La Stampa 6.6.16
La Silicon Valley ama Sanders. Ma i manager votano Hillary
Boom
 di donazioni dai dipendenti dei colossi hi tech per il senatore Molti 
dirigenti sostengono l’ex first lady e qualcuno lavora per lei
di Paolo Mastrolilli
L’obiettivo
 della Silicon Valley è cambiare il mondo, e forse proprio per questo 
preferisce che nessuno provi a cambiare lei. Così si possono spiegare i 
flussi elettorali della valle che ha inventato la rivoluzione digitale, 
alla vigilia delle primarie di domani in California. Semplificando, la 
situazione è questa: i capi delle aziende stanno con Clinton, i loro 
dipendenti con Sanders, e quasi nessuno con Trump. Almeno ufficialmente.
Siccome
 i finanziamenti elettorali sono un buon indicatore delle posizioni 
politiche, cominciamo dai dati di Crowdpac, la start up che si occupa 
appunto di monitorare le donazioni. Sanders è in testa con 6 milioni di 
dollari raccolti nel settore tecnologico, contro i 2,7 milioni di 
Clinton, e appena 21.815 per Trump. Questi numeri si spiegano 
facilmente. I dipendenti della Silicon Valley sono innamorati del 
liberal Bernie, rifiutano il reazionario Donald, ma se guardano con 
realismo al futuro scelgono Hillary.
Il discorso cambia, se dagli 
anonimi impiegati si passa ad analizzare le posizioni dei leader. Con 
Clinton si sono schierati apertamente Elon Musk di Tesla, Sheryl 
Sandberg di Facebook, e la vedova di Steve Jobs Laurene. Due compagnie 
fondate da Eric Schmidt di Google, cioé Groundwork e Civis Analytics, 
lavorano per la campagna dell’ex First Lady, mentre il fondatore di 
Netscape Marc Andreessen è passato da Romney nel 2012 a Hillary adesso. 
Megan Smith era andata da Google alla Casa Bianca come responsabile 
digitale, mentre l’ex portavoce di Obama Jay Carney è vice presidente di
 Amazon, ed è logico presumere che sosterrà la campagna guidata dall’ex 
capo di gabinetto John Podesta.
Il fondatore di Facebook Mark 
Zuckerberg, il capo di Apple Tim Cook e lo stesso Jeff Bezos non hanno 
ancora preso una posizione ufficiale, ma gli scontri avuti con Trump 
garantiscono che non voteranno per lui. L’unico leader della Silicon 
Valley che si è schierato apertamente con Donald è il cofondatore di 
PayPal Peter Thiel, che sarà uno dei suoi delegati in California. Brian 
Krzanich, capo di Intel, aveva pianificato un evento per la raccolta di 
fondi a favore del candidato repubblicano, ma lo ha cancellato appena la
 notizia si è diffusa. Questo, secondo alcuni analisti, è un 
atteggiamento abbastanza diffuso: nella Silicon Valley ci sono alcuni 
sostenitori di Trump, però si vergognano di dirlo. Quindi a farsi avanti
 per lui sono solo gli imprenditori di secondo livello, tipo Scott 
Slinker di Parada o Tyrone Pike. Larry Ellison di Oracle aveva puntato 
su Marco Rubio, ma dopo il suo ritiro è rimasto ai margini, mentre la 
ceo di Hewlett Packard Meg Whitman ha dichiarato che non voterà per 
Donald, senza però rivelare chi sosterrà. Quasi nessuno dei big si è 
schierato con Sanders, che però ha raccolto più finanziamenti di tutti 
gli altri perché è popolare fra i dipendenti del settore digitale.
Come
 si possono spiegare queste posizioni? L’avversione per Trump è 
abbastanza logica, perché finora ha preso posizioni opposte agli 
interessi della Silicon Valley. Ha attaccato Zuckerberg 
sull’immigrazione, perché il fondatore di Facebook vuole attirare 
talenti stranieri, ad esempio attraverso i visti speciali H-1B, mentre 
Donald vuole costruire il muro. Ha accusato Tim Cook di aver negato 
aiuto all’Fbi per violare l’iPhone del killer di San Bernardino «per 
dimostrare quanto sia liberal». Poi ha aggiunto che costringerà la Apple
 a lasciare la Cina e costruire i telefoni in America. Con Jeff Bezos, 
infine, è arrivato quasi alle mani, sostenendo che «usa il Washington 
Post contro di me, perché teme che quando diventerò presidente gli farò 
una causa anti trust».
Aldilà dell’accusa di essere congenitamente
 liberal e degli attacchi personali, che nel caso di Trump non mancano 
mai, forse qui anche per semplici conflitti di ego, sono le posizioni 
politiche ad allontanarlo dal mainstream della Silicon Valley. 
L’industria digitale è per sua natura globale. Ha bisogno dei trattati 
internazionali che Donald disprezza, dei talenti e dei consumatori di 
tutto il mondo, della libertà di fare business dove è più conveniente. 
Perché ormai per lei vale il detto che negli anni Cinquanta Charlie 
Wilson usava con la General Motors: quello che è buono per l’America è 
buono per la Silicon Valley, e viceversa. Trump invece viene da un’idea 
del business ormai superata, o comunque non aderente a quella del mondo 
digitale.
Sanders poi piace ai dipendenti, in grande maggioranza 
liberal, ma preoccupa i leader. Perché sui commerci internazionali le 
sue posizioni non sono troppo distanti da quelle di Trump, e la sua 
retorica socialista non coincide col liberismo e l’economia di mercato 
indispensabili allo sviluppo della Silicon Valley.