Corriere 3.6.16
L’ascensore sociale si è fermato
di Dario Di Vico
L’ascensore
sociale è fermo. Non sale più. Anche perché sono diminuiti i piani
alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuato da tempo come
una delle principali manifestazioni della disuguaglianza italiana ed è
anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazionale.
L’
ascensore sociale non sale più anche perché sono diminuiti i piani
alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuato da tempo come
una delle principali manifestazioni della disuguaglianza italiana ed è
anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazionale. Gli
studiosi concordano che la causa prima dell’ascensore bloccato risieda
nella malattia della bassa crescita che affligge da circa un ventennio
l’economia italiana. L’ultimo rapporto Istat ci ha dato anche qualche
elemento in più sottolineando lo stretto legame che intercorre tra
mancata mobilità e disuguaglianza perché un’economia stagnante tende a
perpetuare le condizioni acquisite e quindi esalta il peso di quella che
viene chiamata «ereditarietà economica». La famiglia nella quale si
nasce condiziona fortemente il successivo ciclo di studi e di lavoro e
causa la «trasmissione intergenerazionale delle condizioni economiche» e
l’Italia risulta tra i Paesi Ue più conservatori. La rendita di
posizione dei cittadini con status sociale di partenza elevato (genitore
laureato e manager, casa di proprietà) rispetto a quelli con status di
partenza basso (casa in affitto e genitori con bassa istruzione) è più
ridotta in Francia (37%) e in Danimarca (39%) mentre è molto forte nel
Regno Unito (79%), Italia (63%) e Spagna (51%). E dove la rendita è più
alta il merito conta meno.
Se questo, con gli ultimi
aggiornamenti, è il quadro delle cose che sappiamo in materia di
mobilità sociale i lavori di Antonio Schizzerotto, docente
all’Università di Trento, ci permettono di andare oltre. Sostiene il
sociologo che nel nostro Paese nei primi 60 anni del Novecento le
dimensioni della classe superiore — imprenditori, liberi professionisti,
dirigenti e occupazioni intellettuali svolte alle dipendenze di terzi —
sono rimaste molto contenute. Successivamente e per altri 40 anni
invece si sono espanse a ritmi sostenuti. È solo nell’ultimo decennio
che questa crescita si è arrestata ed è iniziata una discesa.
L’ascensore non può arrivare ai piani alti perché ce ne sono pochi o
comunque meno rispetto alle aspettative dei potenziali passeggeri. Il
risultato è che la mobilità ascendente dei nati tra il 1970 e il 1985 è
stata di cinque punti più bassa rispetto ai loro fratelli maggiori nati
tra il 1954 e il ’69 e la mobilità discendente è cresciuta di 7 punti.
Per arrivare a questi numeri gli studiosi lavorano a lungo su un’ampia
serie di indagini campionarie e di conseguenza registrano spostamenti di
lungo periodo, ma se potessimo immettere in questo schema i millennials
è molto probabile che la forbice si allargherebbe ancora di più. Le
cause storiche della carenza di piani alti risalgono ad alcune
peculiarità della nostra economia che pur avendo vissuto «un incisivo e
lungo processo di industrializzazione» non è riuscito a dar vita a un
numero sufficienti di medie e grandi imprese e ha vissuto una
«terziarizzazione si è concentrata su settori marginali e poco
innovativi». Il risultato è quello che Schizzerotto definisce «un
fenomeno di saturazione» dei posti disponibili nelle classi superiori e
la riduzione delle chance di mobilità viene pagata interamente dalle
nuove generazioni. Non solo dai figli di operai ma anche dalla prole
degli imprenditori, dei liberi professionisti, dei dirigenti e dei
colletti bianchi. Anche costoro oggi per rimanere nelle classi di
origine fanno più fatica dei fratelli maggiori e dei padri quando anche
loro avevano un’età compresa tra i 20-35 anni. Stiamo rischiando di
entrare in un regime di mobilità discendente: l’ascensore scende invece
di salire e a segnalare il danno sono soprattutto i figli degli
impiegati direttivi e di concetto che, oltre a pagare il blocco, devono
sopportare i costi derivanti dal venir meno delle protezioni dai
pericoli di discesa sociale.
Se mettiamo sotto osservazione il
sistema delle imprese, per capire a monte i fenomeni fin qui descritti,
viene fuori che il primo fattore negativo risiede nella struttura delle
piccole imprese focalizzate attorno alla figura del proprietario, senza
un’adeguata articolazione dirigenziale e delle competenze. Sono poche le
Pmi che hanno almeno un dirigente. Il secondo fattore rimanda alle
dinamiche della globalizzazione e al fenomeno delle concentrazioni
societarie. Spiega Stefano Scabbio, amministratore delegato di Manpower:
«Le fusioni che riguardano compagnie operanti nello stesso business
comportano una riduzione da 4 a 1 delle posizioni per top e middle
manager. Basta pensare al settore bancario per averne una conferma
immediata. In Europa le cose vanno così e sono i processi di
consolidamento a fare da padroni, in altre aree accanto alle
concentrazioni si sviluppano anche nuove opportunità e business che non
conoscevamo». Aggiunge Max Fiani, partner di Kpmg, società che monitora
il mercato delle acquisizioni: «Le aree professionali nelle quali si
taglia sono finanza, amministrazione e controllo, si salvano il
commerciale e la logistica. Ci sono stati anche di recente casi
nell’industria del cemento e negli elettrodomestici che hanno portato a
razionalizzare siti produttivi e headquarter». E le riduzioni di
posizioni pregiate è stimato tra il 20 e il 30%. C’è poi da tener
presente che in caso di shopping di nostre imprese da parte di
multinazionali c’è il rischio di spostamenti del quartier generale fuori
dall’Italia e in questi casi è chiaro — fa notare Fiani — che avere lo
stesso passaporto dell’azionista dà maggiori chance di conservare il
posto. Gli effetti di queste operazioni interessano a catena anche la
filiera di fornitura dei servizi professionali che si accentra sulla
casa madre. Tutti questi movimenti vanno nella stessa direzione perché
fanno diminuire le posizioni alte a disposizione dei giovani manager
italiani.
Per completare il quadro occorre tenere presente che gli
anni della Grande Crisi sono stati anche anni di profonde
ristrutturazioni che hanno reso le organizzazioni aziendali più piatte.
Dal 2008 a fine 2014, secondo dati diffusi da Manageritalia, i dirigenti
del settore privato italiano sono diminuiti del 5% a fronte però di un
aumento consistente del numero dei quadri, incremento che almeno in
parte copre un trend di mobilità discendente. Commenta l’economista
industriale Enzo Rullani: «Ci mancano le piramidi, abbiamo tante unità
di base e poco ceto medio dirigenziale. O diventi imprenditore o hai
poche chance di promozione perché resti escluso da macchine
organizzative rigide». Ma tutto ciò avviene secondo Rullani nel lavoro
esecutivo non in quello «generativo» reso possibile dall’Internet 4.0.
«Può partire una nuova mobilità sociale che non si basa più sulla
cooptazione dall’alto ma sullo spirito di intraprendenza. Le
organizzazioni avranno crescente bisogno di persone che sappiano
risolvere i problemi e siano disposte a investire su di sé e a
incorporare il rischio del fallimento». Da qui può ripartire la
meritocrazia, si tratta di vedere però quanti posti sarà capace di
mettere in palio.
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