La Stampa 30.6.16
Seggio all’Onu
Che cosa non ha funzionato
di Stefano Stefanini
Pareggiare
è meglio che perdere. Ieri, alle Nazioni Unite, l’Italia pensava di
vincere. Deve accontentarsi di un punto anziché tre. Respiriamo di
sollievo, ma dobbiamo pensare a cosa non ha funzionato.
Il
compromesso fra Italia e Olanda, un anno a testa in Consiglio di
Sicurezza, testimonia del buon senso di Matteo Renzi e Mark Rutte, nel
disordine europeo che li circondava.
L’hanno raggiunto ai margini
di un Consiglio Europeo kafkiano dominato dalle tensioni sull’uscita del
Regno Unito dall’Ue, mentre il mondo reale batteva alle porte con
l’attentato di Istanbul, città europea, carta geografica alla mano. Al
Palazzo di Vetro il ministro Gentiloni e i nostri diplomatici avevano
faticosamente recuperato la manciata di voti di svantaggio. L’Italia può
essere moderatamente soddisfatta.
All’Onu l’Assemblea Generale è
una cassa di risonanza che ha il pregio dell’universalità e il limite
dell’irrilevanza. Contano le agenzie, come l’Alto Commissariato per i
Rifugiati, l’Unicef, l’Organizzazione Mondiale della Sanità; contano i
Caschi Blu che, dove possono, mantengono la pace; conta il Segretario
Generale. Conta soprattutto il Consiglio di Sicurezza, cinghia di
trasmissione fra legittimità internazionale e realpolitik delle grandi
potenze, del burro e cannoni, delle crisi intrattabili. E’ una
democrazia molto imperfetta, in cui i cinque membri permanenti (P5:
Russia, Usa, Francia, Regno Unito, Cina) sono molto più uguali degli
altri. Non riflette più gli attuali equilibri mondiali; non dà spazio ai
Paesi emergenti; è spesso paralizzato dal veto. Ma funziona.
Il
seggio non permanente è un riconoscimento di status internazionale. Roma
ha un buon albo d’oro. Il gruppo cui apparteniamo (Weog) conta 28 Paesi
e ha diritto a due posti. Entrata nell’Onu nel 1955, l’Italia è stata
in CdS sei volte, 12 anni su 62. Adesso aggiunge un mezzo mandato
annuale nel 2017. Questo risultato è frutto di costante impegno
societario, specie nel mantenimento della pace, come in Libano e nel
Corno d’Africa, e di assidua azione diplomatica a New York, nei fori
multilaterali, nelle capitali di tutto il mondo. Il 2017 ci troverà
nella stanza dei bottoni Onu, dove si giocano partite che ci toccano da
vicino: Mediterraneo, dalla Libia alla Siria; terrorismo di Isis;
confronto fra Russia e Ucraina; migrazioni e rifugiati; Afghanistan e
Iraq dove addestriamo le forze armate locali; Iran reintegrato nella
comunità internazionale; non proliferazione. E’ in corso un
riallineamento mondiale. Medio Oriente, Ankara e Gerusalemme
normalizzano i rapporti diplomatici, mentre israeliani e sauditi si
scambiano segnali di fumo. Londra post-Brexit, più eccentrica rispetto
all’Europa, non può più assicurare la saldatura atlantica fra Washington
ed europei. Unico P5 Ue, la Francia può utilizzare il seggio permanente
per compensare sulla scena internazionale il rapporto europeo con
Berlino. Il 20 gennaio s’insedierà la nuova amministrazione americana.
La Germania non sarà nel Consiglio di Sicurezza. L’Italia, Paese Ue e
Nato, può diventare pedina chiave negli equilibri europei e occidentali.
Può. Per essere all’altezza dovrà far tesoro della lezione di giovedì.
Pensavamo di avere i voti. Su 128 necessari, ne sono mancati 15 alla
prima tornata (solo 3 all’Aia); più di 30 nelle successive. Più che
errore di calcolo è ottimismo fuorviante nell’interpretare i riscontri
che riceviamo. Ci rassicuriamo da soli; trascuriamo, specie all’Ue, la
costruzione di alleanze. Per vincere all’Onu, come insegnava Paolo
Fulci, bisogna prendere i voti in Africa, Asia, America Latina. Svezia e
Olanda, di fama troppo rigoriste, ne hanno ricevuti più di noi: forse
la loro coerenza paga più della nostra innata duttilità. Abbiamo chiuso
ambasciate e rubinetti della cooperazione. Per circostanze indipendenti
dalla nostra volontà si sono aperti contenziosi bilaterali seri con tre
Paesi leader: Brasile, India ed Egitto. Avremo ragione da vendere su
tutti e tre, ma non abbiamo saputo isolarli dai rapporti complessivi.
Alleati e partner si domandano spesso quanto sia convinto il nostro
impegno. Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre, l’Italia ha
offerto alla Francia solidarietà verbale, non aiuti militari per
alleggerirla in Mali (glieli ha dati la Germania). Né abbiamo innalzato
l’asticella contro Isis in Iraq e in Siria. La leadership che
rivendichiamo in Libia è finora rimasta sulla carta. Il 2017 ci vedrà in
Consiglio di Sicurezza e con la Presidenza G7. Ce ne possiamo servire
per rilanciare Europa e Atlantico sotto attacco dall’interno. Restano i
nostri assi cardinali ma richiedono una capacità nazionale di visione,
strategia ed esecuzione. Una politica estera di piccolo cabotaggio non
basta più.