La Stampa 25.6.16
Ora la sinistra Pd minaccia lo sciopero delle fiducie
E scoppia il caso delle dimissioni di Orfini a Roma
di Carlo Bertini
La
vera novità politica è una minaccia, stavolta più rumorosa e
potenzialmente foriera di timori per il premier, rispetto alle altre già
tentate senza successo in passato: è una sorta di sciopero delle
fiducie al governo Renzi quello che la minoranza Pd prefigura nella sua
contro-direzione riunita al Nazareno. Uno sciopero che bisognerà vedere
quale seguito avrà di fronte alla prospettiva di far cadere l’esecutivo
sotto il fuoco amico, tanto che Gianni Cuperlo subito frena e prende le
distanze dai seguaci di Bersani. Ma il dado è tratto per loro: se il
premier non ascolterà la sequela di richieste che mirano a
commissariarlo, condizionando le politiche del governo, i dissidenti
della sinistra di Camera e Senato non voteranno più «tutte quelle
fiducie in bianco sui provvedimenti una dietro l’altra», assicurano i
compagni in Transatlantico prima di andare a conclave.
Del resto,
lo dice chiaro e tondo Roberto Speranza, che della minoranza Pd è uno
dei due leader, nella sua prolusione all’affollato summit al riparo dal
caldo torrido sotto i soffitti a cassettoni della sede del Pd.
«Chiediamo un cambio profondo, da oggi diciamo basta. Sulle questioni
sociali bisogna invertire la rotta e non c’è più voto di fiducia che
tenga. Non siamo più disponibili a sostenere provvedimenti che aggravano
le fratture sociali». E allora ecco il lungo cahiers de doléances della
sinistra, che per carità premette di «non voler fare il processo a
nessuno», ma che «c’è stata una sconfitta molto dura» e occorre cambiare
le politiche di governo. «In questi mesi abbiamo spesso votato cose che
non ci convincevano. Ad esempio per togliere la tassa sulla casa in
maniera indistinta, anche ai miliardari». E si spertica il giovane
Speranza, mentre in sala ascoltano Errani, Bersani e compagni, a dire
che questa «non è la solita polemica interna, che il Pd deve ripartire
dalla vita reale delle persone mostrando di aver capito la lezione». La
liturgia da ex Pci viene rievocata da Vasco Errani, che era dato in
predicato per entrare in segreteria, e che nega ogni gioco di poltrone,
«sono tutte sciocchezze, non si gioca con le figurine Panini. Se il Pd
non apre una fase nuova, andiamo a sbattere e subisce un colpo pesante
tutto il paese». L’ex braccio destro di Bersani chiede un’azione di
igiene «reciproca, basta vecchio-nuovo», rifiuta il bollino di
«sabotatori» che qualcuno vuole appiccicare. Esordisce come si faceva
una volta con un «concordo in pieno con la relazione di Speranza». Che
aveva parlato di misure di contrasto alla povertà, degli errori sulla
scuola, dei timori su sanità e pensioni. Invitando Renzi a mettere da
parte «l’arroganza del ciaone» ad essere più «umile sul referendum» e a
celebrare «il funerale del partito della nazione».
E se Cuperlo
evoca non solo l’analisi sul mancato voto delle periferie, ma chiede di
aprire anche la discussione sull’Italicum, i renziani prevedono una
qualche apertura del premier oggi in Direzione. «Noi abbiamo pensato
l’Italicum in un momento diverso - ammette Emanuele Fiano - e credo che
Renzi farà una riflessione seria e aperta su tutto questo».
Anche
se oggi la carne al fuoco sarà tanta, sulla batosta romana sono esplose
le tensioni tra correnti sul presidente e commissario del Pd romano,
Matteo Orfini. Invitato a dimettersi da commissario da Marianna Madia,
con un’intemerata che ha dato la stura a richieste analoghe dei
bersaniani e di alcuni ex presidenti di municipi. E che ha prodotto una
reprimenda del vicesegretario Guerini, fatto inedito nell’era renziana:
«Io tengo sempre scolpita a mente una frase di Alda Merini che dice: “Mi
piace chi sceglie con cura le parole da non dire”. Consiglierei a tutti
più sobrietà nelle dichiarazioni». Oggi Orfini non si presenterà
dimissionario: il suo mandato scade a ottobre e sarà il congresso a
decidere.