La Stampa 3.6.16
Il ceto medio dimenticato e il populismo
di Massimo Gramellini
Il
2 giugno del 1946 si votò per il referendum Monarchia-Repubblica, ma
anche per l’Assemblea Costituente, e l’Uomo Qualunque di Giannini
ottenne un successo clamoroso che gli permise di eleggere trenta
deputati.
Il suo programma, ostile ai partiti e alla grande
industria e incentrato sulla difesa del ceto medio, suonava la stessa
musica degli attuali movimenti anti-establishment. Però all’epoca il
nasone sopraffino di Alcide De Gasperi fiutò l’aria. Fece suoi molti
degli umori e dei malumori di Giannini e nel giro di un paio d’anni la
spinta dell’Uomo Qualunque venne completamente assorbita dalla
Democrazia Cristiana. Oggi mancano i De Gasperi e le condizioni per
esserlo, ma sta di fatto che le classi dirigenti di tutto il mondo
ignorano o scherniscono le richieste del ceto medio impoverito dalla
crisi e stanno consegnando la democrazia a forze autoritarie di natura
opaca che non puntano più all’alternanza, ma allo scardinamento del
sistema.
Le élite economiche, politiche e giornalistiche sembrano
incapaci di reagire e persino di capire cosa stia succedendo. Si brinda
allo scampato pericolo di un presidente reazionario in Austria, come se
quei milioni di voti fossero scomparsi il giorno dopo le elezioni:
mentre restano lì, pronti ad aumentare la prossima volta. I sondaggi sul
referendum inglese di giugno vedono in testa i sostenitori dell’uscita
dall’Europa, quelli francesi danno Marine Le Pen nettamente favorita
alle presidenziali del 2017. In America le brigate rozze di Trump
avanzano come caterpillar, impermeabili a ogni scandalo. Se il
Washington Post che affossò Nixon scatenasse oggi un nuovo caso
Watergate contro il candidato repubblicano, «the Donald» non perderebbe
neanche un voto perché chi lo appoggia non si fida più dei mezzi di
informazione: li considera asserviti agli interessi finanziari di una
micro-casta, esattamente come i politici. Per cogliere l’aria che tira
anche da noi, l’altra sera su Sky si è svolto un confronto tra i
candidati alla poltrona di sindaco di Roma. L’avvocato Virginia Raggi
dei Cinquestelle, tutta smorfie di disgusto e sguardi di degnazione, era
simpatica come un cubetto di ghiaccio infilato lungo la schiena, eppure
nel sondaggio seguito al dibattito è risultata di gran lunga la
preferita dai telespettatori.
Di fronte a questa rivoluzione
rumorosa che rischia di cambiare in senso reazionario la geografia
politica del pianeta, gli eredi dei partiti che settant’anni fa si
opposero vittoriosamente al nazifascismo appaiono non solo impotenti, ma
ottusi. Si baloccano con i numeri freddi dell’economia, parlano di
crescita e di riforme, ma continuano a ignorare l’urlo di dolore che
sale dai tinelli della piccola borghesia che giorno dopo giorno si vede
trascinare in basso nella scala sociale. Operai, insegnanti e impiegati
che non riescono più a mandare i figli all’università. Che vedono il
lavoro andare all’estero e poi ritornare con stipendi da fame. Che
vivono in quartieri periferici dove non si sentono più a casa propria
per la presenza sproporzionata di extracomunitari. A queste persone
interessa poco che i migranti portino un punto e mezzo di Pil in più
l’anno, perché non ne vedono le ricadute nella loro vita quotidiana.
Sono offese, rabbiose, sgomente, spaventate. E da sempre la paura porta
con sé la richiesta dell’uomo forte in grado di trovare soluzioni facili
a problemi complessi.
Si tratta ovviamente di un’illusione,
perché il mondo è complicatissimo e il cambiamento non si può fermare.
Però lo si potrebbe ancora governare. Se le classi dirigenti si
rendessero finalmente conto che tra un’azienda di alta tecnologia e una
mensa di poveri - l’alfa e l’omega della globalizzazione - esiste la
sterminata terra di mezzo di quei cittadini che, sentendosi ignorati
dalla politica, cominciano a pensare di potere fare a meno della
democrazia.