La Stampa 3.6.16
Nelle segrete di Palermo le vite spezzate dei rinnegati
Le
celle dell’Inquisizione nel complesso monumentale dell’Università
raccontano le pene di chi si convertiva per forza e per calcolo
all’islam
di Laura Anello
È il carcere segreto
dell’Inquisizione spagnola, con le pareti delle celle ricoperte di
graffiti, dipinti, preghiere dei prigionieri. Il testimone di una
gigantesca macchina di malagiustizia che - dal Cinquecento alla fine del
Settecento, tempi in cui la Sicilia faceva parte del Regno di Spagna -
stritolò almeno 6500 uomini e donne. Tra loro, centinaiadi rinnegati,
cioè cristiani passati dall’altra parte della barricata, nel mondo
musulmano: un esercito di uomini che giuravano fedeltà ad Allah dopo
essere stati presi in schiavitù dai corsari «barbareschi» o in perfetta
libertà.
Un popolo sospeso tra due mondi, rimpallato da una sponda
all’altra del Mediterraneo - la Sicilia e la costa africana - e
costretto a cambiare religione due, tre, anche dieci volte nella vita.
Bastava, da cristiani, diventare schiavi dei «turchi» per proclamarsi
musulmani recitando la formula rituale e accettando la circoncisione. Ma
bastava riapprodare sulle sponde dell’odierna Europa per finire nelle
grinfie del Tribunale dell’Inquisizione di Palermo, accusati di eresia.
Tra Allah e Gesù Cristo
Un
ping pong continuo tra cristianità e islam. C’erano vite che in
cinquant’anni si dividevano a metà tra abluzioni rituali e preghiere a
Gesù Cristo, tra divieto di bere vino e rispetto cattolico
dell’astinenza dal mangiar carne il venerdì. Di che religione erano?
Difficile rispondere. E la domanda è tanto più inquietante adesso, in
tempo di estremismi e rigide contrapposizioni.
Gli ultimi studi
considerano che nel XVI secolo, il «periodo d’oro» dei rinnegati, oltre
trecentomila cristiani saltarono il fosso, tanto che ad Algeri
arrivarono a costituire quasi la maggioranza della popolazione. Appena
tre secoli fa era il mondo musulmano a offrire riconoscimenti e
opportunità di crescita sociale ed economica, quel mondo a dare - si
direbbe oggi - più possibilità di carriera. E così si proclamava fedeltà
a Maometto non soltanto per costrizione.
Il carcere è riemerso
nel 2004 nel complesso monumentale di Palazzo Chiaromonte Steri e ancora
adesso è un palinsesto tutto da decifrare. Racconta storie
straordinarie, come quella di fra Diego La Matina, l’eroe «di tenace
concetto» protagonista di Morte dell’inquisitore di Leonardo Sciascia,
il prigioniero che il 24 marzo 1657 riuscì a ferire a morte
l’inquisitore che lo interrogava. Nel carcere è stato ritrovato il luogo
del delitto.
Su una parete intera spicca il disegno di un
prigioniero, Francesco Mannarino, catturato a tredici anni mentre
pescava sulla costa di Palermo. Un dipinto tracciato con il colore rosso
che i prigionieri ricavavano grattando il cotto del pavimento delle
carceri. Il suo processo è stato ritrovato negli archivi della Reale
Inquisizione di Madrid: a Palermo i documenti furono tutti bruciati,
quando nel 1782 il viceré Caracciolo - amico degli Illuministi - decise
di abolire il Tribunale liberando le ultime tre donne accusate di
stregoneria. Un prezzo politico da pagare, quel rogo, per cancellare i
nomi di tutti coloro - spie, delatori, collaboratori - che sul carro
dell’Inquisizione erano saliti per averne benefici, prebende e garanzie
di impunità.
Una storia emblematica
Ebbene, Francesco
Mannarino ha una storia emblematica. Il giovane, rientrato a Palermo, si
presenta spontaneamente al Tribunale con il padre: racconta di essere
rimasto in cuor suo sempre fedele alla religione cattolica e di essere
riuscito a liberarsi dopo aver ucciso il ràis di una feluca barbaresca. È
il solito ritornello per evitare l’incriminazione. Ma tre testimoni lo
accusano di raccontare il falso. Due sostengono di avergli sentito dire
in Berberìa (l’attuale Maghreb) che lì la vita era migliore, e un altro
rivela addirittura che Mannarino era fuggito volontariamente dall’altra
parte del Mediterraneo. Il ragazzo viene quindi catturato, ma si difende
denunciando a sua volta due dei testimoni, che lo accuserebbero per
vendetta. Viene creduto e assolto. Come lui altre migliaia.
In
senso opposto le conversioni erano molto rare. Pochi, pochissimi
musulmani diventarono cristiani. L’unica clamorosa conversione - come
racconta Lucetta Scaraffia nel suo Rinnegati - fu nel 1646 quella del
principe tunisino Ahmed Khodja, fuggito in Sicilia, battezzato con una
cerimonia pubblica e accolto con tutti gli onori. Peccato che qualche
anno dopo, incapace di inserirsi nel nuovo mondo, abbia deciso di
tornare in patria e alla sua religione. E che più tardi sia stato di
nuovo tentato di fuggire nel mondo cristiano, sempre sospeso, sempre
inquieto. Vittima, o prigioniero, di due mondi lontani e vicinissimi.