sabato 25 giugno 2016

La Stampa 24.6.16
Dove nasce il risentimento verso i politici
di Stefano Lepri

Immiserimento dei ceti medi, disagio delle periferie, nuove povertà sono parole disparate con cui cerchiamo di afferrare ciò che il terremoto elettorale nei Comuni rivela. Ma bisogna guardarsi da schemi frettolosi, buoni in altri Paesi.
In Italia la crisi ha caratteristiche proprie; e il Movimento 5 stelle non somiglia a nessuna delle forze che raccolgono la protesta altrove.
Altrove esistono «perdenti della globalizzazione» più facili da identificare come categoria sociale. Nel voto britannico di ieri, il Nord deindustrializzato a fronte della Londra ricca. Negli Stati Uniti in campagna elettorale, la classe operaia bianca i cui redditi sono fermi da forse trent’anni, se non in regresso.
Nell’insieme dei Paesi avanzati, le disuguaglianze sociali si sono accresciute, anche gravemente. Che l’1% soltanto della gente si sia arricchito, e il 99% no, è una forzatura ideologica, però negli Usa se si corregge in 10% e 90% non si è lontani dal vero, e non va bene. In più, l’uscita troppo lenta dalla grande crisi toglie speranza di un futuro migliore.
L’Italia risulta, al contrario, perdente nel suo insieme; per motivi complessi, probabilmente di origine soprattutto interna. Il reddito pro capite, già stagnante prima della crisi, è oggi del 7% inferiore a quello del 2000. Tuttavia, dai dati Istat e Banca d’Italia non risulta un aumento della diseguaglianza media.
Bisogna osservare più in dettaglio. Significativo è il primo dei grafici che compaiono nell’indagine Nomisma sulle famiglie pubblicata ieri. La «debole ripresa» che risulta dagli indicatori ufficiali dell’economia i giovani sotto i 35 anni non l’hanno mai vista. Solo nelle fasce di età superiori si comincia a tornare sopra i livelli di reddito del 2010.
Tra i giovani, anche chi trova un posto fisso (ora magari con un contratto a tutele crescenti) guadagna assai meno, a parità di qualifica, rispetto ai suoi simili di 10 o 20 anni fa. Sono poi esili le speranze di carriera. Secondo uno studio dell’economista Michele Raitano ripreso da Nomisma, l’Italia è uno dei Paesi dove più i figli dei ricchi restano ricchi e i figli dei poveri restano poveri.
La disuguaglianza dunque non è cresciuta in sé ma sempre più si eredita; e per chi ha trent’anni il nostro è già un Paese in rapido declino. Quasi metà dei ragazzi di liceo sognano di trasferirsi all’estero. D’altronde in Italia sono rari i casi di arricchimento fulmineo nella finanza o negli affari (pur se destano scandalo gli stipendi dei capi di certe banche in difficoltà).
Calo dei redditi e perdita di speranze per i figli, sentiti come fenomeno collettivo, inducono a confessare ciò che forse prima si celava. Una risposta come quella sulle accresciute difficoltà a pagare i mutui casa – in un periodo di tassi di interesse al minimo! - annuncia forse un atteggiamento più aggressivo nei confronti delle banche. Però il bersaglio vero è un altro.
In una economia che stenta tutta, come la nostra, si è diffusa l’impressione che l’unica via per fare denaro in fretta fosse sfruttare il denaro pubblico, entrando in politica o facendo affari con i politici. Non avendo nababbi di Wall Street o della City a fronte delle difficoltà delle piccole imprese e degli stipendi fermi, il risentimento si è concentrato contro la «casta» dei politici.
In tutti gli altri Paesi quello che si usa chiamare «populismo» assume alla fine caratteri riconoscibili o di destra o di sinistra, benché diversi rispetto al passato. Da noi no: un meccanismo della politica bloccato, percepito come benefico solo a se stesso, genera una forza di opposizione dal programma vago il cui unico punto irrinunciabile è fare piazza pulita dei politici precedenti.