La Stampa 8.6.16
Tra gli schiavi della Mauritania: “L’’Islam è per i padroni”
Migliaia di neri continuano a essere proprietà degli arabi ricchi:    “Non possiamo neanche pregare, solo ubbidire”
di Domenico Quirico
Esistono
 parole che fanno male come un morso, parole che non si possono 
dimenticare né perdonare. Parole che contengono veleno come il morso di 
un serpente. La parola schiavitù. Ma non nel senso in cui noi 
occidentali la usiamo, sfruttamento economico, il mal prezzo pagato a 
una fatica. No. Nel senso antico: la proprietà fisica di un uomo, 
disporre del suo destino e della sua vita, di ciò che è, fa, pensa, 
diventa, fin da bambino.
Che puoi prestare all’amico che ne ha 
bisogno, cedere ai figli come dote quando si sposano. Che diventa 
schiavo automaticamente, nel momento in cui nasce da una schiava.
Nel
 terzo millennio questa realtà che emerge e che porta addosso i segni 
dell’abisso come un cetaceo naufragato con le proprie alghe, insieme 
ucciso e vitale, me la trovo davanti sulle coste dell’oceano, in 
Mauritania. Dove gli schiavi sono tutti «haratines», i mori neri che 
rappresentano il quaranta per cento della popolazione. Inchiodati alla 
croce del non esistere, anche se li puoi toccare, parlare con loro, 
vederli vivere. Che leggono invano testi di legge dove la schiavitù è 
dichiarata delitto. Questo popolo che non ha niente lo disdegneremo? 
Immergiamoci nella sua miseria. Lo vedremo completamente nudo, senza 
difese, con i suoi occhi da animale domestico. La sofferenza svela 
l’essenza delle cose, è il prezzo che bisogna pagare per guardare la 
vita in modo più profondo, più vicino alla verità.
I tempi della Tratta
Ai
 tempi della Tratta c’era un rito, il rito dell’Albero dell’oblio. 
Quando sulla costa del continente arrivavano le colonne degli schiavi 
catturati e venduti dopo guerre e raid scatenati per questo scopo, prima
 di imbarcarli sulle navi, attorno a questo albero si svolgeva una 
cerimonia per far loro dimenticare la terra, i parenti, il passato, 
rendere la mente vuota. Così, quando fossero morti, non sarebbero 
tornati a vendicarsi dei loro aguzzini. Consapevoli del loro delitto. In
 Mauritania non so se è esistito questo albero terribile: certo è che il
 rito ha funzionato, questi schiavi nostri contemporanei hanno più che 
dimenticato, vivono a fianco dei loro padroni felici di servirli, pronti
 a far scattare la loro devozione. Perfino la comune fede nell’Islam 
serve a tenerli in catene come un destino.
Nouackhott di notte 
quando si sbarca dall’aereo: diritte vie deserte, tetra città 
addormentata, impossibile immaginare qualcosa di meno esotico, di più 
brutto. Un po’ di animazione davanti ai caffè violentemente illuminati, 
risate volgari. Bambini chiedono l’elemosina porgendo una latta vuota, 
agli incroci, davanti al mercato; ti inseguono per lo più 
silenziosamente, al massimo con un pigolio di zanzara, tenaci, pacati 
come chi ha tutto il tempo inesorabile per vivere e per morire. Sono 
figli di schiavi, piccoli schiavi, i primi che incontro.
Il quartiere più povero
Città
 allo stato larvale che pare ancora nascosta nel sottosuolo. Troppo 
vasta per la sua scarsa attività. Se una grazia c’è consiste nella sua 
indolenza.
Che la prima voce sia quella lieve, noncurante di Habj 
Rabah tutta avvolta nel nero: «La mia storia vuoi sapere? Una storia 
banale di una schiava con il suo padrone. Discendo da schiavi, non sono 
mai andata scuola, guardo il bestiame, faccio i lavori in casa, vado a 
cercare l’acqua, mi picchiano. Sono musulmana, ma mi dicono che non 
importa se non porto il velo e che non devo pregare. Sono schiava. Dio è
 per il padrone, per i “mori bianchi’’, gli arabi. Quello che è 
obbligatorio per lo schiavo è ubbidire».
Attorno bambini, molti 
bambini. Non bisogna mai chiedere agli «haratines» chi è il padre, non è
 «educato». Gli schiavi conoscono solo la madre, il padre può essere il 
padrone o uno dei suoi figli o un altro schiavo. Irrilevante.
Ora è
 giorno, dopo una rapida alba. E c’è Riyad da vedere, uno dei quartieri 
poveri dove vivono gli «haratines». Il taxi, un vecchio Mercedes, rugoso
 sdentato e sbocconcellato, lo guida un militante abolizionista. È stato
 in prigione con Biram Dah Abeid, il Mandela mauritano, indomito leader 
del movimento antischiavitù (Ira). È come entrare nelle viscere di un 
grande corpo, doppie, triple file di casupole messe insieme con assi di 
legno, pezzi di lamiera, teli, piuttosto tane che case. Gli edifici in 
muratura hanno le pareti corrose dal terreno salino, una malata 
fatiscienza che lavora e disfa, sono vivi e decomposti. Gli «haratines» 
vivono qui non perché sono stati liberati. I padroni, che non vogliono 
mantenerli, hanno detto loro di andarsene, di cercare di sopravvivere. 
Sanno che quando hanno bisogno, lavori in casa, il bestiame, i campi, 
servire, li possono chiamare e accorreranno. Cosa potrebbero fare? Non 
hanno documenti, senza il consenso del padrone non possono sposarsi e 
non troverebbero lavoro.
Qui gli unici arabi che vedi sono 
proprietari di negozi e dei grandi silos dove sono stoccati il riso e la
 farina: per attendere che i prezzi salgano. I loro magnifici boubous 
azzurri si gonfiano e fluttuano nel vento caldo come vele. I padroni, i 
«mori bianchi» non abitano qui, non c’è l’acqua corrente a Riyad, Riyad 
puzza. Infiniti asinelli dalle piaghe coperte da segni bluastri 
arrancano nella strade di sabbia, sospinti a bastonate, trascinando 
piccole cisterne piene di acqua. «Questa è l’acqua per gli “haratines’’,
 non è potabile, occorre farla bollire».
Bambini tra i rifiuti
Il
 taxi passa attraverso questi luoghi umani come attraverso un muro di 
pazienza, secolare pazienza, piagata ma non avvilita. Queste casupole 
infime, barcollanti sono accanto a distese di immondizie in cui bambini 
cercano, tenendo in mano grandi sacchi bianchi, sopravvivenze immonde 
coperte di mosche. Pecore contendono loro la preda puzzolente, pecore 
che hanno occhi chiari, acini di uva o di vetro, che guardano in un modo
 particolare, uno sguardo assente, vitreo. Vibrano, a tratti, una lingua
 puntuta, violacea con cui leccano le immondizie. Donne e bambini stanno
 acquattati nell’ombra povera dei muri. Come strane creature del 
sottosuolo uscite ad osservarmi. Ero di un’altra materia, fatto di un 
altro elemento, io.
Che la seconda voce sia quella di Barka 
Asatin, che ha 28 anni, è giusto: oggi è libera grazie a una storia 
d’amore. «Mi hanno strappato a mia madre quando avevo cinque anni. 
Accompagnavo il padrone nella brousse per dar da bere al bestiame e poi 
lavoravo in casa. Un giorno il padrone mi ha stuprata. Non so nemmeno a 
che età, avevo appena indossato il velo, una bimba. È nato un figlio che
 il padrone ha regalato a sua figlia. Poi è stato il figlio del padrone a
 violarmi ed è nato un altro bimbo. Ma c’era un autista che non era 
schiavo, era pagato. Si è commosso alla mia condizione, ha deciso di 
cercare mia madre. L’ha trovata e mi ha portato via, ma il padrone si è 
infuriato e ha tenuto in ostaggio i miei figli. L’Ira ha iniziato una 
battaglia legale, giudici e polizia erano contro di me. Mia madre che 
pure mi ama mi ha denunciata per aiutare il padrone a riprendermi. Mia 
figlia è diventata folle, diceva. Mia madre. Alla fine abbiamo vinto, 
l’ho sposato, abbiamo un altro bambino e i due figli sono con me».
Riyad
 è un’esperienza stranamente liberatrice. Non c’è tentativo di velare, 
di nascondere la fondamentale ingiustizia dell’esistere, la sua qualità 
sporca vien vissuta con pacatezza rassegnata.
Lasciamo parlare 
Said allora, che quando ha cercato di fuggire dal padrone aveva 15 anni e
 oggi ne ha 18: «La schiavitù ha segnato la mia vita, i miei 
fratellastri sono stati dispersi, dieci anni ho impiegato per ritrovarne
 uno, un’altra mia sorellastra ha rifiutato di lasciare il padrone, 
aveva paura. Ho scoperto che ero uno schiavo quando ho visto che 
trattavano gli altri bambini, i figli del padrone, diversamente da me».
Cosa
 è dunque la schiavitù? Sono venuto per vedere un mistero. Ma il mistero
 non si vede: si sente. Si esprime senza voce, come un sordomuto. Eppure
 ne sono piene le strade, i mercati, le campagne, le case dei ricchi. La
 schiavitù è un aria completamente pervasiva, ti accarezza come la 
lingua di un animale appena uscito dalle selve. Non dimenticare: sei in 
Mauritania, approdato in un pianeta dalle luci ignote e impossibili. 
Dunque non avete mai visto uno schiavo, nessuno vi ha detto 
esplicitamente di esserlo? Non siete andati allora al grande mercato di 
Nouackhott. Gli schiavi sono lì: spingono enormi pesi su incerte 
carriole, gettano il cemento in fragorose betoniere per costruire i 
mattoni, riempiono sacchi di carbone. Oppure non siete stati invitati a 
una festa nelle case ricche, di un alto funzionario ad esempio, o di un 
giudice, quelli che dovrebbero applicare le leggi contro «il crimine» 
della schiavitù.
La legge islamica
Le donne hanno indossato i
 loro boubous più belli, gomitoli di capelli ornano le teste, portano 
oro alle orecchie, braccialetti di argento ai polsi, vanno sventolando, 
magnifiche, i loro ventagli di palme. Ebbene gli schiavi sono intorno a 
voi: hanno lustrato le scale, imbiancato i muri, hanno preparato il 
cibo. Quando tutto sarà finito, gli invitati partiti, torneranno a 
Riyad, forse con qualche avanzo.
I segni della mancanza di 
libertà, della miseria non sono «sventure» qui. Vengono da lontano, 
migrano da vita a vita. Questo ne fa un luogo tragicamente impervio, 
pervaso da una drammatica incomunicabile dolcezza, un’indifferenza senza
 sdegno, senza rimorsi, senza indulgenza.
L’ultima parola spetta 
ad Hamadi che a vincere la schiavitù ha dedicato la vita: «Le leggi qui 
sono fatte per gettar polvere negli occhi degli occidentali. Ma tu sai 
che sei uno schiavo, i giudici applicano la legge islamica per cui la 
schiavitù è lecita. È quello che insegnano nelle scuole da cui escono i 
giudici. È una storia antica, quando gli arabo berberi che credevano che
 per esser nobili fosse necessario avere schiavi, li presero tra le 
tribù dei vinti e li spinsero a fare figli per averne molti. E poi per 
renderla intoccabile l’hanno coperta con la religione. Non è una 
questione di pelle o di classe o di povertà, è più complicato, qualcosa 
che ti entra in testa dall’infanzia. Lo schiavo non ha personalità, non 
sceglie, fa cosa dice il suo padrone, non ha esistenza come individuo, 
lo ama, è pronto a morire per lui».
 
