulle corde di un violino, la tastiera di un
pianoforte, i pistoni di una tromba. Poi visiva: le note sullo spartito,
che devi saper “fotografare” con uno sguardo d’insieme e ricordare.
Infine, la memoria uditiva: ricordare nella propria mente un motivo, un
tema. Dico ai giovani musicisti: suonare a memoria non deve diventare un
incubo».
Per molti secoli la musica si è tramandata oralmente;
non esisteva la scrittura, cantori e musicisti imparavano e restituivano
quanto sapevano a memoria.
«E ognuno in modo diverso. La musica
era come il mito, che si arricchisce sempre di nuovi episodi, racconti,
varianti. Da questo punto di vista, la notazione musicale, con la sua
rigidità, può ostacolare la fantasia. Nella musica folclorica, la
tradizione orale è ancora molto viva».
Il primo motivo che, da bambino, ha ricordato?
«Due.
Il Minuetto di Boccherini e il preludio di Traviata diretto da
Toscanini... Aspetti, sono tre: Enrico Caruso che canta le canzoni
napoletane. Avevo forse due anni, si faceva e si ascoltava molta musica
in casa, grazie a mio padre».
Quale, tra i musicisti che ha conosciuto, ha avuto la memoria più prodigiosa?
«Claudio Abbado. Impressionante: gli bastava guardare una volta la partitura e non la dimenticava più».
Per avere memoria bisogna prima conoscere, studiare, educarsi. Che ricordo ha dei suoi anni di studio?
«La
formazione è più importante della memoria: lo dico pensando ai nostri
studenti. Non accontentatevi, pretendete il meglio. Io ho avuto la
fortuna di studiare anche all’Accademia Chigiana di Siena, con il mio
maestro George Enescu. Con lui c’erano Pablo Casals e Andres Segovia:
era come l’Atene di Pericle».
Il migliore insegnamento che ha ricevuto?
«Enescu diceva: mai indifferenza, mai automatismo, sempre espressione. Dovrebbe valere per tutti gli esseri umani».
Il
direttore d’orchestra Gianandrea Gavazzeni amava ripetere: «Volete
invecchiare bene? Rimuovete sempre, rimuovete tutto». E’ d’accordo?
«Preferisco
Leonardo: “Non si volge chi a stella è fisso”. Se hai una meta in cui
credi, vai dritto per la tua strada, supera - dunque anche rimuovi -
tutte le difficoltà».
Esercitare la memoria a volte è doloroso.
«Ma
sempre necessario. Restiamo nell’ambito del proprio lavoro, di quello
che ciascuno di noi fa nella vita. Io ho imparato molto dagli errori. Se
li riconosci, non si trasformano in psicosi, in frustrazione, ma in
stimoli. Gli insuccessi sono utili, come le critiche spietate, purché
oneste. Ma oggi viviamo in un mondo che ha rimosso il pensiero critico: è
tutto un annuncio, una pubblicità, un marketing. A volte faccio fatica,
leggendo i giornali, a distinguere un articolo da un comunicato
stampa».
Touché, maestro. Che cosa vorrebbe che non si ricordasse, di questi nostri anni?
«La
stupidità. Prima abbiamo parlato di Menuhin: un gigante, come uomo, non
solo come musicista. E’ nato nel 1916, cento anni fa: eppure, di lui in
questo 2016 si è parlato pochissimo. La scorsa settimana è mancato un
grande campione sportivo, il pugile Muhammad Ali. E’ stato descritto
come uno statista, lo si è perfino divinizzato. Lo stesso è accaduto in
occasione della scomparsa del musicista Prince. Accade spesso per gli
attori, i festival del cinema, i divi del pop. Ma così si perde ogni
prospettiva, nel trionfo del fasullo che ci sopraffà come una valanga.
E’ un delirio pilotato da chi vuole confondere le idee, negando le più
vere memorie».
Si è mai chiesto quale memoria vorrebbe lasciare di sé?
«Certo.
Di una persona che non è scesa a compromessi con la sua arte, che, nel
bene e nel male, con le sue qualità i suoi limiti, ha provato sempre a
servirla con onestà».