La Stampa 8.6.16
Una tratta che arricchisce i mori bianchi da 400 anni
di Lorenzo Simoncelli
Sembrano
 lontani i tempi in cui i guerrieri eremiti-musulmani scesero dal Nord 
Africa per conquistare l’antico impero del Ghana, oggi Mauritania, e 
dopo secoli di battaglie contro i berberi locali li annientarono 
trasformandoli in schiavi. Da allora sono passati oltre 400 anni, ma 
ancora oggi il potere politico-economico di questa scatola di sabbia che
 è la Mauritania, immersa nel deserto del Sahara, è nelle mani dei mori 
bianchi, discendenti degli arabi. Nei secoli hanno venduto attraverso la
 tratta milioni di «haratines» (mori di pelle nera). E oggi, nonostante 
nel Paese la schiavitù sia stata abolita nel 1981, in forme diverse 
continuano a perpetrarla.
Secondo i dati del Global Slavery Index,
 l’indice redatto dalla Walk Free Foundation, la Mauritania, lo Stato 
meno densamente popolato al mondo con 4 milioni di abitanti, ha oltre 43
 mila persone, soprattutto donne e bambini, che vivono sottomessi a 
famiglie di mori bianchi. Esseri umani trasformati in proprietà privata,
 il cui affrancamento non arriva neanche alla morte, dato che lo status 
si tramanda di generazione in generazione. Gli schiavi non hanno il 
permesso di possedere terre o risorse, non hanno accesso all’educazione,
 servono i loro padroni svolgendo i lavori più umili e spesso vengono 
abusati sessualmente. Uno status che affonda le sue radici nella 
struttura tribal-feudale che ancora costituisce l’ossatura delle 
relazioni di potere nel Paese.
«Il dramma della Mauritania è che 
migliaia di persone vivono in condizioni di schiavitù senza neanche 
saperlo - spiega Kevin Bales, professore al Wilberforce Institute for 
the Study of Slavery and Emancipation di Hull in Inghilterra - non hanno
 mai sperimentato la libertà». Inoltre nella Repubblica di Mauritania, 
che dal 1980 ha adottato la sharia, alcuni imam alimentano una lettura 
distorta del Corano, secondo cui la schiavitù sarebbe ammessa e 
ribellarsi al proprio padrone è peccato. «Una strumentalizzazione 
dell’Islam perpetuata da persone razziste, che attraverso la 
sottomissione cercano di mantenere i propri interessi, un po’ come gli 
imam pro Isis che giustificano la guerra santa», afferma Bales, autore 
del best-seller «I nuovi schiavi», finalista al Pulitzer e vincitore del
 Premio letterario Viareggio nel 2000.
Nonostante sia stata da 
poco istituita una nuova legge che condanna a 20 anni di reclusione chi 
riduce in schiavitù un essere umano, il governo locale e la comunità 
internazionale sembrano chiudere gli occhi davanti al fenomeno. «Prima 
del colpo di Stato del 2005 insieme alla Banca mondiale - spiega Bales -
 avevamo costruito una road map per mettere fine allo schiavismo, ma con
 il golpe tutto è andato in frantumi. La Mauritania è un Paese piccolo, 
non sarebbe complicato eliminare la schiavitù e i benefici sarebbero 
enormi a incominciare dall’economia. Bisogna far capire al governo 
locale, anche per la salvaguardia del loro potere, che tutti ne 
beneficerebbero, gli schiavi non producono e non consumano, quindi 
l’economia resta ferma, questo è uno dei motivi per cui la Mauritania è 
così povera».
Il continente africano rimane ancora oggi il più 
colpito dal fenomeno dello schiavismo, dalle miniere d’oro in Ghana, ai 
braccianti agricoli in Congo, fino alla tratta sessuale dei minori tra 
Mozambico e Sudafrica.
 
